La rivoluzione del 1820 in Sicilia


Il 15 giugno 1820 gli indipendentisti insorsero. Venne istituito un governo a Palermo (18-23 giugno), presieduto dal principe di Paternò, che ripristinò la Costituzione siciliana del 1812, con l’appoggio degli inglesi. Il 7 novembre 1820 il re Ferdinando inviò un esercito agli ordini di Florestano Pepe (poi sostituito dal generale Pietro Colletta) che riconquistò la Sicilia con delle lotte sanguinose e ristabilì la monarchia assoluta, risottomettendo la Sicilia a Napoli.

Il moto rivoluzionario palermitano del 1820 fu caratterizzato dall’assenza di un disegno politico e dal prevalere di particolarismi a danno del sentimento patriottico. L’odio dei palermitani contro Napoli, che aveva tolto alla città il suo ruolo egemone, esplose quando, a seguito di una insurrezione carbonara nel Napoletano, capeggiata dai tenenti Morelli e Silvati e dal generale Guglielmo Pepe, Ferdinando I fu costretto a concedere la costituzione, di Spagna che, assicurò il governatore di Sicilia, sarebbe stata estesa anche all’isola.

La notizia giunse in corrispondenza del “festino” di santa Rosalia, il 15 luglio, quando le strade di Palermo erano affollate sia da residenti che da elementi provenienti dalle campagne. La protesta esplose in nome dell’indipendenza politica, simboleggiata dall’aggiunta di un nastro giallo alle coccarde tricolori, e, paradossalmente, Palermo invocò il ripristino della costituzione del 1812, che era più conservatrice di quella napoletana, dal momento che aveva la Camera dei pari non elettiva. Di diverso parere fu Messina, tradizionalmente antagonista di Palermo, che dichiarò di accettare la costituzione napoletana. La rivolta popolare di Palermo divenne subito violenta ed anche le corporazioni artigiane, invitate dal governatore a mantenere l’ordine come era avvenuto in occasione di altre rivoluzioni, si unirono ai rivoltosi e si scontrarono con l’esercito, capeggiate dal potente console della corporazione dei conciapelle Francesco Santoro. La folla si dette al saccheggio e all’assalto delle prigioni per liberare i detenuti.

Nelle campagne la rivolta, priva di orientamento politico, assunse caratteri chiaramente sociali, i braccianti occuparono le terre comuni privatizzate dai baroni e gruppi di contadini si recarono a Palermo per partecipare al saccheggio.

In un secondo tempo i consoli delle corporazioni cercarono, come sempre, di ristabilire l’ordine e costituirono una giunta amministrativa, che si occupo’ di organizzare milizie armate per riprendere in mano il potere, che era stato assunto dalle milizie napoletane, e per evitare che fosse il popolo ad impadronirsi di esso. Furono richiamati in città i nobili e alcuni di essi furono invitati ad entrare nella giunta amministrativa. La direzione della rivolta fu assunta dal principe di Villafranca, lo stesso che era stato arrestato nel 1811, ed entrò nella giunta anche Ruggero Settimo, ministro negli anni 1812-1814, mentre si astenne dal partecipare alla rivolta il principe di Castelnuovo.

La rivolta, che fin dall’inizio era stata priva di omogeneità politica e di direttive unitarie, manifestò chiaramente la sua fondamentale disomogeneità. Contadini e braccianti rappresentavano le forze del disordine mirato a fini sociali, ma privo di un chiaro disegno politico; le corporazioni, che non erano mai state veramente interessate alla rivoluzione contro il vecchio regime, erano interessate al riavvicinamento alla classe nobiliare allo scopo di ristabilire l’ordine; gli intellettuali democratici, capeggiati da Giovanni Aceto, in parte aderenti alla Carboneria, pur non avendo un chiaro programma politico, erano piu’ disponibili ad accettare la costituzione napoletana, piuttosto che ad allearsi con i nobili ed i contadini.

L’aspirazione secessionista della Sicilia incontrava l’opposizione dei liberali napoletani, che temevano il risorgere del potere nobiliare e carezzavano l’idea di un parlamento costituzionale unitario, artefice del “risorgimento politico” del regno. Palermo, a sua volta, non era disposta a consentire al resto della Sicilia di mettere in discussione la sua supremazia. Le direttive rivoluzionarie di Palermo non trovarono consenso nei capoluoghi di provincia dell’isola (tranne che a Girgenti) e le discordie civili prevalsero sul comune senso di patriottismo. Messina, Catania e Siracusa si dissociarono dalla causa dell’indipendenza siciliana e inviarono loro rappresentanti al parlamento di Napoli, esse, infatti, che erano le province meno feudali dell’isola, erano consapevoli del fatto che l’unione con il continente avrebbe portato loro notevoli vantaggi di ordine economico. Per contrastare l’opposizione delle città dissidenti il Villafranca, d’accordo con la giunta, non esitò a scatenare la guerra civile sotto forma di rivoluzione sociale, e bande armate di contadini e popolani si dettero al saccheggio nei vari centri dell’isola. Palermo, però, con questo modo di procedere si trovò isolata e priva di appoggio quando il parlamento napoletano decise di piegare con la forza le mire separatiste della Sicilia. Palermo era stata incapace di governare adottando misure eccezionali ed imposte straordinarie per armare un esercito efficiente, ma piuttosto si era fermata all’esonero indiscriminato dalle imposte (furono aboliti il dazio sulla carne, l’imposta di registro, la conservazione delle ipoteche, la tassa sulla licenza di pesca e di caccia; furono ridotti il dazio sul macinato e la tassa sui negozianti e capitalisti). Ricchi e poveri su questo punto si trovarono tutti d’accordo, quasi che fosse possibile governare senza tasse. Quando Napoli decise la repressione della rivolta, Palermo si trovò impreparata ed isolata. Essa adottò contro i centri siciliani dissidenti la tecnica della “guerriglia”, che non sempre aveva successo, ma, anche quando riusciva a piegare i dissidenti con la forza, non suscitava consenso.

Per reprimere la rivolta di Palermo il governo di Napoli mandò un corpo di spedizione comandato da Florestano Pepe, che sbarcò a Milazzo il 5 settembre 1820; di esso facevano parte alcuni carbonari, tra cui i tenenti Morelli e Silvati, protagonisti della rivoluzione carbonara a Napoli. Essendo fallito il tentativo del principe di Villafranca di chiedere a Metternich un re austriaco per la Sicilia, si dovette trattare la resa nel timore, tra l’altro, che le forze della rivoluzione sociale potessero sfuggire al controllo della giunta, come di fatto avvenne. Nobiltà, borghesia e corporazioni artigiane erano per la pace, ma le forze anarchiche popolari, restie alla pace, che avrebbe posto fine ad un periodo di saccheggi e di impunità, presero le armi per difendere Palermo e saccheggiarono ville e palazzi, tra cui quelli del Villafranca. D’altra parte nell’esercito napoletano mandato a sottomettere Palermo c’erano bande armate di siciliani delle città dissidenti. Palermo fu bombardata ed il principe di Paternò trattò la resa con il generale Pepe, che la ottenne promettendo alla Sicilia una qualche forma di autonomia. La promessa non fu mantenuta dal governo costituzionale napoletano, che sconfessò il Pepe e, dopo averlo sostituito con Pietro Colletta, con il consenso dei rappresentanti di Catania e Messina che sedevano nel parlamento nazionale inflisse a Palermo una dura repressione.

I liberali napoletani non avevano in serbo un piano di riforme per la Sicilia e, considerandola terra conquistata, aumentarono i dazi per coprire le spese dell’occupazione militare. Respinte furono le richieste di Messina, che, in ricompensa dell’aiuto prestato, chiedeva di essere riconosciuta capitale dell’isola. Fu approvata una blanda legge antifeudale, dal momento che quella del 1812 non era stata resa pienamente operante, che dichiarava proprietà pubblica i fiumi e le sorgenti, rimetteva in vigore, annullando le privatizzazioni, i diritti pubblici di caccia, di pesca, di attingere acqua per i mulini e consentiva ai villaggi il recupero di terre comuni usurpate dai baroni.

Gli effetti del nuovo regime costituzionale non poterono evidenziarsi perchè nel 1821, in seguito al congresso di Lubiana, dove Ferdinando I chiese l’intervento militare austriaco, dichiarando che la costituzione gli era stata imposta con la forza, gli Austriaci invasero Napoli, ponendo fine all’esperimento costituzionale, e in quell’occasione la Sicilia fornì scarso appoggio, accettando, così, passivamente il ritorno dell’assolutismo di Ferdinando I, mentre era costretta a sborsare ingenti somme per il mantenimento delle truppe austriache di stanza in Sicilia. L’atteggiamento passivo della Sicilia era il sintomo di un profondo pessimismo politico, acuito dal forte divario esistente tra la Sicilia e Napoli; si faceva, però, strada timidamente un desiderio di miglioramento alla luce di quanto avveniva in altri paesi europei.

 

Fonte: ilcasalediemma.it/