LA RIFORMA E IL RISCHIO PASTICCIO


Di Angelo Panebianco

Premierato. Da dove nascono le difficoltà? Perché né la maggioranza né l’opposizione sono fin qui riuscite a fare proposte solide e coerenti? Perché la maggioranza sembra incapace di tirare fuori un progetto del quale nemmeno chi si oppone al premierato possa negare che esso sia comunque ben congegnato? E perché l’opposizione non è al momento in grado di fare una persuasiva proposta alternativa? Anticipo la risposta: la causa è la frammentazione, il fatto che sia la maggioranza che l’opposizione sono agglomerati in cui c’è dentro di tutto, in cui convivono forzatamente orientamenti fra loro incompatibili.
La proposta di premierato della maggioranza, anche nella ultima versione, è il frutto di un tentativo di compromesso fra fini inconciliabili. Da un lato, la volontà di Giorgia Meloni di rafforzare il governo del premier tramite l’investitura popolare e, dall’altro, la volontà della Lega di impedire che ciò davvero avvenga garantendosi la possibilità, a elezione avvenuta, di fare lo sgambetto al premier eletto e di sostituirlo aggirando e neutralizzando il voto popolare. Come è ovvio, il compromesso fra chi vuole un premier forte e inattaccabile e chi lo vuole vulnerabile, non può produrre altro che un pasticcio.
L’opposizione non è messa meglio. Carlo Calenda dice che c’è una proposta su cui tutta l’opposizione è in grado di convergere: il cancellierato alla tedesca. Non metto in dubbio la sua buona fede ma so che le cose non stanno affatto così.
Il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg evita con cura di farne il nome, quasi si trattasse del demonio in persona. Ma il norvegese non fa nulla per nascondere a quali dichiarazioni egli sta rispondendo in questo freddo e piovoso mercoledì belga. Non ha scelta. Troppo incendiarie sono state le parole dell’ex e forse futuro presidente degli Stati Uniti, il quale ha vanificato la promessa di solidarietà che è il pilastro stesso della Nato: nel caso di un’aggressione, la sua America si rifiuterebbe di intervenire in soccorso di un’Europa morosa, che si rifiuta di investire nella sua difesa.
La risposta di Stoltenberg, a nome degli alleati, si articola in due parti. Nella prima dà ragione nei fatti a Trump, sia pure con una piccola forzatura interpretativa delle sue esternazioni: «Le critiche che sentiamo non riguardano la Nato ma i suoi membri che non spendono abbastanza per l’Alleanza. È questo è un punto fondato, di cui si è già discusso con diverse Amministrazioni americane». La risposta è la notizia del giorno, che Stoltenberg si è affrettato ad anticipare, nonostante non fosse previsto che venisse annunciata in occasione di un vertice il cui tema centrale rimane la guerra di aggressione russa in Ucraina: nel 2024, 18 dei 31 Paesi della Nato dedicheranno alla difesa almeno il 2% del Pil, la fatidica soglia che sin dal 2014 al vertice di Cardiff si erano impegnati a raggiungere. È un record: in nove anni gli Stati europei e il Canada insieme hanno aumentato di ben 600 miliardi i loro bilanci militari. Fra i nuovi virtuosi, assente ancora l’Italia, c’è per la prima volta la Germania, la prima economia d’Europa. E il loro numero potrebbe anche aumentare, grazie agli aggiustamenti di bilancio in corso in alcuni Paesi.
La seconda parte è una piccola lezione di storia sulle ragioni del successo di un’alleanza, che ha assicurato 75 anni di dissuasione e pace. Una Nato forte rende più forti gli Stati Uniti, che «non hanno mai vinto una guerra da soli, dalla Corea all’Afghanistan», ricorda Stoltenberg. Forse c’è un po’ di esagerazione sul ruolo avuto dagli alleati. Gli Usa contano ancora per più di due terzi delle spese complessive della Nato e in fondo sono sempre 80 mila soldati americani e l’ombrello nucleare Usa a garantire la sicurezza degli europei. Ma è indubbio che l’egemonia strategica degli Usa abbia avuto nella solidarietà atlantica una componente cruciale della sua durata e del suo successo.
Il vero problema è che, a differenza di sei anni fa, quando era alla Casa Bianca e agitava le stesse minacce, le dichiarazioni di Trump cadono in un contesto radicalmente diverso, dove la guerra non è più un’ipotesi di scuola. Putin l’ha scatenata contro l’Ucraina ed è convinzione di molti Paesi, da quelli nordici alla Polonia, alla stessa Germania che entro pochi anni potrebbe farlo anche contro un Paese della Nato. L’ipotesi che in un crescendo shakespeariano il Cremlino liberi i mastini della guerra è ormai entrata nella conversazione di diplomatici ed esperti. Lo Zeitgeist è alla mobilitazione. Al punto che anche la Germania, come ci raccontano oggi Mara Gergolet e Stefano Montefiori, infrange il tabù dell’arma nucleare e discute apertamente di una dissuasione atomica europea, a partire dalla «force de frappe» francese. Insinuare, come fa Trump, il dubbio che la Nato di fronte a un eventuale attacco russo non possa contare sull’America, non più disposta a rischiare un olocausto nucleare per la difesa di Tallinn, ne rende meno campata in aria la prospettiva e con le parole di Stoltenberg «mina la sicurezza di tutti».
Per questo il suo doppio messaggio va letto come l’avvio di una nuova strategia dell’abbraccio, che, con l’aumento delle spese militari da parte degli alleati europei, tolga a Trump ogni argomento nell’eventualità di un suo ritorno alla Casa Bianca. Certo, possiamo sempre sperare che alla fine gli elettori americani faranno la cosa giusta, che l’isolazionismo transattivo di Trump verrà sconfitto e che Joseph Biden vincerà. E forse andrà proprio così. Ma se poi non vince?

Fonte: Corriere