di Stefano Ceccanti
Giovanni Matteoli, che ha collaborato strettamente con Giorgio Napolitano negli anni della sua Presidenza, ci offre qui un’angolatura preziosa di lettura di quegli anni e del ruolo svolto dall’istituzione Quirinale. Anni “di dissoluzione progressiva del sistema politico”, di “frammentazione” e di “asprezza” nei conflitti che hanno finito per provocare, per reazione, un notevole grado di interventismo presidenziale, l’esercizio di un effettivo correttivo presidenziale del sistema fino “a doversi sottoporre con riluttanza alla ricandidatura dopo la fine del primo mandato per la persistente paralisi dimostrata dal sistema dei partiti”, come scrive Guido Melis nella Prefazione.
Matteoli descrive anzitutto il punto di arrivo politico a cui Napolitano era giunto nel 2006, poco prima di essere eletto. Dopo aver sostenuto per anni la prospettiva di un partito socialdemocratico, riteneva ormai questo esito “non più attuale e realistico” e pertanto necessaria una prospettiva più ampia che facesse tesoro della “prospettiva dell’Ulivo”. Il Pd sarebbe nato l’anno seguente. In assenza di questo tipo di partito in grado di riordinare il campo del centrosinistra, l’Unione che lo aveva eletto in Parlamento in quello stesso anno si rivelava sempre di più. con l’andare dei mesi. “una coalizione squinternata”, che già nel febbraio 2007 provocò una prima crisi, poi rientrata. sulla politica estera. Già allora “era abbastanza facile prevedere che la situazione non potesse che peggiorare” e questo dato aveva delle connessioni con lo strumento scelto per orientare il sistema, il premio di maggioranza in turno unico che favoriva coalizioni per vincere ma non necessariamente adatte per governare, oltre al “meccanismo diabolico” creato dal ministro Calderoli coi premi regionali al Senato per impedire la nascita di una maggioranza di centrosinistra. Per questo, pur con qualche sorpresa per l’accelerazione impressa de Veltroni nella costruzione di un Pd non vincolato a schieramenti eterogenei nel convegno di Libertà Eguale a Orvieto del gennaio 2008, Napolitano non fu sorpreso dalla caduta anticipata inevitabile del Prodi 2.
Potremmo dire che forse mai come nel periodo della Presidenza Napolitano emerse chiaramente “la forte interdipendenza che sempre più si è instaurata tra politica nazionale e politica internazionale”, anche rispetto alla grave crisi del 2011, che non era risolubile altrimenti se non con la nascita di un Governo tecnico: “con lo spread a livelli stratosferici, e quindi con l’eventualità di incontrare seri problemi di raccolta del finanziamento internazionale per i titoli di Stato di un paese a rischio, non era praticabile la prospettiva elettorale che comportava almeno tre mesi di tempo per mettere in sella un nuovo esecutivo”.
Rispetto alle funzioni della Presidenza, isola di stabilità in anni convulsi anche per gli interlocutori europei come segnalato dal Presidente della Commissione europea Juncker, non a caso Matteoli ci segnala anche la crescita del ruolo del Consiglio Supremo di Difesa rispetto alle ricorrenti crisi internazionali, assicurando così il rapporto stretto tra i principali ministri coinvolti nelle scelte ed il Capo dello Stato.
Anche la vicenda successiva del jobs act del Governo Renzi era del resto vista da Napolitano in profonda sintonia col lavoro che Mario Draghi stava svolgendo come presidente della Bce “per stimolare i governi” europei “sul terreno delle riforme”, cioè cercando “nuove forme di protezione.. senza arroccamenti in difesa”, come precisò più liberamente l’1 maggio 2015, dopo aver finito il mandato.
Interessanti anche le precisazioni sull’inizio della legislatura 2013 quando “Bersani non chiese mai apertamente un incarico pieno”, ma commise comunque l’errore di tentare un pre-incarico invece della soluzione suggeritagli da Macaluso attraverso Errani, di suggerire la nomina di un esploratore che non lo esponesse direttamente alla probabile sconfitta. La situazione era anche resa però più complicata dal fatto che non potessero essere utilizzati come esploratori i due Presidenti delle Camere, avendo scelto di eleggere due parlamentari di prima legislatura, Boldrini e Grasso. Quanto invece alla successiva mancata elezione di Prodi, oggetto spesso di varie ricostruzioni polemiche, Matteoli ritiene la questione più semplice: il punto è che “una parte non irrilevante dei grandi elettori considerasse la candidatura di Prodi come troppo di parte”.
Successivamente, dopo la rielezione, si formò il Governo Letta che portò con sé ben presto “critiche crescenti di attendismo”, ritenute “oggettivamente” non immotivate. Si passa qui velocemente, dopo le primarie Pd, alla formazione del Governo Renzi rispetto al quale, in nome della separazione dei poteri, Napolitano ritiene di non acconsentire alla nomina alla Giustizia di un pubblico ministero in carica, Gratteri: “una delle due parti in gioco, l’accusa” avrebbe così inopportunamente assunto la “massima responsabilità in materia”. Renzi “aveva ricevuto in eredità” il progetto di riforma costituzionale elaborato dalla Commissione dei saggi Letta-Quagliariello, di cui Napolitano era di fatto il vero padre. Scrive Matteoli: “A mio avviso tale valutazione è di fondo veritiera, con l’avvertenza che il suo consenso all’impianto delle riforme aveva un carattere generale e non riguardava direttamente tutti i temi e ancor più i punti di carattere secondario”. Napolitano leggeva positivamente in complesso la riforma in continuità con “la posizione favorevole del centrosinistra a una forma di premierato nella Bicamerale del 1997-1998”. Napolitano, come ricorda l’altro importante collaboratore, Pasquale Cascella, era favorevole a una soluzione che prevedesse un sistema elettorale a prevalenza maggioritaria combinato con norme costituzionali simili a quelle tedesche in materia di forma di governo.
Ultime nella nostra esposizione, ma non ultime per importanza, poi le notazioni su due conflitti: quello col Governo Berlusconi sul decreto Englaro e quello con la procura di Palermo con le intercettazioni del Presidente con l’ex-ministro Mancino che la procura voleva utilizzare.
La mancata promulgazione del decreto sul caso Englaro non avvenne solo per mancanza dei requisiti di necessità e urgenza, ma anche per il rispetto della separazione dei poteri, di fronte a una sentenza della Cassazione che si pretendeva di superare. Fu uno scontro molto forte anche se, alla distanza, dopo il recente pronunciamento dell’Accademia vaticana per la vita più flessibile nel richiamo ai principi, appare evidentemente alle nostre spalle e non ripetibile. Ciò spiega anche meglio le ragioni di allora di Napolitano.
Di rilievo anche il conflitto di attribuzione con la procura di Palermo davanti alla Corte costituzionale per tutelare le prerogative presidenziali che non possono consistere solo nei poteri tipizzati in Costituzione, ma anche “di attività informali di raccordo e di moral suasion”, come la Corte riconobbe.