La Passione in punto di diritto: fu un processo farsa, Gesù doveva morire


Letteratura e arte danno una rappresentazione del procedimento a carico di Cristo falsata: irregolarità e competenze discordanti tra Pilato e il Sinedrio miravano a trovare il capro espiato

 

Si chiama Tra giustizia e letteratura, un avventura del pensiero (Vita e Pensiero, pagine 144, euro 15,00) il volume curato da Gabrio Forti, Giuseppe Rotolo e Arianna Visconti, realizzato per offrire al lettore nuove idee e prospettive, prendendo spunto da quanto maturato nell’esperienza denominata “Giustizia e letteratura” in corso da quasi quindici anni presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano a cura dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale. Pubblichiamo un estratto del contributo di Rotolo.

Il processo a Gesù è stato sublimato nei secoli dalle arti figurative, basti pensare ai capolavori dedicati al soggetto artistico dell’Ecce homo, dal genio pittorico di artisti del calibro di Caravaggio e di Antonello da Messina. A essere consegnata all’imperitura memoria in quelle opere è però un frammento di una più articolata vicenda giudiziaria celebrata innanzi al prefetto di Roma a Gerusalemme, Ponzio Pilato, quello corrispondente al tentativo dell’autorità di restituire alla libertà l’imputato dopo averlo torturato, nel convincimento della sua innocenza e nella speranza che l’inflizione di quella pena accessoria potesse soddisfare gli appetiti di chi ne pretendeva la condanna a morte (Gv 19,1-3). Altre opere altrettanto celebri ci offrono un’immagine più ampia del contesto di svolgimento della vicenda, la cui scena di allestimento richiama evidentemente quella di un giudizio al cospetto dell’autorità costituita. Si pensi per esempio al Cristo davanti a Pilato di Tintoretto, conservato alla Scuola grande di San Rocco a Venezia, a sua volta ispirato a un’incisione di Albrecht Dürer.

Le indagini attorno a quell’episodio – condotte secondo una prospettiva giuridica, storica, e non soltanto – hanno sollevato dubbi significativi circa il fatto che si sia trattato di un vero e proprio processo. Innanzi tutto, non pare definitivamente chiarita quale fosse la contestazione per la quale Gesù veniva tratto a giudizio. O meglio, paiono intrecciarsi diverse ragioni di differente fondamento, per le quali instaurare il processo: i crimini di cospirazione, sedizione e lesa maestà, secondo una prospettiva giuridica e politica; quelli di blasfemia e seduzione del popolo, secondo una lettura religiosa e teologica. Del resto, l’iscrizione sulla croce, secondo la procedura rituale, richiamava la contestazione e nel caso di specie l’evocazione del “re dei giudei” – non priva di amaro sarcasmo da parte del prefetto, il quale rispose alle rimostranze al riguardo rivoltegli dal Sinedrio con il suo «Quod scripsi, scripsi» – rappresenta una sorta di sintesi tra le due accuse mosse a Gesù Cristo, o per lo meno un loro comune denominatore, quasi come a segnalare il carattere “plurioffensivo” del reato.

Strettamente collegata a quella appena passata in rassegna è la seconda ambiguità ancora irrisolta: se si sia trattato di un unico processo, per quanto suddiviso in diversi segmenti, o di più procedimenti distinti tra loro. Di certo, la narrazione evangelica ci presenta il susseguirsi cronologicamente ordinato di diverse autorità, peraltro riconducibili sia all’istituzione religiosa sia a quella politica: i Sommi Sacerdoti, il Sinedrio, Ponzio Pilato ed Erode Antipa. Senza dubbio, la sanzione applicata, la morte per crocifissione, corrisponde a una pratica romana e in particolare alla previsione della lex Julia maiestatis del 46 a.C. in riferimento al crimen lesae maiestatis; tuttavia la legge era applicabile solo nei riguardi di cittadini romani, e quindi Ponzio Pilato nei confronti di Gesù poteva esercitare semmai una forma di coercitio e non certo di jurisdictio. Da ultimo, si dubita che si sia trattato di un vero e proprio processo in ragione della riscontrata assenza del suo esito necessario secondo il rito: non viene pronunciata una sentenza di condanna nei confronti di Gesù, ma questi è semplicemente consegnato alla morte in croce.

L’intera vicenda può essere scandita, come notò Agamben, da una serie di consegne o “tradizioni”, secondo una raffinata considerazione etimologica dei termini latini corrispondenti, a partire da quella di Giuda (il che suggerisce la riflessione sulla comunanza semantica dei termini “tradizione” e “tradimento”); a sua volta, la vicenda stessa è stata consegnata alla tradizione e all’imperitura memoria dei fatti narrati appunto come il processo a Gesù.

Proprio l’assenza di una sentenza di condanna condensa in sé il tratto di “mistero” a esso attribuibile, almeno se si conviene con gli esiti della pregevole indagine sulle finalità del processo tracciata da Salvatore Satta, giurista e al contempo raffinato letterato, che ne individua l’essenza appunto nel giudizio: «Se uno scopo al processo si vuole assegnare questo non può essere che il giudizio; e processus judicii era l’antica formula, contrattasi poi, quasi per antonomasia, in processo».

Come pure nel giudizio si annida il mistero della vita, come spiegava sempre Satta: «Se noi contempliamo il corso della nostra esistenza – il breve corso della nostra vita individuale, il lungo corso della vita dell’umanità – esso ci appare come un susseguirsi, un intrecciarsi, un accavallarsi di azioni, belle o brutte, buone o cattive, sante o diaboliche: la vita stessa anzi non è altro che l’immenso fiume dell’azione umana, che sembra procedere e svolgersi senza una sosta. Ed ecco, a un dato punto, questo fiume si arresta; anzi ad ogni istante, ad ogni momento del suo corso si arresta, deve arrestarsi se non vuole diventare un torrente folle che tutto travolga e sommerga: l’azione si ripiega su se stessa, e docilmente, rassegnatamente si sottopone al giudizio».

Quello a Gesù non è stato dunque un processo per via dell’assenza di un giudizio; né un giudizio poteva esserci, dal momento che oggetto di quell’attività di discernimento erano non soltanto i fatti della vita, ma anche il loro significato essenziale e trascendente il piano del mero accadimento materiale. Pertanto, di fronte alle molte domande irrisolte che avvolgono i misteri del processo a Gesù, se ne può aggiungere una ulteriore: quale sia il modello di giustizia, se non più appropriato alla gestione di quella particolare vicenda, perlomeno suggerito dalle note materiali del suo svolgimento. Del resto, proprio la morte in croce di Gesù Cristo è stata individuata come passaggio saliente di riscatto e contrapposizione alla logica del capro espiatorio, quale tratto ricorrente nel modello autoritario e repressivo della giustizia penale.

Di Giuseppe Rotolo – fonte: https://www.avvenire.it/agora/pagine/il-processo-de-gesu-secondo-il-diritto-romano