La partigiana ‘Fioretto’ si racconta, dalla sap al covid "sempre Resistenza"


AGI – Il prossimo luglio Nina Bardelle, nome di battaglia “Fioretto”, compirà 95 anni. Quando AGI la raggiunge al telefono, è nella sua casa di Rivarolo, alla periferia di Genova. La sua voce è squillante e il suo racconto fluido, pieno di passione, a tratti commosso.

Sembra non esser passato un giorno dal 25 aprile 1945, quando Fioretto vede davanti a sé “un camion pieno zeppo di partigiani e un mondo di bandiere di tutti i partiti perché, lo dico da comunista e l’ho sempre detto durante tutta la Resistenza, non erano solo i comunisti ad aver combattuto: in montagna tutti volevamo la libertà“.

Nina ha 17 anni quando conosce “i ribelli” che combattono il fascismo e che vogliono cacciare i tedeschi, ma la violenza del regime la incontra ancora prima, da bambina: “Mio padre – racconta – era un perseguitato politico e posso dire di aver conosciuto la dittatura a 8 anni. Sapevo che lo andavano a prelevare alla sede della Rai, dove mio padre lavorava, lo portavano via, gli facevano del male, gli facevano bere bicchieroni di olio di ricino: l’unica fortuna è che tornava a casa, ma lo faceva sempre più distrutto, tanto che a 50 anni è morto”.

E’ per quella rabbia che le matura dentro, per l’orrore che vede ogni giorno, che decide di andare in prima linea a combattere: “Volevo andare in montagna, volevo fare come loro, ma non sapevo a chi chiedere, perché non lo si poteva fare con leggerezza. Parlare, informarsi, era pericoloso: non ci si fidava di nessuno – dice – Poi, un’amica un giorno mi ha portata in un locale mezzo distrutto dove c’erano molte altre donne che stavano seguendo un corso da infermiere, roba semplice, come medicare una ferita, fasciare con la benda.

E’ stato da quel giorno che ho cominciato. Mi sono presa il nome Fioretto, perché tutte sceglievano nomi strani e assurdi. Io dissi semplicemente “ma perché nessuna ha pensato al nome di un fiore?” e da allora mi hanno chiamata così. Quell’appellativo ci proteggeva: quasi nessuno conosceva il nome di battesimo dei partigiani perché era un’informazione preziosa, un dettaglio in meno da farsi estorcere sotto tortura”.

Nel 1944 Nina entra a far parte della Sap (Squadra Azione Partigiane). Lei è una delle tante donne genovesi che hanno fatto la Resistenza e hanno permesso alla città di diventare Medaglia d’oro proprio per la battaglia che ha portato alla resa dei tedeschi.

“Noi non avevamo voglia di uccidere, avevamo voglia di essere liberi – racconta Nina, mentre con la memoria ripercorre le sue azioni temerarie – Quando prendevano le persone per caricarle sui treni, che erano carri bestiame diretti alla deportazione, le trascinavano ferite sulla strada e, come fossero animali, le buttavano nei vagoni. Come si faceva ad essere indifferenti di fronte a scene del genere?

Mi ricordo che una volta, le donne di Bolzaneto si stesero sui binari per non far ripartire uno di quei treni. Non so se fosse coraggio, non ci si pensava: volevamo solo vivere ed essere liberi perché non ce lo lasciavano fare. Le brigate nere nemmeno ci lasciavano parlare: se due per strada si parlavano, venivano immediatamente avvicinate dalle brigate nere perché pensavano che stessero complottando contro di loro o criticando il fascismo. Era una cosa terribile. Dovevamo stare attenti. Al lavoro quasi non si poteva andare in bagno”.

Nina lavorava all’Ansaldo, anche nella mensa: lavava i pavimenti e, sapendo che lì sotto erano custoditi i bossoli da collaudare, versava l’acqua sporca tra le fessure delle travi per bagnarli e rallentare il lavoro.

“Quando mi chiedono se avessi paura, dico sempre che ora, quando ci ripenso, ne ho molta di più. Allora invece non ce ne rendevamo conto, eravamo prese dalla necessità di liberarci. Era lo spirito, il desiderio di reagire. Nella mensa dell’Ansaldo c’erano 700 operai a mangiare: ogni giorno ne vedevo due o tre di meno. Se ne andavano in montagna, ad unirsi agli altri. Arrivò persino il giorno in cui quel tavolo rimase vuoto perché tutti volevano liberarsi: non si poteva più vivere così, non era umanamente possibile. La rabbia di sapere e vedere quello che ci circondava ci spinse a fare tutto quello che abbiamo fatto”.

Violenze che non si possono nemmeno immaginare

E l’orrore, in quegli anni, è dietro l’angolo ogni giorno: “Le violenze che si subivano non si possono nemmeno immaginare: a una partigiana han tagliato un seno, ad altre hanno bruciato la pelle con un ferro incandescente. Quando ci penso, mi chiedo come un essere umano possa arrivare a fare tanto male  – racconta  – I ragazzi venivano torturati per settimane nella Casa dello Studente: ogni giorno mutilazioni, torture, pestaggi. Conobbi un giovane, unico sopravvissuto di un gruppo che era stato fucilato dopo le torture alla Casa dello Studente: mi raccontava che tagliavano un dito al giorno, toglievano un occhio. E io mi arrabbiavo sempre di più. Ne ho ospitati tanti in casa. Mio padre, quando uscivo, mi chiedeva se per la sera avrebbe dovuto preparare un letto in più”.

Arriva anche il giorno in cui “Fioretto” viene fermata dai tedeschi: “Camminavo sul ponte che percorrevo ogni giorno per andare a lavorare. Mi chiesero se conoscevo “Maria”. Al mio “no” mi intimarono più volte in malo modo di dire la verità, finché uno mi prese per un braccio e fece per trascinarmi. Ero terrorizzata. Fortunatamente l’altro tedesco gli disse di lasciarmi andare”.

Ma niente sembra fermare il bisogno di Nina di continuare a combattere, sabotare il nemico, aiutare gli altri partigiani: “Avevamo il compito di salvare questi ragazzi che venivano giù dalla montagna. Un giorno avevo appuntamento con uno di loro, un ragazzo giovane e bello – ammette – Camminavamo per una strada stretta in mezzo al bosco, quando notai due persone. Subito capii che si trattava di brigate nere e mi sentii in pericolo: io e il ragazzo eravamo giovani e senza documenti. Scoppiai a piangere perché a 17 anni finire nelle mani delle Brigate nere per una ragazza voleva dire solo terribili violenze, stupri e chissà cos’altro.

Così dissi al giovane che era con me di avvicinarsi e abbracciarmi. Ci fingemmo fidanzati, in fondo anche io a 17 anni ero un po’ carina – ride – Così le brigate nere si sono avvicinate, ma guardandoci divertiti hanno detto ad alta voce “lasciamoli stare che hanno altro da fare” e ci siamo salvati”.

E Nina che, come racconta, la Resistenza ce l’ha “nel cuore e nel cervello” riesce così a vedere la città liberata il 25 aprile 1945: “Quando ho visto quel camion pieno di bandiere per me – dice con voce rotta dalla commozione – è stata una gioia enorme”. Per lei niente fa più paura dell’orrore vissuto quasi 80 anni fa, nemmeno l’attuale pandemia: “Ho fatto il vaccino e non ho avuto paura. Era una cosa da fare e l’ho fatta. Semplice. Il dispiacere più grande è non essere più potuta andare nelle scuole ad incontrare i ragazzi, perché erano chiuse. Ma ho fatto tanto, detto tanto negli istituti, non mi sono fermata mai in questa Resistenza. E un po’ – conclude – mi faccio i complimenti da sola”.

Source: agi