LA NASCITA DEL PARTITO SOCIALISTA E LA FINE DEL SECOLO


 

C’era un socialismo in Italia anche prima che a Genova venisse fondato, il 15 agosto 1892 presso il padiglione della Società dei Carabinieri Genovesi (il corpo dei fucilieri garibaldini) il Partito dei Lavoratori, che del resto, solo l’anno successivo, a settembre, al Congresso di Reggio Emilia, aggiunse nella sigla “socialista” e nel gennaio 1895, al congresso clandestino di Parma, prese definitivamente il nome di Partito Socialista Italiano.
Anche l’Italia infatti aveva conosciuto le aspirazioni dell’estrema democrazia, ai tempi della rivoluzione francese, con Filippo Buonarroti, Vincenzo Russo e tanti altri.
Il socialismo era entrato, con la dottrina sansimoniana, negli ideali di Garibaldi e di Mazzini, era stato la fede di Pisacane e di tanti meno noti patrioti meridionali.
La prima Internazionale aveva diffuso, soprattutto nella forma dell’insurrezionalismo anarchico del russo Bakunin (1814-1876), aspirazioni socialiste; a Milano era nato, nel 1882, e si era sviluppato il “Partito Operaio” su iniziativa del Circolo Operaio Milanese e dei socialisti evoluzionisti del giornale La Plebe di Lodi.
Il Partito Operaio, che tenne dal 1882 al 1890 cinque Congressi, lanciò al suo nascere un manifesto programmatico elaborato da un Comitato provvisorio composto da un guantaio, Giuseppe Croce, un ebanista, Edoardo Pozzi, un tipografo, Ambrogio Galli, un parrucchiere, Ernesto Dossi ed un orefice, Alfredo Guarnaschelli.
Nel manifesto si diceva che “non vi può essere libertà politica senza l’equivalente libertà economica” e si elencavano una serie di irrinunciabili riforme: la riduzione degli orari di lavoro, la libertà di sciopero, il suffragio universale, la libertà d’insegnamento, l’abolizione dell’esercito permanente, l’autonomia comunale, la tassazione progressiva, la costruzione di case operaie, l’abolizione del fondo per i culti e una politica estera avente come fine la fratellanza universale e l’indipendenza di tutti i popoli.
Per aiutare il raggiungimento di questi obbiettivi il Partito Operaio si impegnava a sostenere, anche economicamente, i lavoratori durante gli scioperi con la costituzione di leghe di resistenza locali, di società operaie cooperative per il credito, la produzione ed il consumo e persino la nascita, nel suo seno, di una sezione di collocamento per gli operai disoccupati.
Prima ancora, e cioè dal 1853, in Piemonte si erano sviluppate le Società Operaie di orientamento prevalentemente liberale divise al loro interno tra le tendenze legalitarie assistenziali e quelle radicali, mazziniane e socialisteggianti.
Nel 1860, con il Congresso di Milano delle Società Operaie, il movimento piemontese si trasformava in italiano rivendicando il suffragio universale, costituendo società di mutuo soccorso per arti e mestieri e chiedendo al Parlamento l’istituzione della sorveglianza sull’igiene delle fabbriche.
Anche in Romagna, per iniziativa dell’internazionalista anarchico Andrea Costa (1851-1911) – che il 27 luglio 1879 in una lettera indirizzata” Ai miei amici di Romagna”, pur non rinnegando il suo passato anarchico, dichiarava di voler abbandonare il rivoluzionarismo violento e verboso per abbracciare le idee socialiste della lotta politica di tutti i diseredati – nasceva il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna ed il settimanale L’Avanti!.
Alle elezioni del 1882, grazie ad una prima timida riforma elettorale che portava gli aventi diritto al voto da seicentomila a circa due milioni, il PSR di Romagna riusciva ad eleggere al Parlamento il primo deputato italiano dichiaratamente socialista, Andrea Costa.
Stimolati da queste idee e da queste iniziative i lavoratori avevano ormai avvertito chiaramente la necessità di associarsi per contrastare la povertà, la vecchiaia, le malattie, l’ignoranza, spesso cause l’una dell’altra; erano nate così, accanto a questi primi embrioni di partito, le società di mutuo soccorso, le casse mutue volontarie, le leghe, tutte create dal basso, dallo spontaneo coagularsi di forze di progresso e di giustizia sociale, diverse tra loro, generose e talvolta confuse in un misto di pragmatismo e di desiderio di ribellione.
Ma quel che s’era fondato a Genova era qualche cosa di più, qualche cosa di diverso.
Era un partito tutt’assieme più storico e più intransigente.
Più storico perché aveva l’ambizione di raccogliere tutte le esperienze maturate nelle lotte politiche e del lavoro del Risorgimento e del dopo unità d’Italia; più intransigente perché voleva fare chiarezza rispetto alle tante tendenze e tentazioni anarcoidi e rivoluzionarie ancora fortemente radicate nel movimento.
Infatti il Partito dei Lavoratori Italiani si apprestava a nascere con una scissione consumata proprio a Genova nella notte tra il 14 ed il 15 agosto.
Dopo una giornata estenuante di discussioni e di scontri alla Sala Sivori tra la componente socialista (i deputati, Agnini, Maffi e Prampolini, e Turati, Lazzari, Bissolati, Anna Kuliscioff), e quella anarchica (Gori, Pellaco, Galleani), la componente socialista si riuniva in serata in una trattoria in via Pollaioli e decideva, con l’appoggio della grande maggioranza delle Associazioni accreditate, di continuare all’indomani il congresso in un altro luogo, sancendo di fatto la rottura con gli anarchici.
Costa, giunto in ritardo, pur disapprovando il comportamento degli anarchici, si ritirava dalla contesa abbandonando i lavori congressuali.
Il primo partito socialista quindi sin dal suo nascere non accettava di confondersi con l’anarchia, l’estrema democrazia o con il repubblicanismo, voleva essere partito di lavoratori, partito di classe, ma si proponeva al tempo stesso non l’insurrezione ed il colpo di mano, bensì la lotta civile per la conquista dei pubblici poteri, attraverso l’organizzazione economica e politica, il parlamento e una lunga azione che accompagnasse la fatale e non anticipabile evoluzione della società.
Si contrapponeva a tutti i partiti che erano esistiti fino allora, che erano piuttosto organizzazioni di tipo elettorale e clientelare, spesso temporanee, anziché organizzazioni permanenti di “compagni”, ma usciva fuori da ogni tipo di settarismo e di congiura per operare alla luce del sole.
Era il primo partito italiano moderno e democratico, con una sua struttura organizzativa territoriale, un’assemblea nazionale, una direzione, un gruppo parlamentare che si identificava con il partito e con le direttive che questo si dava democraticamente nei suoi congressi nazionali tenuti di norma ogni due anni, salvo che la gravità degli eventi non imponesse altrimenti.
Anima e creatore del Partito Socialista, nella misura in cui un uomo solo crea un movimento storico, era Filippo Turati.
Questo giovane lombardo, figlio di un prefetto del regno, aveva fatto le sue prime esperienze come poeta della scapigliatura lombarda, s’era messo alla scuola della più avanzata coscienza socialista della società europea, entrando in corrispondenza con il fedele amico di Marx, Federico Engels, aveva trasformato, con l’apporto culturale e l’esperienza di Anna Kuliscioff, una rivista repubblicana, Cuore e Critica, nella prima rivista marxista teorica socialista italiana, la Critica Sociale.
Privo di quel settarismo che caratterizza spesso i politici anche grandi, aperto a tutte le correnti di idee più moderne, interprete del marxismo nel senso più evoluzionista, Filippo Turati si mise davvero, per tutta la sua vita, al servizio del proletariato italiano.
Attorno a lui si raccoglievano vecchi uomini del primo internazionalismo, come Andrea Costa, o del primo operaismo, come Maffi; coetanei ardenti, come Bissolati, o più giovani compagni, come Treves, ed una donna, compagna della sua vita, Anna Kuliscioff, (Anna Rozenstein nata in Crimea nel 1854) la “bionda dottora” dei poveri, russa di origine, anarchica, marxista e poi socialista, laureata in medicina a Napoli, reduce da peripezie e lotte politiche in mezza Europa.
Paziente, Turati, ascoltava i rabbuffi ideologici dei solenni teorici, come Antonio Labriola, il professore, primo divulgatore del marxismo in Italia, ma poi aiutava con il lavoro di segreteria le nascenti organizzazioni politiche, di categoria, i circoli operai.
Ma quell’apostolo, non era solo, come Prampolini, il portatore di un novello verbo; Turati era un politico che sapeva inserire i suoi ideali nella politica del suo tempo.
Un tempo scandito da grandi lotte per i diritti civili e bisogna ricordare che, accanto ai dirigenti del partito, lottarono con grande coraggio le tante donne socialiste: Anna Maria Mozzoni (la prima dirigente donna del PSI), Alessandrina Ravizza, Ersilia Majno (fondatrice a Milano del famoso Asilo Mariuccia per il recupero e l’educazione delle fanciulle povere), Maria Cabrini a Milano, Linda Mariani a Torino, la scrittrice Anna Franchi a Livorno, la poetessa Ada Negri, Argentina Altobelli, Rina Melli, Angelica Balabanoff e tante altre dirigenti e militanti impegnate nelle battaglie per l’emancipazione femminile, il diritto al voto, la lotta allo sfruttamento del lavoro ed alla prostituzione.
Ed il primo socialismo, tra il 1892 ed il 1900, dovette affrontare tempeste e ricevette alimento dall’intera società italiana più progredita.
Prima tempesta furono i “fasci siciliani” (i fasci erano una sorta di società di mutuo soccorso), grande moto contadino del 1894 in Sicilia, che terrorizzò i benpensanti di tutta Italia e fu represso duramente da Crispi.
Il moto scoppiava non tra l’avanzata società industriale, ma nella zona più socialmente depressa d’Italia; nondimeno, con sicura intuizione, i socialisti intesero come fosse loro compito la solidarietà con tutti gli oppressi dalla società; e la componente contadina rimase fondamentale nel futuro del Partito Socialista Italiano.
Gli avvenimenti legati ai “fasci” costarono al partito lo scioglimento e numerosi arresti, confini, esili; ma dalla persecuzione il partito uscì più forte e riorganizzato, con l’Avanti!, uscito il 25 dicembre del 1896, diventato giornale nazionale del socialismo.
Ma sul partito ricostruito si abbatté ancora la repressione del Rudinì per i moti di Milano del maggio del 1898 quando, in risposta ad una grande manifestazione di piazza per l’ennesimo rincaro del pane, il generale Bava Beccaris, convinto di dover reprimere un moto rivoluzionario, non esitò a sparare a mitraglia sulla folla e a porre lo stato d’assedio.
Dopo le cannonate, che colpirono anche il convento dei frati di Corso Manforte, si contarono ufficialmente 82 morti, ma in realtà furono oltre cento, e centinaia i feriti; Bava Beccaris fu nominato prefetto di Milano e per “il servizio reso alle istituzioni ed alla civiltà” ebbe da re Umberto un’alta onorificenza.
Seguirono arresti e carcere per molti, e al sensibilissimo Turati una condanna a 12 anni e la reclusione prima a Pallanza e poi a Finalborgo (ne scontò solo uno perché venne liberato pochi mesi dopo l’elezione a deputato); la Kuliscioff fu condannata a due anni (scontò solo sei mesi grazie ad un indulto) ed i rappresentanti del partito in Parlamento dovettero combattere ancora la battaglia dell’ostruzionismo contro i decreti incostituzionali di Pelloux.
Tra queste tempeste il socialismo era cresciuto a forza nazionale; aveva avuto la solidarietà di tutta l’intelligenza italiana di allora; per le sue file, o almeno per la sua influenza, erano passati uomini così diversi come Croce e Salvemini, De Amicis, Luigi Einaudi, Antonio Labriola.
Con l’industria le forze operaie erano cresciute, la solidarietà di tutti gli uomini liberi, anche dei partiti cosiddetti borghesi, si era stretta attorno ai perseguitati.
Quando a Pelloux successe Saracco, e poi Umberto I cadde a Monza sotto le rivoltellate dell’anarchico Bresci, giunto appositamente dall’America per vendicare i morti del ’98, la reazione interna venne meno e, con il 1900, si aprì un’epoca nuova del paese e del Partito Socialista Italiano.

 

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