La moda deve diventare rigenerativa per essere più sostenibile


AGI – Non più solo biologico, ma rigenerativo con un approccio olistico: è questa l’ultima frontiera della sostenibilità con cui dovranno misurarsi le aziende se vorranno rispettare l’impegno di una significativa riduzione dell”impatto ambientale della propria attività produttiva.

Questo nuovo approccio ha già coinvolto molte aziende dell’industria alimentare e ora sta diffondendosi nel settore del tessile-moda dove è stato già adottato con importanti investimenti dai brand con una visione più lungimirante.

In Europa il 60-70% del suolo, secondo un recente report del Maggio 2021di Re Soil Foundation, non è in buono stato di salute, a causa delle attuali politiche agricole, dell’inquinamento, dell’urbanizzazione e degli effetti del cambiamento climatico.

Ambiente, emergenza climatica, deforestazione, emissioni di anidride carbonica e sfruttamento del suolo sono tematiche sempre più spesso all’ordine del giorno quando si affronta il tema della sostenibilità del settore del tessile-moda, che è tra i più impattanti. I dati del report “Fashion on climate“ del 2020, elaborato da McKinsey con Global Fashion Agenda (Gfa), mostrano infatti che nel 2018 l’industria della moda è stata responsabile del 4% delle emissioni globali.

Le aziende sono pertanto chiamate a ridurre i consumi idrici, energetici e le emissioni di anidride carbonica con l’obiettivo di lungo termine di divenire carbon neutral (entro il 2050).  Per fare ciò devono attuare strategie di sostenibilità concrete e non più limitarsi alla produzione di “eco-capsule collection” che spesso si rivelano solo operazioni di greenwashing.

Per ridurre le emissioni e l’impatto sul pianeta è ormai chiaro che le strategie di sostenibilità debbano adottare un approccio olistico: scegliere di ridurre la produzione di capi, di produrre capi durevoli e riparabili, progettati in un’ottica di economia circolare e soprattutto investire in sistemi rigenerativi. Non si tratta di una transizione facile e neanche economicamente poco impegnativa ma non è più rimandabile se consideriamo che i consumi globali alimentari come quelli del tessile- moda sono in forte aumento e che, in assenza di interventi, nei prossimi 10 anni è previsto un aumento solo per il settore dell’abbigliamento del 63%.

Che cosa è un’economia rigenerativa 

Secondo una stima del  Living Planet Report 2020 del WWF, stiamo sovrautilizzando la biocapacità della Terra di almeno il 56%. Il cotone, solo per fare un esempio, viene coltivato come monocultura sul 2,5% dei terreni del pianeta, ma usa il 6% dei pesticidi e il 16% degli insetticidi del mondo.

Per il settore tessile-moda avere un maggiore controllo degli allevamenti e dei campi coltivati può rappresentare la svolta verso un sistema realmente sostenibile che tuteli l’ambiente, gli animali e le popolazioni la cui sussistenza dipende dalla tutela dell’habitat.

Questo nuovo approccio si basa sul principio di osservazione della natura per ispirarsi a lei: come in natura, si tratta di fare degli scarti una risorsa, eliminando così il concetto di rifiuto, per una transizione verso un’economia circolare riferita ovviamente a tutti i settori produttivi. Imitando ciò che fa naturalmente la natura, l’agricoltura rigenerativa ha anche, infatti, lo scopo di ricostituire il suolo e le piante.

L’agricoltura rigenerativa consiste in principi agricoli che cercano di migliorare l’intero ecosistema concentrandosi sulla salute del suolo e ripristinando la biodiversità delle aree degradate.

In quest’ottica, ciò che viene prelevato viene poi anche reintegrato con la consapevolezza che non è più possibile prendere dalla terra senza restituire.

Questo tipo di approccio deve considerarsi rivoluzionario per le aziende della moda, un’industria nota per il suo rapporto unilaterale con il pianeta e per il coinvolgimento di primo piano nel danneggiamento degli ecosistemi.  Fino ad ora, inoltre, “sostenibilità” ha significato, perlopiù, utilizzare meno sostanze chimiche dannose, risparmio energetico e idrico e talvolta strategie per ridurre l’inquinamento.

La “regenerative ag”, come viene comunemente definita, ha invece un approccio sistemico ricostituisce e rafforza attivamente il suolo, le piante e l’ambiente che li circonda. Le pratiche agricole moderne hanno portato a enormi aree di terra arida che non può più assorbire anidride carbonica attraverso la fotosintesi né contribuire a contrastare i cambiamenti climatici. Quando le piante fotosintetizzano, infatti catturano il carbonio nell’aria e lo riportano nella terra, dove diventa cibo per microrganismi e miceli.

L’agricoltura rigenerativa è quindi un sistema di pratiche agricole alternative che si effettua piantando contemporaneamente colture diversificate, facendo pascolare animali autoctoni, con pratiche di agroforestazione (piantando, ad esempio, colture arboree accanto a colture alimentari), con la rotazione delle colture (evitando le monocolture), rinunciando all’uso di pesticidi e fertilizzanti sintetici. Molte delle colture inoltre, sono piantate strategicamente per aiutare le altre a svilupparsi meglio e senza bisogno di prodotti chimici. L’agricoltura rigenerativa rallenta l’erosione del suolo e mitiga le inondazioni consentendo al terreno i di assorbire più acqua. Inoltre, rende le piante più resistenti e ricche di nutrienti con la conseguente produzione di fibre di qualità superiore.

Perché si parla di approccio olistico?

L’approccio olistico riguarda la gestione della complessità con una prospettiva ecologica, economica e sociale. L’agricoltura rigenerativa, per esempio, ha un approccio olistico che si concentra su un sistema di principi piuttosto che su pratiche fisse.

Quindi, esattamente come funziona?

Con la rigenerazione del suolo si può ripristinare la biodiversità, migliorando gli ecosistemi e riducendo l’inquinamento, supportando nel contempo le comunità locali nelle loro economie produttive. Nell’agricoltura rigenerativa i ritmi di produzione e di crescita delle piante sono lenti, rispettano il ritmo della natura; i quantitativi prodotti sono legati all’andamento stagionale e le colture non vengono forzate in nessun modo. Anche le persone che lavorano su questi terreni hanno ritmi di vita adeguati e non sono esposte a sostanze chimiche dannose. Un’inversione completa rispetto alle politiche industriali degli ultimi decenni che hanno visto le aziende, spinte dalla necessità di avere più prodotto a minor prezzo e velocemente, causare un forte impoverimento del suolo.

Le aziende della moda sono pronte a intraprendere queste nuova svolta?

Le pietre miliari di questo rivoluzionario percorso che ha determinato un radicale cambio di paradigma sono state:

  • nel 2010 la campagna della Ellen MacArthur Foundation, l’organizzazione no-profit internazionale, nata per accelerare la transizione verso un’economia circolare rappresentata come una farfalla e di  cui il “butterfly diagram” è la sintesi grafica. L’ala di sinistra si concentra sui materiali di origine biologica mentre quella di destra descrive i flussi legati a quelli tecnologici.
  • 2011, la campagna di grande rottura di Greenpeace, Detox my Fashion,  per l’eliminazione o riduzione delle sostanze chimiche pericolose dai capi d’abbigliamento e dall’ambiente;
  • la campagna condotta da Fashion Revolution nel 2013, nota con lo slogan “Who made my clothes” e scaturita dalla strage avvenuta nel 2013 al Rana Plaza in Bangladesh, con 1.129 vittime e che quindi, si caratterizza per una forte valenza etica e sociale;
  • The fashion Pact, promosso nel 2019 dal presidente Macron, con cui una coalizione di aziende globali, leader nel settore della moda e del tessile, si sono unite per raggiungere una serie di obiettivi condivisi e focalizzati, arrestare il riscaldamento globale, ripristinare la biodiversità e proteggere gli oceani.

Questo iter, durato anni, ha prodotto una visione chiara sulla necessità di andare oltre al contenimento dell’impatto e sulla necessità di intervenire immediatamente sulla rigenerazione dell’ambiente con quello che oggi si definisce “un approccio olistico”.

Alcuni marchi stanno già puntando su un sistema di produzione a integrazione verticale, (l’internalizzazione di tutte le fasi del processo produttivo) “dal campo al capo”, o “Farm- to- Closet” come nel caso di Zegna, proprietaria dei terreni da cui si traggono le fibre tessili e in questo caso quindi – “from sheep to shop” –  così da avere un maggior controllo del rispetto dei diritti dei lavoratori, oltre che delle emissioni di gas serra e dello spreco di acqua.

Il Gruppo Kering – che controlla marchi come Gucci, Bottega Veneta e Balenciaga – ha ufficializzato da tempo l’evoluzione dei propri progetti in materia di sostenibilità ambientale. Il nuovo Natural climate solution portfolio di Gucci prevede interventi di protezione e ricostituzione di foreste e di mangrovie in aree significative per la biodiversità e a rischio di deforestazione e l’adozione di pratiche di agricoltura rigenerativa all’interno della sua supply chain.

A sua volta, North Face, azienda statunitense specializzata in abbigliamento outdoor, ha progettato una piccola capsule in collaborazione con Fibershed , un’organizzazione californiana no profit  che dal 2010 sviluppa progetti di agricoltura rigenerativa. Questa organizzazione si adopera per lo sviluppo di progetti per la produzione di lana da pecore allevate in pascoli a rotazione, con applicazioni di compost, ripristino di torrenti e altre strategie di gestione del territorio come l’agricoltura senza aratura.

Infine Patagonia, azienda californiana, da sempre molto impegnata sui temi della responsabilità e sostenibilità, ha invece scelto di lavorare con delle fattorie in India per produrre cotone rigenerativo, richiamando così l’attenzione su un tema molto attuale come quello della sostenibilità delle piantagioni di cotone. Patagonia si è anche attivata per la realizzazione di un’apposita certificazione, la Regenerative Organic Certification*, in modo da verificare il rispetto dei requisiti,dei metodi e delle procedure in grado di garantire il rispetto di certi standard. Si tratta di una certificazione che supporta un approccio olistico all’agricoltura che comprende il benessere degli animali da pascolo, l’equità per gli agricoltori e i lavoratori agricoli oltre a requisiti severi per esaminare la salute del suolo e la gestione del territorio.

Il cambiamento ovviamente non avverrà dall’oggi al domani, ma sono ormai sempre di più i marchi di moda che stanno abbracciando questa metodologia anche per soddisfare le richieste dei consumatori, sempre più attenti alla questione ambientale e alla sostenibilità.

Perché non è più sufficiente essere sostenibili ma occorre essere rigenerativi

In questo contesto, particolarmente delicato è il ruolo dei fashion designers, il cui mestiere è da sempre molto complesso, implicando una continua negoziazione tra creatività e commerciabilità, con l’obiettivo di trasformare l’idea creativa in progetto industriale attraverso una mediazione di valori ai quali si vanno oggi ad aggiungere quelli legati ad etica e sostenibilità. Creatività e sostenibilità si devono così fondere in un unico valore, in una visione contemporanea che corrisponde alla direzione in cui la moda si sta muovendo. L’“eco- fashion-designer” deve avere competenze approfondite relative ai materiali, ai loro processi produttivi, alla loro provenienza e alle certificazioni che li accompagnano, così da poter gestire nella fase di progettazione anche le attività della fase post consumo, cioè il fine-vita dei prodotti, con un approccio olistico e sistemico.

I prodotti realizzati nel rispetto di questi principi devono derivare da processi lenti, essere di qualità e soprattutto devono avere una limitata se non nulla combinazione di fibre differenti e di componenti chimiche, allo scopo di facilitarne il riciclo o lo smaltimento. Il tema del riciclo è pertanto prioritario per rendere il ciclo produttivo sempre più sostenibile.  

A conferma della centralità che questi temi vanno assumendo, la Commissione Europea ha inserito come priorità nell’agenda del Green Deal la definizione di strategie sostenibili per il settore del tessile, puntando molto sull’eco design, sui temi della durabilità, della riparabilità e della qualità dei materiali utilizzati per la produzione.

Ad oggi, solo l’1% delle fibre utilizzate per i capi di abbigliamento viene riciclato, mentre il 75-80% dei capi usati raccolti in Europa sono smaltiti, spesso tramite l’incenerimento. In Francia entro il 2023 sarà illegale distruggere le merci invendute, grazie ad una rivoluzionaria legge anti-spreco.

 

Source: agi