LA MICCIA CHE BRUCIA IL MONDO


Di Walter Veltroni

Un ciclo di consultazioni elettorali può sconvolgere, nei prossimi dodici mesi, gli equilibri globali. Durante il 2024 andrà alle urne il 51% della popolazione globale, in Paesi che producono più della metà del Pil globale. Si terranno consultazioni in tutto il vecchio Continente per il Parlamento europeo e negli Usa per scegliere il nuovo presidente. Voteranno 76 Paesi, tra i quali India, Iran, Indonesia, Pakistan, Bangladesh, Messico e Russia. In poco più della metà di essi, secondo l’Economist, si andrà a votare in un clima pienamente democratico, libero, pluralista. Altro che le speranze di un mondo finalmente libero del dopo 1989! Forse vale la pena di soffermarsi a guardare, senza presunzione di capacità predittoria, le macro tendenze che attraversano gli elettorati in questo crocevia degli anni venti. Prendiamo due situazioni apparentemente lontane e diverse. In Francia un gruppo di ragazzi, immigrati e francesi, assalta in un piccolo comune un luogo di ritrovo di ragazzi e uccide — a colpi di accetta, gridando «siamo qui per uccidere i bianchi» — Thomas, sedici anni.
Per reazione, come racconta il nostro corrispondente dalla Francia Stefano Montefiori, ci sono manifestazioni e spedizioni punitive dell’estrema destra contro arabi e musulmani. Sabato sera, a Parigi, si registra un attacco di un islamico al grido di Allah Akbar, per uccidere, come al solito, un innocente cittadino: un tedesco nato nelle Filippine, quasi un simbolo del mondo globale.
l rischio, evidente, è di importare nel mondo globalizzato e interdipendente, nell’Europa multiculturale, la drammaticità del conflitto israelo-palestinese e le sue logiche di conflitto di civiltà. Negli Usa Donald Trump, incurante, come il suo elettorato, delle evasioni fiscali e degli attacchi violenti al Congresso, si presenta alle elezioni con un programma sul quale sarebbe sbagliato, di nuovo, alzare il sopracciglio in segno di scherno: militari nelle strade per garantire l’ordine e la sicurezza dei cittadini, richiesta di professione di ideali patriottici come condizione per l’insegnamento, e poi «la più grande opera di deportazione interna degli immigrati dai tempi di Eisenhower», divieto ai medici di prestare assistenza ai giovani transgender.
«Ci ha detto cosa farà. È molto facile vedere i passi che farà… Una delle cose che vediamo accadere oggi è una sorta di sonnambulismo verso la dittatura negli Stati Uniti».
Non sono parole di un liberal democratico, ma quelle alla Cbs di una repubblicana, Liz Cheney, espressione della tradizione repubblicana incarnata dai Bush e da suo padre, non propriamente degli estremisti di sinistra.
Mi ha colpito, oltre al riferimento alla dittatura, inquietante per uno dei pochi Paesi che non l’ha mai conosciuta, quella espressione, usata da una parlamentare americana: «sonnambulismo». È la stessa, come ha ricordato ieri Antonio Polito, del rapporto del Censis il cui testo recita: «La società italiana sembra affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali dagli esiti funesti… Ma il sonnambulismo non è imputabile solo alle classi dirigenti: è un fenomeno diffuso nella «maggioranza silenziosa degli italiani… Nell’ipertrofia emotiva in cui la società italiana si è inabissata, le argomentazioni ragionevoli possono essere capovolte da continue scosse emozionali. Tutto è emergenza: quindi, nessuna lo è veramente. Così trovano terreno fertile paure amplificate, fughe millenaristiche, spasmi apocalittici, l’improbabile e il verosimile».
A questo sonnambulismo si sono ribellate le donne del 25 novembre e i giovani dei movimenti che hanno suonato la sveglia sull’emergenza ambientale. Ma non basta.
L’ipertrofia emotiva e il sonnambulismo sono infatti un mix che può generare effetti diabolici. Tutto è ridotto a semplificazioni paradossali, a dietrologie infernali, a radicalizzazioni estreme. Il «Senza se e senza ma» è diventata la formula perfetta dei nuovi integralismi e ha divorato la complessità e il dubbio, anime della libertà. È tutto veloce, unidimensionale, estremo e tende ad espellere l’idea dell’altro da sé — identità, religione, comportamento sessuale, idee politiche — concepito come minaccia, fastidio. La frenesia della società digitale non è salutare per la democrazia, finisce col reclamare forme e sedi di decisione veloci e semplificate. La paura genera comportamenti e preferenze che si esaltano nell’ascoltare oggi fantasiosi e irrealizzabili proclami demagogici e populisti, di destra e non solo. Lo abbiamo visto in Argentina, in Brasile e in tanti Paesi del Nord Europa o dell’Asia. Lo abbiamo conosciuto anche in Italia. Se queste pulsioni nazionaliste, integraliste, populiste dovessero segnare le decine di elezioni annunciate in metà del mondo sarebbe davvero una vittoria per chi, non nascostamente, ha in questi anni pianificato un mondo fatto di tecnologie e dominio. Ha scritto un filosofo: «Quando i cittadini interagiscono con bot che producono opinione e vengono manipolati, quando nei dibattiti politici intervengono attori la cui provenienza e le cui motivazioni restano del tutto oscure, la democrazia è in pericolo».
E se la paura e l’ansia, sentimenti di questo tempo, agiranno in una prateria sprovvista di razionali speranze, di capacità di far valere la bellezza e l’utilità della democrazia come strumento per la sicurezza personale e sociale, per l’affermazione di un’idea alta di comunità come luogo di possibilità individuali e di vita armonica, l’esito rischia di avvalorare le previsioni più cupe sul destino della conquista più grande del Novecento, quella ottenuta vincendo, a caro prezzo, la Shoah e i Gulag.
Sarà il nostro tempo quello di inedite forme, non novecentesche, di dominio assoluto, di dittatura, di nuova riduzione dei cittadini a sudditi sprovvisti di libertà reale?
È un tema sul quale destra e sinistra, quelle democratiche, farebbero bene a interrogarsi. Prima che sia tardi.

Fonte: Corriere