La metamorfosi dei partiti fra nostalgie e identità da ricostruire


Chi ha partecipato – magari solo via-TV – ai funerali civili di Giorgio Napolitano, celebrati alla Camera, è stato colpito da un’insopprimibile “nostalgia di partiti”. È apparsa plasticamente ai nostri occhi la distanza siderale tra la vecchia classe politica oggi “in uscita” e quella entrata rumorosamente in scena, scarpe grosse, cervello non sempre fino.

I lamenti provengono soprattutto dalla vecchia generazione di politici e di militanti di partito. Tuttavia, finito il lamento, finisce anche il discorso, che, a questo punto, diventa solo un confuso e nostalgico borbottio, sopraffatto dalle grida moleste e talora belluine della nuova classe dirigente.

Dietro sta sospeso un interrogativo: i partiti sono necessari? è possibile farli rinascerei? E, nel caso, quale forma-partito?

Intanto, va fatto notare che i partiti non sono scomparsi, hanno “solo” subito metamorfosi profonde nel loro rapporto con la società civile, ma il loro rapporto con lo Stato politico è rimasto invariato: eleggono il Presidente della Repubblica, fanno e disfanno i governi, riempiono le Camere e i Consigli dei loro uomini.

Occorre indagare le cause di tali metamorfosi, se si vuole dare una qualche risposta alle domande sopra formulate.

Le cause indicate correntemente sono più d’una.

La prima: l’avvento di Internet e dei Social-media, via computer e via-smartphone, ha spezzato il modello vecchio migliaia di anni di comunicazione tra le persone e, pertanto, anche tra le persone e le istituzioni politiche e civili. La comunicazione orizzontale tra pari ha travolto quella verticale-gerarchica e ha eliminato i tempi lunghi della riunione, del comunicato, dell’assemblea, dei congressi. Ha eliminato lo spazio-tempo. Questa modalità orizzontale retroagisce sulla configurazione della struttura psichica delle persone. Lungo gli anni se ne vedranno gli effetti sul piano antropologico.

La seconda: le imponenti trasformazioni produttive, dovute al passaggio dall’economia industriale a quella della conoscenza, hanno modificato la composizione sociale. Così è scomparsa la base socio-culturale del Movimento operaio: la classe operaia non è più un soggetto storico-epocale. Lo stesso sindacato oggi ne rappresenta solo alcuni segmenti.

La terza: la fine del bipolarismo globale 1945-1989 ha provocato anche la fine delle ideologie fondanti dei due mondi contrapposti. Crisi, dunque, dei partiti comunisti e socialdemocratici, ma anche insorgenza di movimenti populisti di destra e di sinistra.

La quarta: la crisi dei partiti è stata l’effetto di un complotto “demo-pluto”, cui qualcuno aggiunge anche quello “giudaico” dell’ebreo Soros.

La quinta: il giustizialismo, gestito dai magistrati “comunisti” o anche no – Di Pietro, semmai, al soldo della Cia – che hanno fatto fuori i partiti ad uno ad uno, eccetto l’erede del PCI.

Qui, invece, si avanza un’altra spiegazione delle metamorfosi/crisi dei partiti. Essa muove dall’ontologia originaria del partito quale ente intermedio tra la società civile e lo Stato, quale ponte a due arcate, una rivolta verso la riva della società civile, l’altra verso la riva dello Stato. E sostiene che la sua crisi dipende dal cedimento dell’arcata verso lo Stato, inteso come Stato politico e come Stato amministrativo. È qui che bisogna andare a cercare le cause della crisi.

Come si è sviluppata la relazione tra i partiti e lo Stato? Storia lunga. Partiamo dal 1943, quando si ricostituiscono i gruppi dirigenti dei partiti, usciti dall’esilio e dalle carceri.  Il 9 settembre del 1943 fondano il CLN e lanciano la Resistenza. Nel 1946 indicono l’Assemblea costituente. Nel ’48 varano la Costituzione.

Da quei cinque anni fatali quale Stato politico e quale Stato amministrativo esce? Quanto allo Stato amministrativo, è uscito quello che c’era già. Continuità perfetta con lo Stato liberale, che il Fascismo aveva cercato con parziali successi di fascistizzare. Paradigmatico Togliatti, Ministro della Giustizia, che si prese come Capo di Gabinetto Gaetano Azzariti, già al servizio di Giolitti, poi di Mussolini – fu Presidente del Tribunale della razza – e poi Presidente della Corte costituzionale della Repubblica. Ma l’intera classe dirigente dell’epoca finì succube della continuità del vecchio Stato liberale e fascista, nonostante la diversa predicazione di Dossetti e di qualche azionista.

Quanto allo Stato politico, la sua architettura è nota: è la stessa del 2023. È stata costruita su una sfiducia reciproca, cioè su istituzioni deboli e partiti forti, cioè su patriottismo costituzionale debole e su appartenenza faziosa forte. Così è accaduto, lungo i decenni, che la DC divenisse il partito-Stato e che il sistema politico diventasse progressivamente il sistema-Stato. Lo Stato è stato partitizzato e privatizzato dai partiti. Dal dopo-De Gasperi, progressivamente il Bene comune è diventato Bene di partito e viceversa. È ciò che aveva denunciato Enrico Berlinguer nella famosa intervista del 28 luglio 1981. Il suo torto fu, però, quello di curvare su una dimensione etica una questione che era primariamente politico-istituzionale, nella quale il PCI era coinvolto come gli altri partiti.

In questa deriva, le cui origini stanno nella Costituzione del ’48, una Costituzione a governo debole, le istituzioni dello Stato politico e quello dello Stato amministrativo hanno fatto una fatica crescente a stare al passo delle domande, che nascevano dalla società civile industriale e post-industriale: domande di sicurezza e di Stato di diritto, di fronte al quale sono tutti uguali.

Finché le vacche dello sviluppo erano grasse, solo alcuni gruppi minoritari di cittadini e di intellettuali si lamentavano della partitocrazia, ma non più di tanto. Del resto Giovanni Sartori aveva teorizzato, con un pizzico di cinismo, che non era così grave la manca di democrazia interna del sistema dei partiti, purché la loro dialettica garantisse la democrazia.

Ma quando le vacche incominciarono a dimagrire, i cittadini-elettori sopportarono sempre di meno un sistema decisionale chiuso in se stesso, rispondente, nell’ipotesi migliore, solo ai propri iscritti, che, a loro volta, incominciarono a diminuire.

Così è nato il populismo, dunque, come domanda democratica andata a male, da acqua corrente diventata palude, per mancanza di risposte tempestive dei partiti. La crisi o “la morte” dei partiti non è nata per omicidio, ma per suicidio, non dovuta a cause socio-economiche esterne, ma ad un difetto genetico istituzionale.

Far rinascere i partiti come enti di intermediazione tra società civile e Stato pare a me condizione necessaria di una democrazia solida. Ma sarà possibile, solo se i partiti affronteranno finalmente la questione della costruzione di un nuovo Stato amministrativo e di un nuovo Stato politico, dentro il quale ricollocare il proprio ruolo. Lo aveva raccomandato Giorgio Napolitano nel discorso di insediamento del 15 maggio 2006, lo ha ripetuto assai più duramente il 20 aprile 2013. E qui ancora siamo.

Fonte Santalessandro.org