Si chiude la trilogia teoretica iniziata vent’anni fa: in dialogo con Florenskij, Severino e, sui limiti del linguaggio, con scrittori come Dostoevskij
Venti anni dopo Della cosa ultima, Cacciari porta a compimento la sua trilogia teoretica con Metafisica concreta (Adelphi, pagine 424, euro 38,00). Se in Dell’Inizio la prospettiva era quella della protologia, per cui attraverso il concetto di “onnicompossibile” veniva indagato l’Inizio da cui scaturisce ogni cosa, e in Della cosa ultima l’orizzonte era quello escatologico che si interrogava sulla destinazione del singolo, nel nuovo libro la prospettiva è quella ontologica. La domanda è: qual è la natura dell’essente, a partire da quella unicità che è l’uomo in quanto essere che si interroga su di sé e sul mondo? Una domanda che ne implica una seconda: qual è il posto della metafisica nel tempo in cui la conoscenza pare identificarsi con quella, efficace, del sapere tecnico-scientifico?
L’interrogazione di Cacciari parte dai Greci e attraversa alcuni dei momenti decisivi della storia della filosofia occidentale: dai presocratici a Platone e Aristotele, da Cartesio e la rivoluzione scientifica alla disputa tra Spinoza e Leibniz sul concetto di sostanza, da Kant e Hegel fino alla riflessione dei fisici contemporanei. Quella che si delinea è una ricostruzione della dialettica tra ciò che esiste e la ricerca del suo fondamento per giungere alla conclusione che ogni ente è ciò che si manifesta alla prospettiva di chi l’interroga scientificamente, esteticamente, teoreticamente, nella consapevolezza che la sua natura non si esaurisce in ciò che si osserva, ma implica l’inosservabile come parte costitutiva della sua “physis”.
Nella tensione fra l’osservabile e l’inosservabile, tra il “questo qui”, un caso determinato da leggi, e il suo oltre, che l’abita dall’interno, sta lo spazio di una “metafisica concreta”, espressione che Cacciari mutua da Florenskij, e dove concreto significa che ciascun ente è un che di divenuto, concresciuto tra l’esistenza nel tempo e la tensione a sottrarsi alle spire annichilenti del divenire.
Cacciari si confronta con Severino riguardo alla credenza nel divenire così come per lo più è pensato, ma a differenza del secondo mostra come l’essenza di ciascun ente non stia nella necessità ma nella possibilità che gli è immanente. E l’uomo è “l’esserci del possibile”. Qui sta il timbro escatologico della metafisica: nell’oltre è in gioco il limite ultimo del possibile. Che per il credente ha il nome di Dio, per il filosofo di Impossibile. Quell’Impossibile che è il fine, sempre ricercato, della filosofia in quanto tale. Suo oggetto è quindi quel singolo che anela a trascendere la propria finitezza; la considerazione sub specie caducitatis implica quella sub specie aeternitatis: quegli attimi in cui in un volto, in un verso, in un suono si dà un’epifania dell’eterno.
La filosofia, proprio perché metafisica, è insieme phil-agathia: ricerca del bene di ciascun ente. E proprio perché metafisica è una “diaporetica”: un continuo attraversare aporie per pensare in modo non contraddittorio il differenziarsi e l’implicarsi del possibile e dell’Impossibile. È la cosa stessa che si ritrova declinata, in modo differenziato, nei tanti dialetti del contemporaneo.
A ben vedere c’è da chiedersi se questo libro non sia la ripetizione di Krisis, il primo libro che, apparso nel 1976, si interrogava sulla crisi del pensiero dialettico e la genesi del pensiero negativo tra Nietzsche e Wittgenstein. Con una differenza: quella che là era critica dell’ideologia, qui diventa filosofia prima. E le pagine dedicate a scrittori (ad esempio, quelle dedicate a Dostoevskij), a poeti e all’opera d’arte sono la dimostrazione che la filosofia cerca di portare alla luce quella lotta contro i limiti del linguaggio per dire l’indicibile che è il compito ultimo dell’uomo, se non vuole venire meno alla sua libertà, al suo essere manifestazione dell’Inizio o, per chi crede, creatura del Dio della vita.
Di Ilario Bertoletti – fonte: https://www.avvenire.it/