di Loan
Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Quella data è stata scelta dall’ONU per commemorare ogni anno le vittime dell’Olocausto. In Italia, in Europa, in Parlamento come nelle scuole si rincorrono le iniziative per ricordare la tragedia della Shoah, lo sterminio del popolo ebraico, anche se quest’anno tutto si svolge in modo virtuale, online, a causa della pandemia. In tutte le reti televisive sono tanti i film per ricordare.
Il Giorno della Memoria rappresenta per tutti e per ciascuno di noi un richiamoineludibile alla coscienza ed alla consapevolezza. Non ricordiamo soltanto la tragedia della shoah, ma ogni genocidio perpetrato nella storia, la persecuzione razziale contro gli ebrei ma anche quella ideologica, spietata, contro ogni “straniero”, ogni “diverso”, ogni minoranza emarginata, gli omosessuali, le etnie Rom, Sinti e slave, i portatori di disabilità, i malati psichici, i dissidenti politici, i Testimoni di Geova.
Sono passati più di settantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ma oggi come non mai ricordare è necessario perché avanzano nel mondo i negazionismi, i social network pullulano di messaggi d’intolleranza e d’odio, tanto da costringere Facebook e Twitter a rimuovere migliaia di post che negano l’Olocausto.
Una ricerca Eurispes dell’ottobre del 2020 ha evidenziato l’aumento del negazionismo anche in Italia: negli ultimi 15 anni la percentuale di coloro i quali dichiarano di non credere all’orrore della Shoah è passata dal 2,7% al 15,6%, di costoro il 16% si dice convinto che la persecuzione degli ebrei “non ha fatto così tanti morti”.
La scuola della conoscenza, della tolleranza, dell’accettazione dell’altro, del dialogo ha ancora tanta strada da fare. Va ascoltata la voce di chi vissuto l’orrore, la voce diLiliana Segre, senza odio ma ferma: “Non ho mai perdonato, come non ho dimenticato”. Queste parole della Senatrice a vita mi hanno riportato alla mente l’appendice aggiunta da Primo Levi alle edizioni di “Se questo è un uomo”, che riporta le domande che gli venivano poste dagli studenti sulla sua testimonianza.
Alla domanda “Nel suo libro non si trovano espressioni di odio nei confronti dei tedeschi, né rancore, né desiderio di vendetta. Li ha perdonati?”, Levi dà questa risposta: “…nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi.
Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonare alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico”.
Oggi chi poteva e doveva ravvedersi è ormai scomparso, o è arrivato assai vicino al limite biologico della sua vita. Ma è impressionate il numero delle persone che dovrebbero ravvedersi di una visione distorta del passato. Siamo dunque chiamati, qui ed ora, ad agire sulle coscienze individuali e sulla memoria collettiva. Lo studio rigoroso della storia, l’arte, l’elevazione del linguaggio, possono aiutare.
Nel museo di Auschwitz sono conservate più di centomila paia di scarpe dei deportati sterminati in quel campo degli orrori, molte di queste erano di bambini. Alle lettrici ed ai lettori del QdC desidero regalare, nel giorno della memoria, i versi lievi e intensi di Joyce Lussu. La poesia, celebre, s’intitola “Scarpette rosse”.
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.