L’arresto di Matteo Messina Denaro ha riacceso il dibattito su Cosa nostra e sulle modalità con cui lo stato da anni la combatte. Un’analisi contro lo sconfittismo di alcuni magistrati e l’eterno complottismo
Di Maurizio Catino
E’ stato messo in discussione il successo investigativo della procura di Palermo e del Ros dei Carabinieri, lasciando credere che Messina Denaro si sia consegnato chissà dietro quali oscuri patti. Come dire, se è stato arrestato non è merito dello stato, ma sempre in virtù di patti sporchi con lo stato I tentativi da parte di soggetti, individuali o organizzativi, di operare sotto l’ombrello dell’etichetta “antimafia” per perseguire finalità d’interesse personale, carriere e forme di legittimazione del tutto strumentali. In taluni casi, per perseguire addirittura finalità criminali
L’arresto a Palermo del boss mafioso Matteo Messina Denaro, ultimo componente ancora latitante della oramai sciolta commissione regionale di Cosa nostra, ha riacceso l’attenzione mediatica e il dibattito su quest’organizzazione criminale. Con modalità e contenuti talvolta discutibili.
Messina Denaro è stato un leader importante di Cosa nostra, capo della provincia di Trapani, dove ci sono 17 famiglie (le unità organizzative di base di una mafia) e 4 mandamenti (distretti che raggruppano da 3 a 6 famiglie). Particolarmente vicino al boss Totò Riina e al gruppo dei cosiddetti corleonesi, ha svolto un ruolo rilevante nelle stragi del 1992 e del 1993 ed è certamente custode di segreti di queste e di altre vicende della storia di Cosa nostra e dei rapporti con la sua rete esterna. Una figura di rilievo del panorama criminale mafioso, anche se c’è stata una certa mitizzazione del suo ruolo. La fase, o meglio, come la definisce Salvatore Lupo, la “parentesi corleonese” che ha caratterizzato la strategia di tipo stragista di Cosa nostra si è chiusa trenta anni fa, o quanto meno nel 2006, con l’arresto di Bernardo Provenzano, anche se molti aspetti devono esser ancora chiariti. Dopo aver adottato una strategia di scontro frontale con lo Stato, basata sul ricorso agli omicidi di alto profilo, Cosa nostra ha dato origine a un cambio radicale di comportamenti rispetto al ventennio precedente. Un cambiamento causato dalla forte repressione da parte dello Stato dopo le stragi del 1992-1993, con arresti a tutti i livelli dell’organizzazione. Un cambiamento definito del “mimetismo e della sommersione”, promosso dal boss Bernardo Provenzano e da considerare, tuttavia, più come un processo di adattamento che come una vera e propria strategia deliberata. Cambiamenti simili li riscontriamo sia nella ‘Ndrangheta sia in parte dei clan di Camorra, specie negli ultimi anni, con una riduzione notevole degli omicidi e la scomparsa da oltre venticinque anni di quelli di alto profilo (magistrati, forze dell’ordine, giornalisti, sacerdoti, sindacalisti, politici, ecc.).
Nonostante questi mutamenti, l’impressione che emerge dalla discussione pubblica, così come dalle dichiarazioni di alcuni magistrati, è di trovarsi ancora in quell’epoca, nonostante i profondi cambiamenti avvenuti nel mondo criminale mafioso. Alcuni magistrati, anche del Csm, hanno fatto dichiarazioni con un tono di sconfittismo perenne (“Lo Stato non ha vinto”) e di complottismo (“Inizia adesso la trattativa Stato-mafia”; “Una latitanza coperta dalle istituzioni”), in un’escalation continua. È stato messo in discussione il successo investigativo della procura di Palermo e del Ros dei Carabinieri, lasciando credere che si sia consegnato chissà dietro quali oscuri patti e che, se non era stato catturato prima, ciò era dovuto alle alte protezioni di cui aveva goduto, senza specificare quali, ovviamente, ma solo per lanciare ennesimi messaggi a vuoto che rinforzano il clima complottista. Come dire, se è stato arrestato non è merito dello Stato, ma sempre in virtù di patti sporchi con lo Stato. Queste teorie complottiste e sconfittiste, basate sulla retorica e non sulla prova, sono diffuse da diversi media più per interessi di audience (è stato dimostrato che una fake news attira l’attenzione più di una notizia vera per quel pathos metafisico che genera) che necessariamente per malafede. La degenerazione di ciò, si è vista in una trasmissione televisiva nazionale nella quale si è arrivati perfino a iscrivere nella “borghesia mafiosa” due importanti studiosi, i professori Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, in quanto rei di esser critici dell’impostazione del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Un clima culturale molto preoccupante.
Il problema è che queste posizioni, spesso propalate da uomini delle istituzioni che dovrebbero aver maggiore riserbo, oltre a produrre gravi distorsioni in termini di politica giudiziaria, non tengono conto di due importanti cambiamenti avvenuti. Il primo riguarda i rilevanti successi conseguiti dallo Stato:
– la risposta dello Stato è stata efficace: nel rispetto dei vincoli democratici, lo Stato ha dimostrato di combattere le mafie costantemente e coerentemente, con le inchieste e con i processi.
– Una consistente e continua attività repressiva, con 17.391 persone arrestate per reati connessi alla mafia in Italia dal 1982 al 2017. Più di 450 condanne all’ergastolo per omicidi di mafia sono state comminate nel solo distretto di Palermo dal 1992 al 2006, mentre erano soltanto 19 nel primo grado del maxi-processo (tra l’altro, non tutte confermate in Cassazione) e circa una decina nei 100 anni precedenti. Più di 200 consigli comunali e provinciali sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose negli ultimi decenni, e nuove leggi volte a contrastare gli affari delle mafie sono state approvate dal Parlamento italiano. Le mafie sono state e continuano a essere colpite finanziariamente dalla costante attività delle forze dell’ordine.
– Il generale declino del numero di omicidi e la fine di omicidi di alto profilo. La forte repressione da parte dello Stato a partire dal 1992 ha reso questa strategia di contrapposizione estremamente costosa e controproducente.
– La fine di Cosa nostra “corleonese” e lo scioglimento della Commissione regionale e di quella provinciale di Palermo, a seguito dell’arresto di tutti i leader più importanti, nonché di molti membri di alto rango dell’organizzazione. Cosa nostra sta, dunque, attraversando una grave crisi di leadership e di profonda difficoltà economica e organizzativa. Una crisi senza precedenti nella sua storia di oltre 160 anni.
– L’andamento costante di nuovi collaboratori di giustizia: il loro ruolo è fondamentale per scoprire e contrastare gli affari delle mafie e per indebolire la forza dell’organizzazione; inoltre, la loro collaborazione con lo Stato mina la credibilità e la reputazione dell’organizzazione mafiosa.
– La nascita di movimenti e associazioni antimafia, una maggiore conoscenza e consapevolezza sociale e un diverso ruolo della Chiesa cattolica sono ulteriori fattori positivi.
Di fronte a questi cambiamenti, a questi successi, continuano a esistere “stati di negazione”, basati sullo sconfittismo con frasi come “Lo Stato non ha vinto” e sull’ubiquità del fenomeno mafioso.
Il secondo elemento di cambiamento riguarda le evoluzioni del fenomeno criminale mafioso e le ragioni per esserne tuttora preoccupati, sia sul lato dell’offerta sia, in particolare, per la “domanda di protezione”:
– a questo proposito, va innanzitutto menzionata la crescita della ‘Ndrangheta che ha sostituito la mafia siciliana come principale intermediario nel traffico internazionale di stupefacenti e ha sviluppato una relazione privilegiata con i grandi fornitori di cocaina del Sud America e del Messico.
– L’espansione della ‘Ndrangheta (e, in misura minore e diversa, di altre mafie) nel Nord Italia, in Europa e nel mondo; il suo ruolo crescente nell’economia legale, la capacità di interagire con il sistema politico ed economico e di infiltrarsi nelle istituzioni.
– La domanda di protezione e di servizi extralegali da parte di imprenditori, professionisti e politici, in un mix di fattori push (es. i lunghissimi tempi della giustizia civile in Italia, in media tre volte più lunga che in altri Paesi europei, possono spingere alcuni imprenditori a rivolgersi alla mafia per risolvere problemi importanti, quali il recupero crediti, le controversie di lavoro o con i fornitori), e pull (politici, professionisti e imprenditori talvolta cercano il rapporto con l’organizzazione criminale considerata come un’agenzia che fornisce utili servizi extra-legali e convenienti opportunità d’affari).
– L’aumento significativo delle segnalazioni di operazioni finanziarie sospette, in particolare in alcune regioni del Nord, quale indicatore di rischio di investimenti mafiosi e di riciclaggio dei capitali. Tassi elevati di illegalità nei mercati costituiscono un importante fattore ambientale per il radicamento e lo sviluppo delle mafie.
– L’uso persistente della violenza e dell’omicidio da parte di alcuni clan della Camorra (in particolare le gang, a differenza delle famiglie storiche più strutturate), e di alcune organizzazioni criminali in Puglia.
– La diffusione di organizzazioni criminali straniere, in particolare i gruppi nigeriani.
– La nascita di nuove organizzazioni di stampo mafioso, più piccole e territorialmente limitate.
I tentativi da parte di soggetti, individuali o organizzativi, di operare sotto l’ombrello dell’etichetta “antimafia” per perseguire finalità d’interesse personale, carriere e forme di legittimazione del tutto strumentali. In taluni casi, per perseguire addirittura finalità criminali.
Buona parte di queste evidenze sono neglette dalla discussione pubblica e dai media, perennemente centrati, invece, sulla controversa vicenda della cosiddetta trattativa, le cui tesi dell’accusa sono state ampiamente sconfessate in secondo grado per quanto riguarda politici e colletti bianchi. Nonostante ciò, ritroviamo alcuni autori di quell’indagine di frequente in tv a cercare di perseguire per via mediatica quel successo che non hanno conseguito per via giudiziaria. In una spirale di “tribunalizzazione della storia”, di riscrittura della “vera storia d’italia” dal versante giudiziario che solleva non poche questioni problematiche. In questo caso, oltre alla distinzione nota tra verità giudiziaria (accertata processualmente) e verità storico-sociale, si osserva l’emergere di un terzo tipo di verità, basata solo sulle ipotesi, talvolta di tipo fantasioso. Tutto in assenza di prove su cui dovrebbe basarsi, invece, rigorosamente il ragionamento giudiziario. E dalla possibilità si passa, per via mediatica, ad affermare la retorica come sostituto della prova.
Questa costante attenzione solo per le vicende di trent’anni fa mette in ombra i cambiamenti avvenuti, come detto, e soprattutto il ruolo della ‘Ndrangheta al Nord e il suo radicamento nell’economia legale. Dove quest’organizzazione criminale non influenza e conforma gli ambiti economici con cui viene in contatto, quanto invece l’opposto: è la criminalità economica che conforma l’agire mafioso, con gli indagati che adottano tecniche operative e commettono illeciti tipici del settore economico con cui vengono in contatto, apprendendo il modus operandi della criminalità economica (Operazione ‘Ndrangheta – GLS, Tribunale di Milano, Sostituto Procuratore Paolo Storari, 21/11/2022, p. 133).
L’impressione che emerge da tutto ciò, da questo guardare costantemente indietro come se il tempo si fosse fermato, rimanda alle considerazioni di Walter Benjamin sul quadro, l’angelus Novus, di Paul Klee, di un angelo spinto nel futuro ma con lo sguardo sempre rivolto all’indietro. Mi sembra l’immagine più appropriata per una certa antimafia mediatica basata sulla retorica.
FONTE: Rivista il Mulino 2022