Un convegno della Crusca ha studiato la diffusione della lingua italiana nel mondo in rapporto alla Chiesa cattolica, dal Cantico di frate Sole alle encicliche di papa Francesco
A volte nemmeno ci pensiamo. Eppure la diffusione della lingua italiana nel mondo si deve soprattutto alla Chiesa cattolica. Basti pensare al Papa, che nei suoi pellegrinaggi internazionali pronuncia i discorsi ufficiali in italiano. Persino l’incipit di un’enciclica, la Laudato si’, per la prima volta non è stato scritto in latino, bensì nell’italiano del Cantico di Frate Sole. Ma non solo: l’italiano sta diventando per la Santa Sede la lingua originale della produzione di testi dichiarativi e normativi. Non è quindi difficile osservare come la Chiesa sia diventata il più potente strumento di diffusione della nostra lingua nel mondo. A partire da questo dato di fatto, l’Accademia della Crusca ha avviato una riflessione sul rapporto tra religione e lingua italiana, così come si è sviluppato dai più antichi documenti medievali, spesso legati proprio alla Chiesa e all’uso religioso, fino ad oggi: dal citato Cantico di Francesco d’Assisi fino a poeti del Novecento come Clemente Rebora, Mario Luzi e David Maria Turoldo.
Una riflessione che a Firenze, tra l’Antica canonica di San Giovanni e la sede della Crusca, si è tradotta in tre giornate di studio, da giovedì a sabato, su “L’italiano, la Chiesa, le Chiese” nell’ambito della “Piazza delle lingue”, la manifestazione dedicata alla lingua italiana giunta quest’anno, dopo la pausa imposta dalla pandemia, alla tredicesima edizione per la quale il presidente della Crusca, Paolo D’Achille, ha parlato di «ripresa in grande stile», anche perché aperta fuori dalle mura dell’Accademia, in una sede dell’Opera di Santa Maria del Fiore, la rammentata canonica di fronte al Battistero di San Giovanni.
Nel corso della “tre giorni” si sono alternati numerosi studiosi ed è stato sviscerato il tema da più punti di vista. Si è guardato, come spiega Rita Librandi, vicepresidente della Crusca e vera anima dell’iniziativa, «ai legami tra religione e letteratura, alla trasmissione dell’italiano attraverso la predicazione e la catechesi, ai testi della letteratura di devozione che sono stati per secoli i più stampati e letti dagli italiani, alle scritture religiose delle donne, destinatarie privilegiate di testi religiosi grazie ai quali hanno trovato, in tempi in cui non era per loro facile, l’accesso al sapere, uno stimolo alla lettura e alla produzione scritta. Inoltre, la necessità di comunicare con i fedeli e la cura della loro istruzione religiosa hanno reso necessario utilizzare con il popolo una lingua che altrimenti sarebbe stata privilegio di pochi».
Molte delle relazioni sono state necessariamente per addetti ai lavori, ma non sono mancate le curiosità su alcune traduzioni della Bibbia nel corso nei secoli. Ad esempio, il famoso cammello nella traduzione cinquecentesca del Nuovo Testamento operata dal benedettino cassinese Massimo Teofilo diventa un canapo da nave («…è più facile che un canapo da nave passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio»). Oppure la pagliuzza che nella Bibbia interconfessionale diventa «scheggia», ma che in altre traduzioni era stata definita anche «bruscolo».
Comunque, in mezzo a linguisti di altissimo livello (Nicoletta Maraschio, Claudio Marazzini e tanti altri), l’apertura e la chiusura è stata affidata a due cardinali: Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, e Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio Consiglio della cultura.
Betori, dopo aver sottolineato «il ruolo sempre più incisivo che la lingua italiana sta assumendo nella vita della Santa Sede», ha parlato dell’incidenza nel rapporto tra italiano e Chiesa dovuto all’abbandono del latino nella vita liturgica del popolo: «Testi biblici e testi rituali si presentano ora ai fedeli nella lingua corrente e ne subiscono l’evoluzione, richiedendo periodiche revisioni. È accaduto recentemente con la traduzione in italiano della Bibbia per l’uso liturgico curata dalla Conferenza episcopale italiana, rinnovata nel 2008 come revisione della traduzione del 1971 a cui avevano dato il loro apporto linguisti e letterati quali Giacomo Devoto, Bruno Migliorini, Dino Pieraccioni, Giorgio Petrocchi, Piero Bargellini, Mario Luzi e Geno Pampaloni. La recente revisione, richiesta dal dover tenere conto degli sviluppi degli studi di critica testuale, ne ha in qualche modo – a giudizio dell’arcivescovo di Firenze – irrigidito non pochi passaggi, su prescrizioni provenienti dalla Santa Sede che spingevano per un maggiore letteralismo, nuocendo, occorre riconoscerlo, alla bellezza letteraria della traduzione, ottenendo però un testo più fedele ai testi originali ebraici e greci».
Ravasi, chiudendo ieri mattina i lavori presso la Villa Medicea di Castello, sede della Crusca, ha parlato di «lingua del dialogo tra le fedi diverse», proponendo quelli che ha definito «tre movimenti». Il primo in cui si intrecciano la religione ebraica e quella cristiana attraverso due orizzonti antitetici: Babel e Gerusalemme, Genesi e Vangelo di Luca. Da una parte la lingua che diventa strumento di divisione e del giudizio stesso di Dio; dall’altra, con la Pentecoste, la lingua che diventa elemento che unisce. Il secondo «movimento» comprende la parola come categoria teologica propria delle tre religione abramitiche con la Genesi (ebraismo) in cui la Creazione è un evento sonoro efficace («E Dio disse…»), il grande inno di Giovanni (cristianesimo) con una parola altrettanto efficace («In principio c’era il logos… tutto è stato fatto per mezzo di lui…»), così come quella del Corano (islamismo) attraverso la Sura 96 («In nome del tuo Signore che ha creato…»). Importante è anche l’aspetto fonetico, sonoro, quello grafico e quello simbolico della parola, che come parola scritta unisce tutte e tre le religioni. Si parla addirittura di «comestione», di Libro da mangiare.Per il terzo «movimento», Ravasi abbandona le tre religioni e affronta un altro dialogo, quello con la classicità: Atene e Gerusalemme. Nel confronto si rilevano anche qui due atteggiamenti antitetici: da un lato l’elemento dialettico, polemico; dall’altro il contrappunto armonico, il dialogo tra il cristianesimo e il paganesimo attraverso la lingua e ciò che la lingua produce, ovvero la cultura.
Per cui, riprendendo la tesi che era alla base del titolo («Lingua del dialogo tra le fedi diverse»), Ravasi conferma che le lingue sono l’elemento capitale del dialogo, ma importante è anche il silenzio, in cui c’è la componente del mistero. Da qui la citazione finale della poesia di David Maria Turoldo indirizzata al «Fratello ateo, non nobilmente pensoso, / alla ricerca di un Dio che non so darti, / attraversiamo insieme il deserto. / Di deserto in deserto andiamo oltre / la foresta delle fedi, / liberi e nudi verso / il Nudo Essere / e là / dove la parola muore / abbia fine il nostro cammino».
Di Andrea Fagioli – fonte: https://www.avvenire.it/