di Aldo Cazzullo
La prospettiva Lo Stato dovrebbe almeno valutare l’efficacia delle sue iniziative rispetto agli obiettivi dichiarati Le esigenze Per decidere i tagli serve conoscere. La stessa regola dovrebbe valere anche per gli aumenti di spesa
Gli autovelox non piacciono a nessuno e inquietano tutti. Ma è un po’ inquietante pure l’Italia che trasforma un vandalo in un eroe, inneggiando a un delinquente che distrugge beni pubblici e crea problemi a poliziotti, carabinieri, sindaci, insomma persone che lavorano per la comunità.
Certo, far lievitare una multa da cento euro magari non notificata in una cartella esattoriale da duemila è un sopruso. Interveniamo su quello (in parte lo si è già fatto, sia pure all’italiana: penalizzando gli onesti e gli ingenui che hanno pagato, e premiando chi non l’ha fatto). Ma l’autovelox, per antipatico che sia, serve alla sicurezza stradale. Non la garantisce. Però rappresenta un freno per automobilisti che altrimenti si sentirebbero autorizzati a sfrecciare a tutta velocità in un piccolo centro.
Sulle strade italiane si perpetua da anni una strage, ripresa dopo la pandemia pressoché ai ritmi di prima (3.159 morti nel 2022; nel 2019 erano stati 3.173, cui vanno aggiunti quasi 250 mila feriti). Se i numeri delle vittime sono più o meno gli stessi, la sensazione di insicurezza è cresciuta. Dai Suv alle Smart, sino ai monopattini sul marciapiede o contromano, abbiamo l’impressione che valga tutto; e se può capitare a molti di sbagliare, pochi sanno riconoscerlo e chiedere scusa. Certo l’autovelox da solo non risolve la questione; però potrebbe aiutare, ad esempio a Roma, la capitale europea dove si muore di più per strada.
Chi più spende meglio spende? Negli ultimi anni, con la pandemia prima e il Pnrr poi, la politica italiana ha abbandonato qualsiasi tentativo di «spending review». Siamo tornati alla vecchia abitudine di pensare che non c’è problema che una spesa in più non possa risolvere. Per questo abbiamo metà del prodotto intermediato dallo Stato e quello che presto, se la Grecia prosegue sulla strada presa, potrebbe essere il peggior rapporto debito/ Pil d’Europa.
Con coraggio, il ministro Giorgetti ha paragonato le spese degli ultimi anni a un droga cui ci siamo assuefatti. Ora che le regole europee tornano in vigore, dobbiamo eliminare quelle che non possiamo permetterci.
È sempre possibile che, in ragione delle necessità, lo Stato debba fare cose che prima non faceva. Ma non è necessariamente auspicabile che gli impegni nuovi si sommino a quelli vecchi. Magari lo Stato continua a svolgere compiti che sono diventati anacronistici, o iniziative che sono addirittura controproducenti rispetto ai fini dichiarati.
Poco prima di Natale la Ragioneria generale dello Stato ha pubblicato un interessante rapporto sulla «Valutazione delle politiche pubbliche e revisione della spesa», parte di una più ampia ricerca dell’Ocse. I risultati sono abbastanza eclatanti: «non esiste, in Italia, una quadro regolatorio sistematico, che definisca il mandato e l’organizzazione delle attività valutative e chiarisca le funzioni e le responsabilità dei singoli attori coinvolti».
Di fatto, oggi non sappiamo come spendiamo i soldi del contribuente. Nel bilancio dello Stalontà to vengono stanziati dei fondi con finalità determinate, ma poi nessuno verifica se sono stati utili allo scopo, e tanto meno se quello scopo avrebbe potuto essere raggiunto in modo meno costoso.
Lo studio sottolinea come le attività di valutazione e revisione della spesa siano profondamente intrecciate. Serve «conoscere per deliberare» dei tagli. Però dovrebbe servire conoscere anche per deliberare degli aumenti di spesa. Invece all’interno della Pubblica amministrazione la valutazione procede sostanzialmente sulla base della buona vodelle diverse amministrazioni, non è improntata a criteri omogenei, si scontra con l’assenza di competenze specifiche, che per altro non sono particolarmente richieste nei processi selettivi e formativi degli impiegato pubblici. «La domanda di valutazione da parte di politici e policy maker è molto debole»: chi l’avrebbe mai detto. L’ignoranza ci consente di non confrontare i risultati con le intenzioni — e discutere solo di queste ultime (come ci si può opporre a spendere per cause così evidentemente buone e urgenti?). Un segnale positivo è che nell’amministrazione si riscontra «un approccio culturale favorevole» alla condivisione dei dati e alla creazione di banche date open. Ahinoi, scrive sempre la Ragioneria, «la qualità dei dati è ancora bassa, con particolare riferimento agli indicatori di realizzazione fisica e di risultato degli interventi, a causa del loro scarso utilizzo nelle attività di valutazione».
Dai precedenti tentativi di spending review i nostri governanti hanno imparato che, per quanto la spesa pubblica sia una sorta di minestrone fatto assemblando gli ingredienti più improbabili, il costo di levare un ortaggio è molto alto, anche quando tutti sono d’accordo che senza, la zuppa migliorerebbe. Per la verità forse è meno vero di quel che si pensa. Il reddito di cittadinanza è stato rivisto dal governo Meloni, a una fetta non piccola di cittadini è stato tolto un sostegno importante, eppure non ci sono state rivolte. Le persone sono più sagge di come le immaginano politici e commentatori e sanno che nemmeno lo Stato può fabbricare quattrini dal nulla. Dobbiamo stare attenti a evitare che l’idea secondo la quale le riforme hanno un costo in termini di consenso non diventi non solo un alibi, ma anche una scorciatoia intellettuale.
Nel Pluto di Aristofane, quando Cremilo incontra la Povertà, nel senso della scarsità di mezzi, quest’ultima gli spiega che in sua assenza gli esseri umani non sarebbero spronati a lavorare e curarsi delle cose. Sapere che abbiamo a che fare con risorse limitate è ciò che ci porta a farne l’uso migliore. Lo Stato sembra convinto che questo non sia un suo problema. Può darsi che sappia fare meglio dei privati. Ma dovrebbe almeno valutare l’efficacia delle sue iniziative rispetto agli obiettivi. Soprattutto se, indebitandoci, le stiamo facendo finanziare ai nostri nipoti.
Fonte: Corriere