La grande eruzione dell’Etna del 1669 tra vulcanologia e storia


 

di Stefano Branca fonte@ ingvvulcani.com/

 

Il 1669 fu definito dalla popolazione interessata dall’evento vulcanico come l’anno della grande ruina (rovina). Durata ben quattro mesi, e caratterizzata da attività sia esplosiva che effusiva, questa notevole eruzione vulcanica è stata in grado di raggiungere Catania ed il mare, dove una comunità resiliente ha saputo intervenire per mitigare i danni e per consentire in seguito la ripresa del territorio. Infatti, a partire dal Basso Medioevo, periodo in cui si incominciò a strutturare il reticolo urbano con lo sviluppo dei numerosi centri abitati del versante orientale, l’eruzione del 1669 rappresenta l’evento che ha causato il maggior numero di danni alle aree coltivate e al tessuto urbano nella regione etnea.

 

Dal punto di vista storico l’eruzione del 1669 è stato l’evento che più di ogni altro ha condizionato la storia urbanistica del versante meridionale dell’Etna, in quanto, modificando radicalmente l’assetto del territorio, ha condizionato lo sviluppo dei centri abitati nei secoli successivi, influendo anche sulle attività produttive ed economiche. Numerosi storici sono concordi nell’individuare in questo evento eruttivo il momento di rottura dell’equilibrio tra la città di Catania e il suo territorio rurale. Anche dal punto di vista vulcanologico l’eruzione del 1669 è considerata un evento estremo, tale da modificare radicalmente il comportamento e lo stile eruttivo del vulcano nei secoli successivi. Difatti, questa eruzione chiuse un periodo eruttivo caratterizzato, durante il basso medioevo, da numerose eruzioni laterali avvenute anche a bassa quota (sotto i 1000 m sul livello del mare). Dopo l’eruzione del 1669 e fino al 1727 si registrò un periodo di bassissima attività eruttiva, seguito da un graduale aumento dell’attività, sia sommitale che laterale, che in gran parte interessò le quote medio-alte dell’Etna, a differenza dei secoli precedenti.

L’eruzione fu preceduta da un’intensa sismicità che ha avuto inizio alla fine del mese di febbraio e che raggiunse il suo culmine fra il 10 e l’11 marzo con la distruzione del paese di Nicolosi. Alle ore 16:30 circa dell’11 marzo si aprì una serie di fessure eruttive, orientate NNO-SSE, che si svilupparono da una quota di circa 950 m fino a 700 m sul versante meridionale. La bocca eruttiva principale si formò ad est del cono di M. Salazara, fra quota 775 m e 850 m; qui un’intensa attività esplosiva costruì nei mesi seguenti un imponente cono di scorie denominato dai contemporanei monte della ruina, successivamente rinominato Monti Rossi per cancellare dalla memoria storica del territorio il ricordo dell’evento più nefasto avvenuto sull’Etna. Durante il primo mese di eruzione l’intensa attività esplosiva alla bocca del monte della ruina generò una colonna eruttiva che, ricadendo al suolo, produsse un deposito piroclastico di lapilli talmente spesso e pesante da provocare il crollo dei tetti di numerose case dei paesi di Pedara, Trecastagni e Viagrande. La caduta dei prodotti piroclastici più fini (cenere) interessò una vasta area fino a raggiungere la Calabria e la Sicilia sud-orientale. Complessivamente il volume totale dei prodotti piroclastici eruttati, sia prossimali – per l’appunto il cono del monte della ruina – che distali, fu di circa 66 milioni di metri cubi.

L’eruzione durò quattro mesi: in questo periodo furono eruttati circa 600 milioni di m3 di lava, con un tasso effusivo medio alla bocca di 58 metri cubi al secondo che sono tra i valori più alti registrati negli ultimi 400 anni. Si formò un vastissimo campo lavico caratterizzato da un’area di 40 km2 e una lunghezza massima di 17 km; si tratta della colata lavica più lunga riconosciuta nel record geologico dell’Etna degli ultimi 15.000 anni. Nella fase iniziale, la colata lavica si divise in due bracci, a est e a ovest, per la presenza dell’ostacolo morfologico rappresentato dal cono di scorie di Mompilieri.

Il 12 marzo le lave distrussero le borgate di Levuli e Guardia e il paese di Malopasso, avanzando con un fronte largo circa 2 chilometri. Durante la notte del medesimo giorno la colata lavica coprì la chiesa dell’Annunziata, che in linea d’aria distava circa 2 km dalla bocca principale, e distrusse completamente il villaggio di Mompilieri (Fig. 2). Il 14 marzo, grazie ad un tasso effusivo di 630 m3/s, il braccio lavico occidentale raggiunse i paesi di San Pietro e Camporotondo. Fra il 15 e il 17 marzo si formò un nuovo braccio diretto verso sud-est, mentre il braccio orientale arrivò presso il paese di San Giovanni Galermo, distruggendolo parzialmente

Dopo due settimane di eruzione il tasso effusivo era diminuito a 170 m3/s e il braccio orientale si arrestò definitivamente dopo aver toccato la località Torre del Grifo, a nord di Mascalucia, e aver danneggiato le terre coltivate di Gravina, raggiungendo una lunghezza di 8,8 km. Nel frattempo, il braccio a ovest aveva raggiunto la sua lunghezza massima di 10 km, espandendosi nel pantano di Valcorrente, al confine con i terreni di natura sedimentaria delle colline chiamate Terreforti. Contestualmente, il braccio che scorreva a sud-est si divideva in diversi flussi che avanzavano nella località Carcarazza, localizzata a circa un chilometro a nord-ovest del paese di Misterbianco. Nel corso di queste due settimane, nei bracci a ovest e a sud-est si iniziarono a formare tunnel lavici. Fra il 26 e il 29 marzo, dal braccio occidentale si generarono nuovi flussi lavici che distrussero San Pietro e Camporotondo, mentre il fronte più avanzato continuava a invadere il pantano di Valcorrente. Negli stessi giorni, il braccio a sud-est cominciò a distruggere alcune case del paese di Misterbianco, che fu completamente sepolto il 30 aprile .

 

Circa un mese dopo l’inizio dell’eruzione, sebbene il tasso effusivo fosse notevolmente diminuito (30 m3/s), il braccio a sud-est continuava  ad avanzare velocemente grazie allo sviluppo dei tunnel lavici. A metà aprile la lava aveva raggiunto e coperto una piccola palude chiamata Gurna di Nicito e minacciava la porzione occidentale delle mura medievali di Catania. Il 16 aprile la colata lavica si addossò, per la prima volta, al tratto della cortina difensiva compresa tra i bastioni degli Infetti e del Tindaro

Le fortificazioni della città furono puntellate, e le porte di accesso murate con grossi blocchi di pietra lavica. In questo modo si contennero i flussi lavici deviandoli verso la costa, dove furono sepolte importanti strutture architettoniche di epoca romana, il Circo Massimo e la Naumachia. La colata lavica deviata dalle mura raggiunse per la prima volta il mare il 23 aprile. In questo periodo, il principe Don Stefano Riggio di Campofranco fu nominato vicario generale “per l’incendio di Mongibello” dal viceré del Regno di Sicilia, il Duca di Albuquerque; Stefano Riggio individuò presso la località di Ognina un sito di sfollamento dove fu costruito un accampamento per alloggiare il vescovo, i senatori e i cittadini che lo desideravano. Nel sito di Ognina furono anche trasportate le reliquie e gli arredi sacri delle chiese, le artiglierie e le scorte alimentari.

 

Il monastero, fondato nel 1558, venne completamente distrutto dal terremoto dell’11 gennaio del 1693. In seguito fu ricostruito a partire dal 1702 ed oggi costituisce un gioiello del tardo barocco siciliano, patrimonio mondiale dell’UNESCO.

Il 30 aprile fu un giorno cruciale per la popolazione catanese e per la città: sotto la spinta della colata lavica, crollò un tratto di mura lungo 57 metri tra il bastione degli Infetti e del Tindaro. Quel tragico giorno la colata entrò in città, avanzando lentamente verso il monastero di San Nicolò l’Arena, che fu raggiunto dalle lave fra il 1 e il 5 maggio, ed entrando anche nel settore sud-est attraverso la porta dei Canali. In quei drammatici primi giorni di maggio, con la lava che avanzava dentro la città, il senato cittadino si riunì per discutere l’eventuale abbandono di Catania e il conseguente spostamento dell’abitato in un nuovo sito e, sempre in quei giorni, ci fu il tentativo non riuscito di deviazione della colata lavica presso la zona di Malopasso, ad opera di un gruppo di uomini di Pedara, guidati dal governatore del paese Don Diego Pappalardo. Tale operazione pionieristica di deviazione prevedeva la rottura di un argine del canale di scorrimento lavico e fu finanziata dal vicario generale Stefano Riggio e dal senato catanese. Sia il vicario generale che il senato catanese organizzarono anche interventi di contenimento della colata lavica all’interno della città, con la costruzione di barriere di pietre a secco. L’8 maggio la colata si arrestò, dopo aver distrutto numerose case, alcuni palazzi nobiliari e diverse chiese. Intanto, altri flussi lavici continuavano ad accumularsi lungo il settore meridionale della cortina difensiva detta “sotto al Castello”. In questa zona il 16 maggio, presso il baluardo di San Giorgio, la colata superò le mura e iniziò a riversarsi dentro il fossato del Castello Ursino . Il castello, edificato a partire dal 1239 per volontà dell’imperatore Federico II di Svevia, si affacciava sul mare dall’alto del promontorio meridionale della città. Il 9 giugno la colata arrivò quasi all’altezza delle finestre, che furono murate, e il castello venne abbandonato. Nei giorni successivi si completò la distruzione di una parte del settore meridionale della città

Durante i mesi di maggio e giugno il flusso lavico principale, alimentato dai tunnel lavici, continuò a riversarsi in mare, dove complessivamente formerà un delta lavico ampio circa millecinquecento metri, causando lo spostamento in avanti della linea di costa di circa 800 metri.

 

Il periodo a cavallo fra i mesi di maggio e giugno del 1669 rappresenta meglio di tutti quello che è stato identificato come il momento di rottura dell’equilibrio tra la città e il territorio circostante. Secondo lo storico Giuseppe Giarrizzo, Catania prima del 1669 poteva definirsi una “città bianca” grazie alla ricchezza delle acque superficiali dell’Amenano: questo, chiamato impropriamente “fiume”, in realtà era un piccolo reticolo di drenaggio alimentato da diverse sorgenti localizzate in corrispondenza dell’affioramento dei terreni argillosi

E, proprio nel settore meridionale della città, la colata lavica seppellì i cosiddetti “36 Canali”, una fonte in cui le acque dell’Amenano erano state convogliate per uso pubblico in 36 condotte. Catania, così, perse improvvisamente e definitivamente la sua caratteristica di “città bianca”; scomparvero le acque superficiali e la città si trasformò in una “città nera”, dominata dalla lava. Ma l’effetto dell’eruzione non si limitò solo al cambiamento del reticolo idrografico, poiché modificò radicalmente anche il paesaggio circostante, isolando Catania dai fertili terreni della piana del fiume Simeto. Modificò, soprattutto, quello che per secoli era stato il ruolo difensivo dell’elemento architettonico predominante della città, la fortezza federiciana del Castello Ursino, annullando per sempre il suo rapporto con il mare.

L’eruzione si concluse l’11 luglio 1669, dopo quattro mesi di intensa attività sia esplosiva che effusiva, riscrivendo la storia del territorio della città di Catania e rappresentando un evento estremo nella storia eruttiva dell’Etna per quanto riguarda gli aspetti vulcanologici, l’impatto sulla popolazione e sul tessuto urbano. Alla fine dell’eruzione del 1669 si fecero i conti dei danni ma non quello dei morti; infatti, è importante ricordare che l’eruzione laterale più distruttiva di epoca storica non ha causato nessun decesso fra la popolazione, anzi costituì un forte impulso per la rinascita della città e del territorio circostante. La risposta all’emergenza vulcanica, da parte delle autorità locali e della popolazione, fu immediata, con la richiesta alla monarchia spagnola di nuove infrastrutture che avrebbero dotato la città di una maggiore competitività politica ed economica. Basti pensare che a fine settembre, dopo meno di tre mesi dal termine dell’eruzione, il viceré concesse la licenza per la costruzione di un nuovo borgo.

Catania, dopo la catastrofe del 1669, non si allontanò dall’Etna; rimase nel sito che i coloni calcidesi nel 729/728 a.C. avevano scelto per fondare la città di Kat’ane proprio per la ricchezza delle acque superficiali. Colpisce il fatto che gran parte di quella generazione di catanesi che visse e superò con grande slancio e determinazione l’anno della grande ruina, morirà a causa del terribile terremoto che colpì la Sicilia sud-orientale l’11 gennaio del 1693: il 63% dei circa 19.000 abitanti di allora morì sotto il crollo di quella città che 24 anni prima era stata salvata dalla colata lavica. Anche in questa occasione Catania fu ricostruita integralmente nel luogo di fondazione per conservare la memoria plurimillenaria della sua storia. Questa scelta è stata e sarà per sempre la cifra del destino di questa città e della sua popolazione.

Ricordare a distanza di 350 anni la drammatica vicenda legata all’eruzione del 1669 non solo da un punto di vista strettamente vulcanologico, è un esercizio doveroso e fondamentale della nostra memoria collettiva, utile per contrastare l’oblio dei fenomeni naturali che impattano violentemente su un territorio. Cosa abbiamo imparato da eventi come quello del 1669 o più recentemente da quello del 1928 che distrusse il paese di Mascali? Qual è stata nel tempo la consapevolezza e la conoscenza sui rischi naturali del territorio etneo? La risposta è semplice ed è legata alla recente storia dell’espansione urbanistica incontrollata avvenuta a partire dalla seconda metà del XX secolo, realizzata senza il rispetto della memoria di uno dei vulcani più attivi del mondo.