LA FORZA DEI POTERI DI VETO


Di Maurizio Ferrera

” Metodo È necessario un approccio diverso sui grandi temi trasversali e di lungo periodo, come l’ambiente” Rendere più sicura e sostenibile la vita sulla terra richiede grandi sforzi in investimenti e opere pubbliche: proprio quelle attività che il nostro Stato fatica a svolgere. In passato, si è sempre puntato il dito contro la mancanza di risorse, dati i noti vincoli di bilancio. L’ingente quantità di fondi messi a disposizione dalla Ue hanno oggi risolto questo problema. Parlando al recente Forum «Verso Sud», il ministro Raffaele Fitto ha dichiarato che per il periodo 2023-2027 (quattro anni) la dote finanziaria per il Mezzogiorno è pari a 350 miliardi fra Pnrr, fondi strutturali e di coesione e fondi nazionali. Non sono tutti per la sostenibilità ambientale, ma certo la scusa delle risorse non tiene più.
Ha perso mordente anche un altro alibi: lo scetticismo e persino le resistenze dell’opinione pubblica. Nei Paesi europei sono quasi scomparsi i negazionisti (in Italia sono il 2%) e la maggioranza dei cittadini (55%) si è convinta che il deterioramento dell’ecosistema planetario vada affrontato con urgenza, pensando al proprio futuro (7 su 10) e in particolare a quello delle nuove generazioni (9 su 10).
Se i soldi ci sono e l’opinione pubblica è favorevole, il nodo che resta da sciogliere è la capacità di attuazione. Ancora qualche giorno fa, il ministro per l’Ambiente Pichetto Fratin ha chiesto «tempi certi per le decisioni e per le opere». Viene da dire: perché non lo si fa? Chi mai non sarebbe d’accordo? E invece è proprio questo il problema: la quantità e la forza dei poteri di veto.
Iprocessi di attuazione degli investimenti pubblici poggiano su un coacervo di regole che prevedono la partecipazione di una spropositata pluralità di attori. Molti di questi possono chiudere il loro «passaggio a livello» e creare un ingorgo non perché può passare un treno (qualche danno non previsto dalle norme) ma al solo scopo di difendere i propri interessi.
La lotta al cambiamento climatico e più in generale l’agenda per lo sviluppo sostenibile richiedono all’amministrazione pubblica capacità straordinarie di progettazione, attuazione, monitoraggio e valutazione. Per lo Stato italiano la sfida è gigantesca, visto che non siamo ancora riusciti a dotarci delle capacità ordinarie tipiche dell’amministrazione novecentesca. Il governo Draghi aveva promesso semplificazioni «brutali» e un massiccio reclutamento di giovani competenze. Dispiace dire che i progressi sono stati deludenti. Nella cultura anglosassone, il dibattito pubblico avrebbe da tempo a disposizione almeno un «libro bianco» in cui si identificano con precisione i colli di bottiglia e si propongono le soluzioni. Da noi i poteri di veto riescono a impedire anche questo elementare primo passo.
Quanto accaduto in questi giorni deve spingerci a un approccio diverso sui grandi temi trasversali e di lungo periodo, a cominciare dall’ambiente. Pensiamo a quelli che gli esperti chiamano «eventi climatici estremi». Sono fenomeni meteorologici intensi che producono danni severi a cose e persone. In Emilia-Romagna la colpa è stata delle piogge torrenziali, ma ci sono anche la grandine, le trombe d’aria, gli incendi, la siccità. Tradizionalmente piuttosto rari e distanziati nel tempo, gli eventi estremi stanno diventando sempre più frequenti: in Italia nel 2022 sono aumentati del 55% rispetto all’anno prima (310 in numero assoluto). Più del 70% degli italiani ne ha avuto una esperienza diretta. Nella loro drammaticità, questi dati segnalano che la popolazione è pronta ad appoggiare politiche ambiziose e incisive per contrastare i rischi ambientali.
Meno pronto e, soprattutto, meno capace è invece il nostro Stato. Al di là delle polemiche strumentali, la risposta pubblica alle emergenze è in media efficace, riesce a mobilitare le risorse e le competenze necessarie: la protezione civile italiana ha un’ottima reputazione. Siccome un evento estremo causa danni immediati, l’ossessione per le procedure cede il passo alle esigenze strumentali, e in chi governa si attiva il vincolo (ma anche l’interesse) a rispondere ai bisogni contingenti dei cittadini. Le cose cambiano quando si passa dal breve al medio e lungo periodo e si deve definire e realizzare un’agenda di ampio respiro, imperniata sulla prevenzione.
L’ultimo Rapporto Istat sull’Agenda 2030 sottolinea i progressi del nostro Paese per quanto riguarda le emissioni inquinanti, ma mette in luce molti ritardi sul fronte dell’obiettivo 15 per lo sviluppo sostenibile, relativo alla protezione della biodiversità, la gestione sostenibile delle foreste, la frammentazione del territorio naturale e agricolo, il consumo del suolo. Su quest’ultimo versante il Rapporto segnala addirittura un peggioramento. Lombardia, Veneto e, appunto, Emilia-Romagna sono fra le regioni più cementificate, ove il territorio ha perso buona parte delle proprie difese naturali. La popolazione residente in aree esposte al rischio di alluvioni (65% in Emilia-Romagna), frane, incendi boschivi è aumentata rispetto a dieci anni fa.
Numeri che ci dicono che sarà possibile assistere a nuove crisi. Ma con risposte d’emergenza, per quanto immediate ed efficaci, una dietro l’altra, non si costruiscono politiche durevoli ed efficaci.

Fonte: Corriere