LA FILOSOFIA NELL’ANTICHITA’


 

 

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I problemi di filosofia morale, dall’antichità ad oggi, sono andati incontro a notevoli sviluppi ed evoluzioni: morale deriva dal latino mos, che significa “costume”, sicchè la filosofia morale avrà a che fare con la domanda “come devo comportarmi?”, a sua volta connessa ad un’altra questione: “che cosa è il bene? Per me? E per gli altri? E la relazione tra il bene per me e quello per gli altri?” Risulta fin da ora evidente come, per poter capire che cosa sia il bene per me, io debba preliminarmente capire chi sono io e, di conseguenza, che cosa sono gli uomini. Ne consegue che non possiamo interrogarci sulla morale se non partendo dalla filosofia in generale, soprattutto quella greca, che ha lucidamente formulato tutte le domande possibili. Ci imbattiamo subito in una radicale differenza tra la storia come magistra vitae (maestra di vita) e la filosofia come meditatio mortis, secondo l’interpretazione che dà Platone nel Fedone (60 d, e seguenti): prendendo alla lettera queste due massime, sembrerebbe che alla storia spetti il compito indubbiamente più gratificante di guida nella vita, di narrazione di ciò che è avvenuto, mentre alla filosofia toccherebbe l’ufficio più opprimente di riflettere sulla morte. Tutto ciò può essere facilmente smentito se teniamo presente la scarsa attenzione e la poca importanza riservata dagli antichi alla storia: già Aristotele – nella “Poetica” – opera una distinzione tra storici e poeti, mettendo in luce come i primi si limitino alla cronaca degli accadimenti, registrati nel loro singolare e contingente succedersi, mentre i secondi (alla pari dei filosofi) si occupano dell’universale, non di cosa accadde ad Alcibiade, ma di cosa potrebbe accadere ad uno come Alcibiade, cogliendo in tal modo i tratti eterni dell’universale umanità dell’uomo : narrano cioè le cose oia an genoito, “quali potrebbero avvenire”. Anche il filosofo si occupa dell’universale, in quanto si sforza di conoscere ciò che accomuna determinate cose, costituendone – al di là delle loro accidentali differenze individuali – il vero essere che le identifica per quelle che sono. In questa prospettiva, l’arte e la filosofia si pongono al di sopra del sapere proprio dello storico, confinato al particolare e alla banale catalogazione degli aventi. Un’analoga svalutazione della storia – forse anche più accentuata che in Aristotele – troviamo in Schopenhauer, il quale dice che gli oggetti della storia sono gli uomini e le loro imprese nel loro contesto storico, ricostruito dalla storia su un piano illustrativo; secondo il filosofo tedesco – in sintonia con Aristotele – se poesia e filosofia conoscono l’uomo in quanto tale, il filosofo coglie l’in sé di quelle cose che lo storico si limita ad elencare. Tutte queste considerazioni ci inducono a rivedere le due massime da cui siamo partiti: la storia è maestra di vita nel senso che, esibendoci il comportamento degli uomini, ci introduce alle innumerevoli difficoltà del vivere nel tempo, ma non è in grado di fornirci spiegazioni di più vasta portata. E’, in altri termini, maestra di vita nella misura in cui illustra il disagio esistenziale: dal canto suo, la filosofia è meditazione sulla morte nel senso che ha a che fare con questioni ultime e di ordine generale, tanto più che il filosofo stesso implica una morte. Infatti, questa superiorità della filosofia sulla storia e, più in generale, sul punto di vista comune è segnalata dalle grandi difficoltà che l’accesso al punto di vista filosofico implica. Questo passaggio – dal punto di vista comune a quello filosofico – comporta un autentico trauma, paragonabile a quello della conversione religiosa o del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, sicchè non è sbagliato dire che si tratta di una morte e di una rinascita: muore il vecchio (il punto di vista comune, o – per restare alla metafora della religione – il profano) e nasce il nuovo (il punto di vista filosofico, o il religioso). Il processo è pertanto accompagnato sia dai dolori della morte del vecchio sia da quelli del parto con cui viene al mondo il nuovo: questo passaggio lo troviamo per la prima volta esposto nei dialoghi platonici, il cui protagonista – Socrate – è l’ostetrico del filosofare, colui che ha assistito e coadiuvato la nascita del punto di vista filosofico, e ciò implica che egli inevitabilmente sia il becchino del punto di vista comune. Seguendo Platone, assistiamo al nascere e al crescere del filosofare, all’individuarsi e al distinguersi dei diversi punti di vista in virtù di una curiosità radicale e insoddisfatta di ciò che via via si trova a sapere. Viene in tal modo a delinearsi una netta separazione tra le opinioni (doxai) – proprie del punto di vista comune – e la scienza (episthmh) – propria del sapere filosofico: le prime sono suscettibili di essere vere o false, mentre la seconda è solidamente radicata nel vero. Nel Teeteto (180 e) Socrate si domanda: “chiami tu pensare quel che chiamo io? Un discorso che fra sé e sé l’anima tiene su ciò che esamina […]. Altro non è l’anima se non un discorrere”. Ciascuno di noi, secondo Platone, quando pensa è come se dialogasse tra sé e sé: ed è per questa ragione che il filosofo ateniese ravvisa nel dialogo la forma più adatta per fare filosofia, preferendola di gran lunga alla trattatistica. Le opinioni, ad avviso di Platone, sono acritiche, infondate e passivamente subite, mentre la scienza è costantemente critica e frutto della ragione, giudica e mette in krisiV un’opinione, mette in crisi ogni sapere dubbio, ogni pregiudizio (“si dice”, “si crede”, ecc): così si spiega come, se la filosofia è dialogo, l’opinione è invece monologo, assolutamente priva di confronti e aperture. In questo senso, l’Oriente non greco monologa, e infatti non scrive dialoghi ma libri sapienziali, mentre sono i Greci a scoprire la filosofia, intesa come messa in discussione di tutto, smascherando le opinioni, qualunque sia l’autorità di cui esse si ammantano. Si tratta, naturalmente, di un passaggio doloroso, giacchè si abbandona il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto: e non è un caso che la filosofia nasca con l’assassinio del suo ostetrico Socrate; mentre l’innocenza è immediata e, perciò, più fragile, la virtù non è immediata e dunque è meno fragile, poiché è stata messa alla prova. Il sapere filosofico, dai Greci ad oggi, è andato sviluppandosi lungo due direttrici: da un lato, dopo aver attraversato il fondamentale momento della critica delle opinioni, si articola in una visione onnicomprensiva e metafisica del mondo (Leibniz, Kant, Hegel, Marx); dall’altro, si è sviluppato un sapere in cui la riflessione critica della ragione non costituisce solo un momento imprescindibile, bensì costituisce essa stessa l’aspetto fondamentale di un filosofare in cui permangono dubbi e difficoltà di conoscenza: si tratta di un sapere lontano dalle pretese onnicomprensive e metafisiche, un sapere che procede con circospezione, che formula congetture più che teoremi. Tra i suoi esponenti – antichi, moderni e contemporanei (giacchè questa forma di pensiero è tipica dell’età moderna e contemporanea) – possiamo ricordare i Sofisti, gli Scettici, i Cinici, i Cirenaici, i Megarici, Machiavelli, Hobbes, Montaigne, Erasmo, Vattimo. Assodata la diversità tra punto di vista comune e punto di vista filosofico, si può anche vivere senza filosofare, cosicchè la filosofia sarebbe qualcosa di accessorio e di cui si potrebbe benissimo fare a meno (anche se contro questa tesi si schiera apertamente Aristotele nel Protreptico). Del resto, che la filosofia sia un lusso pare tramandato dalla massima primum vivere, deinde philosophari, con la quale si mette in luce come la vita venga prima della filosofia e come quest’ultima sia ad essa subordinata: ma – chiediamoci – se è vero che si può vivere senza fare filosofia, è anche vero che si può vivere bene senza fare filosofia? In particolare, sia Aristotele sia Bergosn distinguono tra “vivere” e “vivere bene”, domandandosi entrambi se il vivere non-bene possa dirsi vivere. Anche il filosofo deve soddisfare i suoi bisogni primari (la sete, la fame, ecc), altrimenti non sarebbe un essere umano ma un Dio: ciò non toglie, però, che nella misura in cui filosofa, egli si dedica ad un’attività divina, ingrediente della vita felice. Tuttavia, se considerati separatamente, sia il sapere critico sia quello metafisico sono insufficienti: anche se, a prima vista, sembrerebbe che i risultati del primo siano evidenti (quelli del secondo appaiono infinitamente meno soddisfacenti). In quanto conoscenza del vero bene, la ragione è confutazione delle passioni, sicchè queste nulla più possono contro di essa: la ragione sa anche che cosa ogni cosa deve essere, che cosa è giusto che ogni cosa sia. Attribuendo a ciascuno il suo, la ragione fa il giusto. Ma nel corso della storia è anche andato spostandosi il punto di vista verso Dio: se Tommaso è convinto che il teologo possa anticipare la scienza di Dio, la filosofia è per Hegel “la domenica della vita“, nel senso che è il compimento più alto e l’ornamento più squisito della vita umana. Tutt’altra concezione della ragione (e di Dio) è quella propria dei filosofi “critici”, per i quali – date le interminabili dispute che contrappongono tra loro i vari pensatori – è impossibile raggiungere una verità ultima; addirittura, agli occhi di costoro la metafisica , oltrechè inutile, appare nociva, poiché distrae dal sapere coerente dei propri limiti intrinseci di essere umano che procede per congetture e ipotesi, non per verità assolute. Questi pensatori tendono a concepire il bene come l’utile collettivo che la ragione di volta in volta individua e calcola: già Montaigne nota come basti spostarsi sull’altra sponda del fiume per accorgersi che tutte le leggi e le usanze cambiano, cosicchè ciò che di qua era lecito, di là non lo è. Emerge chiaramente, allora, come la giustizia altro non sia se non il frutto di un accordo mirante al bene della collettività, senza voler per questo arrivare alle note conclusioni di Trasimaco (nella Repubblica di Platone) secondo cui “il giusto altro non è che l’utile del più forte“. E’ una ragione rinunciataria, che rinuncia alla verità assoluta e si accontenta di piccole certezze acquisite un po’ alla volta. Una prospettiva rinunciataria, sì, ma con funzione strumentale, non ornamentale: mira infatti a promuovere un miglioramento della vita umana sulla terra anche attraverso lo sviluppo di quella scienza sempre troppo poco considerata dalla metafisica. Ecco perché la filosofia trasforma la vita vegetale in esercizio critico e mosso da sincera curiosità, contraddistinguendoci da tutti gli altri animali: per i metafisici, però, si tratta sempre della contemplazione della verità assoluta, ma, sotto questo profilo, è la prospettiva critica (sofistica e scettica) – tendente ad organizzare il nostro sapere terreno – a poter effettivamente migliorare le nostre condizioni di vita terrene, ed è per questo che oggigiorno tende a prevalere tale posizione. Ma dove va a finire la metafisica? Possono gli uomini eticamente fare a meno dell’ornamento? Non è un caso che nel Novecento l’architettura sia stata caratterizzata dall’abolizione di ogni abbellimento, promuovendo esclusivamente il funzionalismo e la completa oggettività. C’è anche stato chi ha detto che “l’ornamento è un delitto”, una sorta di reazione al culto del bello nella architettura liberty di inizio ‘900. Ma possiamo abbandonare il superfluo? Può il sapere rimanere chiuso e fare a meno di ogni forma di trascendenza? Forse la questione può essere, se non risolta, almeno chiarita in analogia con il ruolo che Kant assegna alla metafisica, da lui smascherata come un errore della mente umana, incline a spingersi erroneamente al di là del sensibile e del finito: secondo Kant, la metafisica è sì un errore, ma non per questo può essere debellata; così come quando in riva al mare vediamo l’orizzonte più in alto e, pur sapendo che si tratta di un’illusione, non per questo riusciamo a vederlo allo stesso livello del mare. Così come la metafisica viene da Kant, in qualche maniera, relegata all’ambito dell’ornamentale, impossibilitata ad una completa assolutizzazione, similmente possiamo capire come, da una parte, il superfluo non vada mai abbandonato e, dall’altra, come la metafisica rientri in tale superfluo/ornamentale. Dicevamo che è con Platone e con i suoi dialoghi che vede la luce la filosofia: ma il vero ostetrico del sapere filosofico è la figura di Socrate, colui che distingue la scienza dalle opinioni, cerca spiegazioni razionali, cerca di darsi ragione delle norme della propria condotta e del proprio sapere vagliando criticamente le opinioni e distruggendole quando – come spesso accade – si rivelano fasulle. Egli è armato dell’ironia e della maieutica: la prima è la figura retorica con la quale si farebbe intendere il contrario di ciò che si dice (cfr. Encyclopedie di Diderot; De oratore, III, di Cicerone; Quintiliano). Ma il tono della voce segnala una discrepanza tra il detto e il significato: se prendiamo il verbo greco eironeuomai notiamo come esso significhi “dissimulare”, “nascondersi parlando”, ma anche “canzonare”, “prendere in giro”; o eirwn , poi, vuol dire “colui che si spaccia per”. L’ironia può essere dunque definita come un espediente tecnico impiegato da avvocati e da oratori: Quintiliano la tratteggia come un modo di relazionarsi con gli altri improntato sulla comunicazione, un modo non soltanto indiretto, ma addirittura complicato e articolato. Non sorprende, pertanto, che l’ “ironista” sia più preparato rispetto al suo uditorio: il che si verifica soprattutto in due casi, quando cioè l’interlocutore è ignorante (ma si crede colto), o anche quando è intellettualmente debole, cosicchè gli si può dar ragione fino a che non vengano alla luce tutte le contraddizioni derivanti dall’ammissione delle sue tesi. Chi si avvale dell’ironia ne fa, in certo senso, un uso narcisistico, quasi umiliante nei riguardi del proprio interlocutore, cosicchè non è sbagliato dire che l’ironista esercita una forma di crudeltà verso gli altri, una sorta di sadismo, un irresistibile gusto che si prova ad essere superiori. Così il commediografo Aristofane fa del termine “ironista” un vero e proprio insulto con cui zittire chi asseconda falsamente i propri interlocutori, fingendo furbescamente di approvare le loro tesi; lo stesso Platone (Repubblica, I) mette in bocca agli interlocutori di Socrate parole piuttosto aspre verso la sua ironia canagliesca. Così, con Trasimaco finge di ignorare che cosa sia la giustizia, sfugge alle domande che gli vengon poste appellandosi alla propria ignoranza e spazientendo i propri interlocutori: si può allora dire che la difficoltà della ricerca sia ironia? Platone libera il maestro Socrate dal luogo comune mettendo in evidenza come l’ironia, propriamente, sia una relazione – indiretta – con la verità e per questo motivo dotata di valenze pedagogiche, poiché innalza l’interlocutore ad un sapere certo; così si ha l’impressione che Socrate si faccia beffe di Trasimaco e degli altri protagonisti della Repubblica, ma in realtà li incalza, li sprona come fa la mosca coi cavalli e li fa uscire dal vicolo cieco dell’opinione verso la retta via della scienza. In questo caso, la dissimulazione si configura quasi come una benevola conquista, non come un gesto di mera superiorità dettata da uno sprezzante orgoglio, poiché è finalizzata a portar fuori dal circolo della limitatezza: l’interlocutore non è più schernito e deriso, ma soccorso, l’ironia sacrifica il proprio sapere per redimere gli altri dall’ignoranza, è un abbassamento (khnosiV), un farsi piccoli per salvare gli altri. Ma – attenzione – ad abbassarsi è Socrate, non il sapere in quanto tale, altrimenti l’ironia si trasformerebbe in divulgazione. Il concetto greco di khnosiV come “svuotamento” (in greco kenon significa “vuoto”) lo ritroviamo nella teologia cristiana quando si parla dell’incarnazione di Dio e della sua liberazione dal peccato: e, in parallelo, c’è stato chi ha guardato in analogia alla figura di Socrate e di Cristo (Hegel stesso lo fa), poiché sia con l’uno sia con l’altro si ha un’autentica liberazione, ci si maschera per smascherare, si mistifica per demistificare ciò che pare certo ma che, in realtà, non lo è affatto. In questo senso, l’ironistica porta la guerra laddove c’è una pace illusoria, getta scompiglio, spiazza, è – in altri termini – pars destruens ma, in certo senso, anche pars costruens. Infatti, distrugge, sì, le opinioni, ma per partire da zero e fondare un sapere certo, che oltrepassi il limite e lo riconosca come ormai sorpassato, per rendere partecipi di ciò anche gli altri uomini: per far riferimento al celebre “mito della caverna” di Platone, è l’uomo che, liberatosi dalle catene che lo tenevano prigioniero sul fondo della caverna, sale in superficie, scopre la verità e ritorna dai suoi compagni per trasmetterla anche a loro. L’ironia socratica può allora essere definita come impegno totale per il Bene, uno slancio verso l’esistenza autentica e contro il lasciarsi vivere passivamente in cui molti incappano. Un tale sapere dovrà necessariamente essere di tipo concettuale, e del concetto Socrate stesso può dirsi inventore: esso è una definizione della cosa in questione (il bene, il bello, il giusto, ecc), una definizione che prende le mosse dalla domanda “che cosa è (ti esti) quella cosa?” e a cui si dà una risposta scientifica, esulante dall’opinione. In questo modo, tale aspirazione a spingersi al di là del dato si traduce in scienza dell’essere, come la metafisica (che è scienza dell’essere in quanto tale): e così la figura di Socrate va incontro ad un enigmatico sdoppiamento, per cui ci troviamo di fronte ad un Socrate platonico/metafisico e ad un Socrate empirico/cirenaico, uno speculativo, l’altro esistenziale (basato sull’ammissione della propria ignoranza e nella massima delfica del “conosci te stesso“). Ma il gnwqi sauton può dare adito a due diverse interpretazioni, una metafisica, l’altra esistenziale: al “conosci che cosa sei in quanto essere umano”, ossia “conosci che cosa è l’uomo” (scienza di sé), si contrappone il “conosci te stesso come singolo” (coscienza di sé), cercando di vivere la tensione al bene come tua propria esclusiva. Così Platone interpreta l’ignoranza come iniziale critica dell’opinione, mentre le scuole socratiche la concepiscono diversamente, come direttiva di vita più che di sapere, con la conseguenza che il vivere da filosofo vorrà dire comportarsi contro convenzioni e vivendo in pura naturalezza. Non si tratta pertanto – secondo le scuole socratiche – di cercare che cosa sia l’uomo, ma, piuttosto, di cercare degli autentici uomini, ossia coscienze adatte a ricercare il vero bene, coscienze che siano realmente se stesse senza cadere in convenzioni culturali, sistematiche e, in definitiva, conformistiche. Da questo atteggiamento (congiunto ad una valenza fortemente critica della ragione) deriva una forte autarchia (autarkeia), un esistere autonomamente senza farsi toccare dagli accadimenti esterni. Il problema dell’ignoranza era posto sul tappeto da Platone a proposito dell’immortalità dell’anima: nell’Apologia, invece, era lasciato aperto uno spiraglio di scetticismo, anche se poi – con la voce della metafisica – il filosofo ateniese avrebbe debellato del tutto l’ignoranza, arrivando ad ammettere la certezza di una vita ultraterrena e dell’immortalità dell’anima. L’ignoranza viene dunque bandita? Con Platone, Socrate arriva a verità iperuraniche e assolute, mentre con le scuole socratiche egli resta avvolto da un alone di ignoranza, di una “dotta ignoranza” (per usare le parole di Cusano), consapevole dei propri limiti intrinseci ma, non per questo, disposta a rinunciare al sapere. Se in Socrate sussiste un perfetto equilibrio tra i due atteggiamenti, in Aristotele e in Platone prevale decisamente l’indirizzo metafisico, mentre nella successiva età ellenistica trionfa quello scettico/critico: dal VI al XII secolo c’è poi una parentesi non filosofica ma teologica, dove l’attenzione per Dio e i problemi di fede prendono il posto in precedenza occupato dall’indagine filosofica, ora detronizzata. Dal XIII al XVI secolo torna invece a dominare l’indirizzo metafisico, ma da Machiavelli fino all’età illuministica (e così sarà anche nel Novecento post-marxista) trionfa l’atteggiamento critico/scettico. All’atteggiamento metafisico corrisponde un’etica saldamente basata sulla virtù, mentre a quello critico/scettico un’etica che fa dell’utile il suo parametro: ad esse sono sottese due differenti concezioni della ragione e del suo rapporto con l’etica. I pensatori dell’uno e dell’altro indirizzo si trovano d’accordo nell’individuare nell’uomo un’entità dotata di ragione e di passioni, ma quando si tratta di dire che cosa sia la ragione già nascono le prime divergenze di prospettiva. Per individuare i due tipi di etica, dovremo pertanto capire che cosa effettivamente siano le passioni e poi la ragione metafisicamente e critico/scetticamente concepita. Il termine greco che traduce “passioni” è paqoV, che letteralmente significa “quel che si prova”, dal verbo pascw; significa anche subire la presenza di qualcuno o di qualcosa, sicchè passione è il contrario di azione e il termine coincide con “affezione”, che vuol dire subire un’azione essendone influenzato e modificato: passione è dunque, in primo luogo, qualsiasi modificazione dell’anima. Tali sono anzitutto le sensazioni che ci giungono dal mondo esterno e dalle quali l’anima è affetta, ma tali sono anche le passioni in senso stretto, ossia le modificazioni di natura affettiva, dalle quali l’anima è mossa. L’anima (sia che sia sconvolta da passioni interne sia che lo sia da esterne) è mossa, è paziente, subisce un’azione, patisce sia le sensazioni provenienti dall’esterno sia le passioni producentesi all’interno (stati d’animo, emozioni, pulsioni: l’ira, l’odio, la paura, ecc), proprio come il paziente patisce la malattia e la cura somministratagli dal medico. L’anima è passione perché si ritrova ad essere preda di tali passioni, stati e pulsioni di volta in volta occasionate da certe circostanze, inerenti all’anima in quanto tale, latenti in essa e risvegliate dalle circostanze: le passioni sono – secondo Platone e Aristotele – una sfera dell’anima, l’anima sensitiva, che sta a monte della ragione. Esse invadono e tendono a dominare l’anima determinando il comportamento dell’individuo che ne è preda; un tale individuo è tutt’uno con la passione, è mero patire: esse sono necessarie, nel senso che si trovano naturalmente ad essere quel che sono, sicchè l’operare delle passioni è, a ben vedere, un operare subìto e patito, il passionale non sa perché opera a quel modo né ha deliberato di operare così, ma subisce passivamente quell’operare delle passioni in lui (come si dice: la passione è cieca). Sorprendono e catturano l’individuo che ne è vittima ignara: se l’uomo fosse solo passioni, ignorerebbe di esserlo. Ma finchè sono passioni, il mio agire resta un patire, un essere necessitato. Il linguaggio comune dice giustamente che si è spinti dalla passione, dall’odio, dalla paura, ecc; si è cioè spinti ad operare alla cieca, non discernendo e perciò non deliberando. Ma l’anima non è solo passioni: c’è anche, al suo interno, la ragione, la facoltà del pensiero discorsivo che guida l’uomo. Il problema della morale resta, in questo senso, il rapporto tra ragione e passioni: quale è il rapporto? Quale concetto di ragione fanno valere i diversi orientamenti filosofici? La ragione è dialogo (nell’accezione greca di dia + logoV), ossia un trascorrere da un concetto all’altro organizzandoli ed articolandoli in un sapere che risulti organico. Il concetto è così il risultato della definizione, dice che cosa una cosa è, ne coglie cioè l’essenza, costituendone l’essere che la identifica per quella che è, individuando ciò in forza di cui essa è se stessa, ciò che essa deve essere per essere se stessa. In altri termini, il concetto individua e coglie ciò che ritroviamo permanente e accomunante in tutte le cose che in virtù di quel qualcosa di permanente e accomunante formano una specie. Ma tale essere permanente e accomunante è per i metafisici l’essenza universale e comune, colta dalla definizione e fissata nel concetto. La domanda “che cosa sono Tizio, Caio e Sempronio?” rimanda a quella “quale è l’essenza universale che li costituisce?” Essi sono corpo e discorso, ovvero sono animali razionali: questo è il concetto che li identifica nella loro essenza, cogliendo il genere prossimo (sono animali, come molti altri esseri) e la differenza specifica (sono uomini); alla base di ciò stanno il principio di identità (A è A e deve essere A) e quello di non contraddizione (A è non uguale a non-A). Il termine “essere”, che abbiamo più volte trovato dispiegato nelle definizione, è però fortemente ambiguo: servendoci del linguaggio degli Scolastici, possiamo dire che si tratta di un termine non univoco, ma equivoco, ossia dotato di più significati. Soprattutto due: ha un significato essenzialistico e un significato esistenzialistico. Di un soggetto, infatti, possiamo predicare il verbo “essere” in due modi diversi, a seconda che si risponda a due diverse domande: “quid est?” e “an est?“. Nel primo caso, mi chiedo che cosa una cosa è, mentre nel secondo mi interrogo se essa c’è, ossia se esiste: così domandarsi “che cosa è ” Socrate è differente da chiedersi “c’è Socrate?”. Nel primo caso, voglio sapere in che cosa consista il suo essere, nel secondo caso, invece, mi interrogo intorno alla sua anitas, mi domando cioè se esiste oppure no. A questa seconda domanda, rispondo di volta in volta con una constatazione: se Socrate c’è, risponderò con “c’è”; se invece non c’è dirò “non c’è”. Alla prima, invece, rispondo allorchè vengo alla definizione della cosa, “Socrate è animale razionale”; posso rispondere solo se conosco la definizione. Se poi esperisco anche l’esistenza, potrò dire che effettivamente esiste un uomo di nome Socrate. Definendolo, siamo venuti a determinare il suo essere, ne abbiamo definito l’essenza, ossia ciò che ne costituisce la permanente ed irrinunciabile peculiarità del suo essere, tolta la quale cesserebbe di essere quel che è. Quando i metafisici parlano di essere, usano sempre l’accezione essenzialistica: l’ultimo grande metafisico – Plotino – dice che l’essere deve essere un questo (todh ti) e quindi alcunchè di delimitato, tant’è che l’ ousia stessa è un todh ti. All’essere non compete, secondo Plotino, il librarsi qua e là nell’indeterminatezza, bensì di essere consolidato da determinazioni e da forma, da delimitazioni, da stabilità e la stabilità è delimitazione e forma: l’essere è, anzi, sempre forma, un qualcosa di determinato, un essere conformato, il determinato esser qualcosa proprio di un certo ente, coglibile dal pensiero che lo coglie definendolo. Si scopre un’intenzionalità tra pensiero ed essere: il pensiero è fatto per l’essere che è forma, e l’essere in quanto è forma è definibile dall’esser ridotto al pensiero intelligibile, fatto per il pensiero stesso. E’ questo l’ottimismo razionalistico greco, che vede nella ragione l’arma appositamente data per conoscere il mondo. Sempre Plotino dice che occorre che il pensante afferri qualcosa di in sé distinto e il pensato, colto dal pensiero, deve essere alcunchè di indifferenziato, altrimenti non se ne dà pensiero, ma solo uno sfiorare – senza toccarlo – il concetto. In questo senso, Plotino sta introducendo la teologia: tutto ciò che è informe non può essere conosciuto, al massimo può essere alluso: tale è l’Uno, che è situato al di là dell’essere, è ineffabile, è nome al di sopra di ogni altro nome. Per il greco, l’informe è perciò stesso impensabile. La domanda “che cosa è?” prende di mira un esser qualcosa che ritorna in molti enti diversi, ma nei molti in cui lo riconosciamo appare sì diverso, ma è sempre lo stesso. Socrate è, in questo modo, identico e diverso dagli altri uomini: sono tutti ugualmente uomini, ma ciascuno lo è in maniera diversa. I tanti uomini si trovano accomunati da una stessa quidditas (l’esser uomo) che tutti sono, ma ciascuno a suo modo. L’esser qualcosa che li identifica e li accomuna è l’universale che li mostra come membri di una stessa specie. Oggetto del sapere filosofico è la quidditas delle cose esistenti nello spazio e nel tempo e che in quanto permanente e comune è coglibile dal pensiero e fissabile nel concetto: la scienza del sapere filosofico per oggetto ha l’universale e il necessario, mentre il mutevole e l’accidentale può essere raccontato ma non saputo nel senso più forte del termine. Così il sapere storico – ritornando al punto di partenza – è inferiore rispetto a quello filosofico. Non c’è infatti sapere stabile di Tizio o di Caio, ma dell’uomo che Tizio e Caio sempre e comunque sono: alla ragione filosofica compete pertanto un punto di vista peculiare, che non solo ha per oggetto l’universale, ma che proprio perché ha un tale oggetto deve esso stesso essere universale, vale a dire un punto di vista che trascende quello dei singoli individui empirici, variamente determinato dalle diverse impressioni sensibili, dalla mutevolezza della facoltà immaginativa, dall’influsso delle passioni. E’ il punto di vista della ragione stessa presente in tutti gli uomini. E il filosofo è colui che, riflettendo e ragionando, si converte dal punto di vista empirico (dove la ragione latita o dorme, e l’anima è ridotta a sensitiva) in cui trionfano le opinioni a quello superiore, in cui si è solo ragione, l’identica e oggettiva ragione presente in ogni uomo a prescindere da pulsioni, impulsi, fantasie: si tratta di un punto di vista super partes, in cui vige la pura e disinteressata conoscenza contemplativa del che cosa le cose sono, al di là degli accidenti, una pura e disinteressata contemplazione dell’essere, di cui la metafisica è scienza (secondo la definizione di Aristotele). Sia Platone sia Aristotele sono concordi nel concepire la filosofia come conoscenza degli universali, ma differiscono nell’intendere gli universali stessi, da Platone chiamati “idee” e intesi come ante remin re e post rem; da Aristotele (che li chiama “forme”) intesi solo in re e post rem. Dal diverso modo di intenderli, il differente tipo di conoscenza prospettato dai due filosofi: per Platone si tratta di anamnesi, per Aristotele di astrazione. Ma che cosa è l’idea (eidoV) per Platone? A partire da Cartesio, “idea” designa cumulativamente ogni genere di nostra percezione, è una rappresentazione mentale (l’immagine mentale che ho del rosso, del cane o di Dio). Ma per Platone non è così: essa coincide con la morfh, ossia con la forma, e allude ad un contorno racchiudente qualcosa, altro non è se non un essere qualcosa. L’esser uomo è una modificazione nel tempo e nello spazio dello stesso essere uomo che sussiste nell’eternità, immutabile, come pienezza di quel certo essere qualcosa, sussiste come complicazione di tutti i possibili modi di essere quella certa cosa. L’eterna, infinita pienezza dell’essere un certo qualcosa altro non è se non il mondo delle idee presupposto e principio di questo temporale mondo di singoli enti empirici, ciascuno dei quali è una modificazione delle idee a cui fa capo. E’ un particolar modo di essere quella o quelle infinite idee. Tizio e Caio sono diversi modi di essere dell’idea uomo e animale. A produrre queste modificazioni che sono le cose empiriche sono le idee stesse, che non cessano di essere quelle che sono (eterna pienezza d’essere) ma si modificano divenendo nel tempo e nello spazio i singoli enti che ad esse fanno capo, ai quali partecipano. Conoscere il vero essere delle cose sarà conoscere le idee. La ragione ridestata dalle sensazioni risale dal mondo sensibile (che sulle prime le appare come l’unica realtà) a quello iperuranico, di cui il nostro è copia sbiadita: la ragione si è destata e ad essa sola il filosofo si è ridotto, avendo trasceso i sensi da cui aveva preso le mosse. Che cosa sono gli enti? Esistono in virtù di se stessi o di un’altra realtà? Secondo Platone, essi esistono in virtù dell’esistenza di un’altra realtà, le idee, che ne sono il presupposto e il principio; le idee sono siffatte che esistono necessariamente come tali, la loro perfezione ontologica non può mancare di esistenza (prova ontologica). Universali sono per Platone le idee, perfette perché costituenti l’infinita pienezza d’essere: l’idea di cavallo, cioè, è la perfetta attuazione di tutti i possibili cavalli. Il che significa che l’idea di cavallo non è un enorme cavallo in cui stanno tutti i cavalli sensibili: l’idea è secondo Platone qualcosa di immateriale, fuori dal tempo e dallo spazio (altrimenti sarebbe finita e non infinita). La conoscenze delle idee sarà razionale, mera intuizione intellettiva, il che segnala che la ragione è tutt’altra dalla sensazione e dalle passioni, è completamente autonoma. Il motivo per cui Platone ipotizza il mondo delle idee può almeno in parte essere compreso se facciamo riferimento al nostro mondo: come può esso spiegarsi se non facendo riferimento ad un altro mondo di cui il nostro sarebbe copia? Che cosa può spiegarmi l’essere identico e diverso che accomuna le differenti famiglie di enti empirici, per cui vedo gli uomini uguali e diversi fra loro? Si tratta, naturalmente, di fare riferimento al mondo delle idee, per capire come l’esser cavallo (o, se preferiamo, l’idea di cavallo) sia presente nei diversi cavalli sensibili, che di essa partecipano. Gli enti sono appunto classificabili in forza di un’identità che li accomuna, ma un tale principio in grado di render conto del mondo quale a noi appare non è rintracciabile nel mondo sensibile, poiché tutti gli enti che in esso ci appaiono di volta in volta sono se stessi, determinati, e perciò non possono fungere da princìpi dell’esser uomo di Caio e di Tizio. Ciascun ente empirico, cioè, non può render conto della sterminata molteplicità di enti finiti, cosicchè essi si spiegano a partire da altro: proprio qui sta la differenza riconosciuta dagli Scolastici tra l’ “ens a se” (l’ente che sussiste di per sé) e l’ “ens ab alio” (l’ente che esiste nella misura in cui dipende da qualcos’altro). Il nostro mondo empirico non è “a se“, secondo Platone, ma “ab alio“, dipende cioè da qualcos’altro, e quel qualcos’altro è appunto il mondo eterno delle idee: l’essere quel che sono gli enti lo devono per l’appunto alle idee di tale mondo intelligibile, che, diventandoli, li fanno essere quel che effettivamente sono. E così il mondo esiste in virtù del parteciparsi delle idee, le quali continuano ad essere quel che sono e diventano la molteplicità degli enti finiti che ad esse fanno capo. Tuttavia né Platone né nessun altro neoplatonico ha mai azzardato a spiegare come ciò possa avvenire, come le idee si modifichino, poiché tale processo si sottrae al nostro sapere, il quale abbraccia solo la conoscenza del fatto che tale partecipazione è la sola cosa in grado di render conto dell’esistenza del mondo empirico (e che la ragione può conoscere le idee). Un’altra questione non irrilevante lasciata in sospeso da Platone è perché il mondo delle idee “crei” questo mondo: ricorrendo ad un’immagine che sarà propria dei Neoplatonici, potremmo dire che è come se Dio, nella sua esuberanza di essere, traboccasse perché “diffuisivus sui“, dandosi in maniera discendente, per cui il mondo è assolutamente inferiore rispetto alle idee. Nel mondo, dunque, non c’è nulla di veramente nuovo, l’unica relativa novità è che si tratta di un mondo deficiente rispetto a quello delle idee, che ne è modello. La conseguenza che ne deriva per quel che concerne la concezione della ragione è che conoscere empiricamente l’idea di cavallo significherebbe conoscere concretamente tutti i singoli cavalli esistiti nel presente, nel passato e nel futuro, senza trascurare alcun esemplare; e, del resto, noi possiamo predicare la cavallinità di questo o di quel cavallo empirico perché abbiamo già insita nella nostra testa, in qualche modo, l’idea di cavallo, alla quale raffrontiamo i cavalli sensibili quando diciamo che sono cavalli (riconoscendo in essi la cavallinità in noi presente a livello concettuale). Ciò significa che abbiamo già dentro la nostra mente, fin dalla nascita, l’idea di cavallo ed è in virtù di essa che possiamo riconoscere i singoli cavalli empirici dinanzi a cui ci troviamo: sono anzi tali cavalli sensibili a risvegliare in noi l’idea latente di cavallo. Si deve pertanto trattare, è evidente, di un’intuizione sovrasensibile, non ottenibile a posteriori, ma a priori, ossia è già sempre presente in noi, fin dalla nascita: come potremo allora dire che Tizio è più perfettamente uomo rispetto a Caio? Ciò avviene – risponde Platone – perché conosciamo il criterio, il modello, l’idea di uomo, con la quale confrontiamo Tizio e Caio, analizzando quale dei due meglio la imiti: in tale confronto si ha l’anamnesi, ovvero il ricordo di quell’idea di uomo già conosciuta (perché da sempre insita in noi) che ora, stimolata dall’esperienza sensibile (vedo Tizio e Caio) riaffiora alla memoria. Sicchè possiamo dire che la conoscenza sensibile è occasione perché nella ragione si sviluppi un’anamnesi che permetta di contemplare le idee: conoscere l’essere non sarà, quindi, un apprendere ex novo. Aristotele, dal canto suo, rifiuta la dottrina platonica delle idee, giudicandola una superflua complicazione il cui risultato è, tra l’altro, una ingenua svalutazione di questo mondo, che è secondo lo Stagirita l’unico e che per Platone era invece una pallida copia di quello iperuranico. Platone si avvaleva della dottrina delle idee, da lui elaborata, per una congerie di motivi, tra i quali merita di essere ricordato quello di sapore religioso: la dottrina delle idee permetteva al pensatore ateniese quell’anelito infinito verso l’assoluto che tanto gli stava a cuore, e l’intero suo sistema era pervaso da una profonda nostalgia per l’assoluto stesso, una nostalgia sconosciuta ad Aristotele; proprio tale nostalgia l’aveva indotto ad immaginare quello che Nietzsche definisce come il “retromondo” platonico, ossia quel mondo dietro il mondo che è l’Iperuranio. Questo mondo – dice Aristotele – si spiega benissimo da se stesso, senza far ricorso alle idee: le “forme”, infatti, sono atti d’essere un certo qualcosa, è un certo esser qualcosa in atto che ha in se stesso, nel suo esser atto, il proprio principio e la propria ragion d’essere. Naturalmente, nessuno di questi atti sussiste, in questo mondo, perfettamente attuato: mentre Platone parla di perfezione come infinita pienezza d’essere qualcosa (le idee), Aristotele la intende invece come piena attuazione d’un finito atto d’esser qualcosa. Nessuno degli atti d’esser qualcosa è perfettamente attuato, però, e ciò avviene perché ciascuno è legato a una parziale porzione di materia; così ogni anima razionale e sensitiva è sempre congiunta ad un corpo che limita quell’anima facendone l’umanità relativamente attuata di Tizio, di Caio e di Sempronio; similmente, l’anima vegetativa è sempre unita ad una porzione di materia che ne fa quella certa pianta. La visione del mondo che ha Aristotele è quella di un mondo eterno che sussiste in forza dei suoi princìpi costitutivi – le forme e la materia (sempre unite): l’essenza di una cosa, allora, è l’atto di quel certo esser quella cosa che la fa essere quella che è, ma è più o meno attuata a seconda del corpo che la natura le ha assegnato. In Aristotele, dunque, le forme sono causa e fine di se stesse: causa in quanto sono ciò in virtù di cui gli enti esistono; fine nel senso che sono ciò a cui essi tendono, sono la tensione verso la propria attuazione, una tensione ostacolata dalla materia e che riesce nella misura in cui la resistenza da essa opposta viene superata. Così l’uomo è tanto più uomo quanto più è filosofo, ovvero quanto maggiormente esercita lo strumento di cui egli solo è equipaggiato: la ragione. Come è facile capire, nella prospettiva aristotelica non c’è alcun bisogno di rimandare ad un mondo ulteriore ed ultraterreno: basta e avanza il mondo terreno, un mondo increato, eterno, in cui Dio – pensiero che pensa se stesso – è una sorta di magnete che mette in moto ogni singolo ente che tenta di emularlo nella sua immobile perfezione. In quest’accezione, il senso della vita risiederà in questo, nella realizzazione – meglio o peggio riuscita – del proprio essere. Anche Aristotele ritiene di poter spiegare l’identità/differenza aggirata da Platone grazie al ricorso al fantomatico mondo delle idee: gli enti empirici sono le sostanze, unioni di forma e di materia, e a spiegare l’identità/differenza sarà il fatto che in ciascuna sostanza di una specie è presente virtualmente lo stesso identico atto d’esser uomo, virtualmente identico ma variamente attuato nella materia. Così tutti gli uomini sono identici perché dotati dell’anima razionale, ma sono diversi per via della materia, che li distingue gli uni dagli altri. L’universale sarà allora conoscibile per astrazione, ovvero astraendo dall’oggetto sensibile la forma, pervenendo, attraverso il particolare, all’universale (per induzione): così da una miriade di singoli uomini, operando un’astrazione, ricaverò la forma uomo, come forma presente “in re” in tutti gli uomini singoli. Ma l’induzione non è il solo ragionamento, altrimenti avrebbe ragione Platone ad ammettere il mondo delle idee quale modello da cui il nostro enigmaticamente deriva: secondo Aristotele, l’induzione comincia, sì, come ragionamento, che paragona e raffronta, ma poi cessa di essere tale e culmina in un’intuizione dell’essenza, un’intuizione che giunge alla definizione dell’essenza stessa attraverso un salto in qualche misura extra-razionale. La ragione, in questo senso, approda intuitivamente a due diversi ordini di verità: le definizioni (ossia la conoscenza degli universali) a cui si giunge per induzione, e i princìpi primi (principio di non contraddizione e derivati) a cui si perviene invece per intuizione, poiché essi appaiono immediatamente evidenti alla ragione in quanto tali. A questo punto, il sapere è puramente razionale e da induttivo diventa deduttivo, cioè trae le conseguenze dalle definizioni e dai princìpi deducendo sillogisticamente. Sicchè definire l’uomo come animale razionale comporterà conseguenze morali e politiche che la ragione coglie per deduzione: il punto di vista della ragione è altro rispetto a quello delle passioni, questo è il nucleo centrale cui pervengono – per vie diverse – Platone e Aristotele (nonché tutti gli altri pensatori); l’etica della metafisica classica greca può essere condensata, a tal proposito, in tre punti fondamentali: 1) l’alterità della ragione rispetto alle passioni; 2) la superiorità della ragione sulle passioni; 3) l’immancabile vittoria della ragione sulle passioni. La superiorità della ragione risiede nel fatto che, conoscendo essa l’essere e quindi il bene e, di conseguenza, il vero e il giusto, è in grado di confutare le passioni e gli pseudo-beni che esse propongono all’uomo. Conoscere l’essere di una cosa significa conoscerne la verità, ma anche conoscerne il bene, giacchè esso è l’affezione del suo essere, e il bene è anche la giustezza della cosa (infatti una cosa è giusta quando effettivamente è se stessa): giusto, per un ente, sarà tutto ciò che inerisce al suo essere, anzitutto il diritto di essere se stesso. E’ giusto che l’uomo, dotato di ragione (la quale è attitudine al comando), sia libero, ed è giusto che chi della ragione è privo non sia libero: è un buon esempio (anche se rischioso, per le conseguenze a cui può portare) di deduzione. La ragione ci indirizza al bene confutando le passioni e in ciò possiamo già leggere la sua immancabile vittoria su di esse; dove si attua la vittoria, là primeggia ciò che è superiore, al quale l’inferiore non può in alcun modo resistere. La ragione è il superiore e si sa come tale e, in virtù di ciò, sconfigge le passioni, che non possono distoglierla dalla sua strada allettandola coi loro pseudo-beni effimeri; essa è inattaccabile dalle passioni, poiché rivela come quelli da esse proposti non sono veri beni; in questo senso, la ragione è eterna confutazione delle passioni: chi ne è preda lo è o perché in lui la ragione dorme o perché del tutto privo di essa. Le passioni magari non saranno cieche, ma senz’altro sono assai miopi, soprattutto se confrontate con l’occhiuta ragione: esse non si accompagnano, in realtà, ad un’assenza assoluta di pensiero; pullulano quando però manca la retta ragione e dominano la fantasia e l’immaginazione, producenti immagini mentali (i fantasmata di Aristotele), ossia immagini a metà strada tra il pensiero e il sensibile. Infatti, una cosa è il concetto di uomo, altra cosa è l’immagine di uomo: nel secondo caso, ce lo si rappresenta in quel determinato modo perché lo si è effettivamente visto in carne ed ossa: le conclusioni che poggiano su tali immagini, nate dal sensibile, non possono che essere (al pari del sensibile) fluttuanti, ondeggianti, instabili: così dirò, padroneggiato dalle passioni, che “mi piace, lo voglio” o “non mi piace, lo fuggo”. Si tratta, evidentemente, di un pensiero frutto delle inclinazioni sensibili, un pensiero configurantesi come elementare calcolo (cosa è che mi diletta di più?), dominato dalle passioni, strumento dell’appetito sensibile, gratificazioni empiriche mal fondate. Si tratta di pseudo-beni proposti come fini dell’ambizione, della volontà, del piacere: insomma, è un pensiero che finisce per opinare che il benessere fisico sia il bene supremo. Come possono, tuttavia, le passioni controbattere alle argomentazioni dispiegate dalla ragione scatenatasi contro di esse? Questa è appunto la loro insopperibile impotenza: non sanno argomentare. In secondo luogo, poi, l’intellettualismo greco (che abbiamo già visto in atto nella concezione dell’essere e del pensiero come fatti l’uno per l’altro) dà una clamorosa smentita delle passioni: la volontà è, per i Greci, una funzione della ragione, cosicchè è la stessa ragione che, conosciuto il vero e il bene, lo vuole a tutti i costi, senza soluzione di continuità. L’anima sensibile è, sotto questo profilo, conoscenza (perché sensazione e fantasia) e volontà (in quanto appetente), mentre l’anima razionale è conoscenza razionale e volizione razionale (cioè deliberativa): la ragione è sempre le due cose – pensiero e volontà – giacchè conosce il bene e, dopo di che, lo vuole adempiere a tutti i costi; si può a ragion veduta affermare che dove c’è la ragione c’è anche la volontà di raggiungere il bene conosciuto. Marsilio Ficino, in età umanistica, ha perfettamente colto quest’aspetto dell’intellettualismo greco: “come l’appetito irrazionale segue i sensi, così la volontà, che è avidità della ragione, segue ciò che l’intelletto conosce“, altro non essendo la volontà se non “un’inclinazione della mente al bene“. Del resto, la ragione è da sempre anche desiderio, desiderio di conoscere e di conseguire il bene che conosce, il che vuol dire che la volontà non è una dimensione ulteriore rispetto alla ragione: così Kierkegaard dirà che una cosa è sapere cosa sia il bene, un’altra volerlo. La ragione è, in questo senso, un Giano bifronte: nell’atto in cui conosce il bene, lo vuole; ed è per questo motivo che trionfa sulle passioni. Per il mondo greco, dunque, la volontà è, in certo senso, la ragione stessa in un’altra sua veste: ma, in età moderna, si opporranno a tale prospettiva Kant e molti altri, ad avviso dei quali la volontà è cosa diversa, e anzi opposta, alla ragione. Dove la ragione vige, essa è già sempre essa stessa oltre gli appetiti sensibili, risulta l’imprendibile per essi, il che è stato formulato brillantemente dal detto scolastico “voluntati naturale est quae bona iudicata sunt velle” (“per la volontà è naturale volere ciò ch’è stato giudicato buono”): ciò vuol dire che la volizione è il frutto necessario di una conclusione logica (con cui si individuano il bene e il giusto), sicchè nell’atto con cui conosce delibera coerentemente. La vittoria della ragione sulle passioni si configura in modi diversi in Platone e in Aristotele: in Platone, la ragione si separa dai sensi e dal sensibile diventando pura contemplatrice del mondo delle idee, a tal punto che l’anamnesi platonica è appunto quest’ascesa dell’io empirico spazio/temporale del filosofo al vero io che è la ragione eterna contemplatrice delle idee, di una dimensione divina (tema, questo, che verrà approfondito da Plotino e dai suoi seguaci, per i quali la ragione ridestata corre dall’empirico all’intelligibile). L’anima si fa secondo Platone mera anima razionale, e se la reminiscenza è recupero dell’io autentico, è allora evidente che l’anamnesi platonica ha una dimensione specificamente ontologica, cioè implica una trasmutazione ontologica del soggetto e non ha nulla a che fare con una presunta reminiscenza psicologica (come è invece quella ammessa da Proust). Tale ascesa platonica comporta, sul versante etico, una fuga (fugh dice Plotino) dai vizi dell’individualità empirica e sensibile, giacchè è un’evasione dal sensibile (pensiamo al mito platonico della caverna), è un andare oltre le deficienze dell’io empirico, che invece tenderebbe ad assolutizzare il livello sensibile. La virtù platonica per eccellenza sarà, in quest’ottica, la sapienza, poiché è conseguendo questa che l’io raggiunge la propria autenticità, rirecupera la “plenitudo essendi” della ragione contemplante e tale sapienza implica la giustizia e la capacità di esercitarla. Per Platone, dunque, la dimensione etica si configura nei termini di una vera conversione radicale (di metabolh si parla nella Repubblica) che presenta le caratteristiche di una fuga da questo mondo. Diversa è, invece, la posizione sostenuta da Aristotele, il quale – come sappiamo – tiene ben saldi i piedi per terra: anche quando è filosofo, l’uomo resta, secondo lo Stagirita, indissolubilmente legato al corpo e il conoscere stesso muove pur sempre dalla conoscenza sensibile (la quale non è pertanto un mero trampolino di lancio, come in Platone); ma anche per Aristotele la ragione, in ultima analisi, si colloca su un punto extra-razionale, puro e disinteressato, un livello di mera contemplazione delle forme che costituiscono l’in sé delle cose e, di conseguenza, l’ordine del cosmo, astraendo del tutto dal sensibile, ma non per questo distaccandosi dal corpo e dalle sue esigenze. Non potersi completamente distaccare dal corpo equivale a dire che si può filosofare solo ad intermittenza, ossia solo dopo aver soddisfatto i propri bisogni fisici, di fronte al cui ritornare bisognerà nuovamente sospendere l’attività filosofica per poterli soddisfare. E’ nell’ Etica nicomachea di Aristotele che troviamo, in nuce, l’etica del mondo classico: al cuore di questo scritto sta la distinzione tra “virtù etiche” (cioè pratiche) e “virtù dianoetiche” (cioè proprie della speculazione). Le virtù etiche sono degli atti della ragione, delle volizioni secondo ragione e questi atti – a furia di ripetersi – si consolidano, ma non in abitudini (ovvero in azioni di natura meccanica), bensì in abiti, che sono il frutto di successive e sempre rinnovantesi deliberazioni: il ripetersi di una deliberazione consolida la tendenza della ragione a comportarsi in un dato modo. La virtù, quindi, è quell’atto della ragione consolidatosi in abito, cioè nella disposizione ad agire secondo ragione: così la ragione subordina e limita le inclinazioni passionali che le si parano dinanzi. Temerità e viltà – dice Aristotele – sono due passioni contro ragione, mentre il coraggio è una forma di virtù razionale: ma chi è coraggioso? Colui che è permanentemente disposto ad osare o a temere secondo ragione, e questo può essere acquisito solo con la ripetizione dei singoli atti di coraggio che instaurano l’abito stesso del coraggio, atti che sono sempre consapevoli e razionalmente deliberati. La ragione, allora, modifica le passioni subordinandole a sé: gli impulsi a osare o a temere, se abbandonati a sé, si trasformano nelle mostruose passioni della temerità e della viltà, ma è la ragione a trasformarle in coraggio: non le elimina, ma le modifica, deliberando di avvalersene come essa stabilisce. In questa maniera, compio un atto coraggioso quando, di volta in volta, temo e oso secondo ragione: in presenza delle inclinazioni a osare o a temere, la ragione delibera di osare e di temere quando e quanto sente che è giusto e, così facendo, si esercita nel coraggio, trasformando le disposizioni passionali nel coraggio (che è appunto una virtù etica). In questo senso, da passioni subite diventano azioni deliberate, novità prodotte dalla ragione che doma e soggioga le aberranti passioni, impedendo che nasca la viltà e la temerità. Ben si capisce come per Aristotele (e in ciò concorda l’etica greca tutta) non sia la ragione ad essere al servizio delle passioni, ma viceversa: è essa a deliberare autonomamente il comportamento virtuoso a cui uniformarsi. Aristotele dice apertamente che la superiorità della ragione si manifesta nella suprema virtù etica: la giustizia. Essa è la virtù suprema perché ad essa sono subordinate le altre, che essa comprende ed organizza; è infatti solamente grazie alla giustizia che le altre virtù sono quello che sono. Esse, infatti, sono il giusto mezzo tra due inclinazioni opposte: così il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerità, la liberalità è il giusto mezzo tra la prodigalità e l’avarizia. Ma Aristotele intende qui la giustizia sensu lato: ha infatti in mente la “giustizia politica” (o “universale”), quella cioè che ha per oggetto ciò che è giusto per natura e che costituisce il bene comune. La giustizia politica concerne l’universalmente e il naturalmente giusto, che altro non è se non l’universale ordine dell’essere, ovvero l’ordine del mondo e umano. E la giustizia è, appunto, quella virtù che è disposizione permanente a riconoscere, conservare, promuovere ed eventualmente restaurare tale ordine; ciò significa che un uomo è giusto nella misura in cui riconosce l’ordine, nel duplice senso che lo conosce (ragione speculativa) e lo promuove (ragione pratica), affinchè esso si preservi e prosperi e nel tutto sopravviva la parte, intesa come parte contestualizzata nel posto che le compete nell’economia del tutto. E l’uomo giusto si deve adoperare anche attraverso giuste limitazioni e rinunce, anche attraverso la rinuncia a volere tutto e immediatamente. Allora potremo dire che giustizia è favorire e promuovere il tutto, il giusto ordine delle cose: ma tale ordine va anzitutto conosciuto ed è conoscibile solo da una ragione che prescinda dai punti di vista particolari e che sia collocata da un punto di vista universale, come disinteressata contemplatrice della verità delle cose, verità che coincide con la giustezza stessa delle cose (esse sono giuste nella misura in cui sono se stesse). Ma questo è il sapere metafisico, possibile solamente in quanto sviluppantesi da un punto di vista universale e disinteressato: tale giustizia coincide col bene comune, dove ciascuna cosa attua coerentemente il proprio essere. E questo bene comune è naturale, tutt’uno con la natura delle cose, altro non essendo questa se non la loro essenzialità. Si tratta, dunque, di un bene colto da una ragione attenta, giacchè in grado di trascendere quello che Machiavelli chiama “il particulare“. Soltanto chi ha una simile visione del giusto ordine potrà sempre sapere come agire giustamente, sarà ad esempio in grado di agire quando è giusto e con il giusto coraggio, evitando oculatamente sia la viltà sia la temerarietà. Solo chi ha una simile visione e agisce sempre di nuovo deliberando acquista l’abito della giustizia, virtù delle virtù. Egli sarà giusto in tutto ciò che fa, e sarà colui che realizza pienamente se stesso, attuando in pieno la propria razionalità di uomo, ossia la propria struttura metafisico-etico-politica; sa, conosce e agisce di conseguenza all’interno della poliV, in cui si trova a posto con se stesso perché è al suo giusto posto. Vive interamente secondo ragione, conosce la giustizia ed è ad essa che mira (nella duplice accezione che la contempla e ad essa aspira), esercita la “giustizia distributiva”, consistente nel dare a ciascuno il suo (“dare cuique suum“), ossia recapitandogli ciò che naturalmente gli spetta. Ma il vero filosofo – oltrechè col dare a ciascuno il suo – esercita la giustizia anche correggendo le disuguaglianze, ripristinando la giustizia venuta meno: in questo modo, egli esercita la “giustizia correttiva” (o “commutativa”). E’ facile capire come, nella prospettiva aristotelica, sapienza e giustizia siano le due facce della stessa medaglia, poiché il sapiente è il giusto e il giusto è il sapiente, in cui la retta ragione non incontra ostacoli nel suo dispiegarsi. In questo senso, si può dire che le virtù sono attitudini prodotte dalla ragione e, perciò, inesistenti prima di essa: se le passioni sono subite, le virtù sono attivamente agite (in quanto deliberate). Questo vale per quel che riguarda le virtù: ma Aristotele si riferisce spesso anche alla virtù in senso lato, come atto della mente umana; egli dice che la ragione conoscente e agente, se funziona correttamente, realizza le sue possibilità ed è in ciò che consiste l’areth, il perfetto compimento della natura umana, compimento che corrisponde del resto alla felicità. Sicchè l’uomo potrà dirsi felice quando e nella misura in cui si sente realizzato, e per realizzarsi dovrà attuare metafisicamente la propria natura, esercitando quell’elemento che più di ogni altro lo rende uomo: la ragione. Non è, dunque, il lavoro a realizzare l’uomo, come credeva Anassagora e come crederà Marx, bensì il pensiero. Tale areth è realizzabile entro i confini della poliV (perciò è politica), è la condizione del sussistere del soggetto umano, il quale – se vivesse al di fuori della città e, quindi, isolato – non sarebbe altro che una bestia. Anche l’esercizio della ragione si realizza al meglio nella vita di relazione, solo in tale contesto è dato praticare le virtù etiche: è solo nella poliV, infatti, che si realizza la vera filosofia platonicamente intesa in forma dialogica, come scambio reciproco di idee che si attua nella relazione interpersonale. Ed è solo nella poliV che può svilupparsi l’amicizia, da Aristotele distinta in amicizia fondata sui bisogni (un’amicizia di mutuo soccorso, che nasce dalla necessità di soddisfare reciproche esigenze) ed amicizia disinteressata (solo questa autentica e duratura, poggiante sulla reciproca attuazione della propria razionalità). L’animale razionale è, secondo lo Stagirita, tale in quanto è animale politico, cosicchè la poliV può essere etichettata come naturale approdo della ragione umana. Questo significa che il consenso politico è quello naturale e implicito di tutti gli uomini, dei veri uomini liberi, ossia di tutte le rette ragioni, è – in altri termini – il consenso a cui naturalmente la ragione perviene. Allora alla base dello Stato non vi è il patto sociale, cioè l’opzione soggettiva di una molteplicità di individui che si accordano a tavolino e convengono su cosa è il bene comune, ma, al contrario, c’è l’esigenza oggettiva dell’universale natura umana, ossia dell’uomo concepito come animale razionale/politico. Dove c’è una molteplicità di individui dotati di retta ragione, lì si produce lo Stato, come insieme spontaneo di individui governati dalla loro ragione. Naturalmente, in una concezione del genere pare serpeggiare un esasperato ottimismo antropologico, che sarà deriso dagli uomini rinascimentali. Tuttavia, onde evitare di scivolare in facili fraintendimenti, è bene domandarsi cosa dobbiamo intendere per “uomo” quando sentiamo Platone e Aristotele parlarne: chi è uomo? Chi ha la ragione e la esercita rettamente, cosicchè uomini in senso pieno sono i soli filosofi, ossia una esigua minoranza. L’ottimismo di partenza già scricchiola. La posizione stoica, poi, pare sotto questo profilo significativa: gli Stoici, infatti, dicono che il vero saggio (l’unico essere degno di essere detto “uomo”) non è mai esistito né mai esisterà, sicchè di uomo non ce n’è mai stato (né mai ce ne sarà) neanche uno. Senza arrivare agli estremismi stoici, ma restando a Platone e ad Aristotele, all’ambito dell’umano vengono da loro sottratti molti individui che noi, abitualmente, riteniamo uomini in senso pieno: così già Platone – nella Repubblica – nota come gli esseri umani siano stati plasmati con tre diversi metalli, con la conseguenza che ci sono uomini superiori e uomini inferiori dalla nascita, senza possibilità di cambiare status; l’educazione stessa, più che trasformare l’essenza di ciascuno, porta a svilupparsi ciò che ciascuno è potenzialmente fin dalla nascita. La posizione di Aristotele è più drastica: a suo avviso, non sono propriamente esseri umani tutti coloro che non possono esercitare rettamente la ragione: restano così esclusi dalla cittadinanza umana schiavi, ragazzi e donne. Solo i Sofisti – gli illuministi del mondo greco – avevano affermato a gran voce che la schiavitù esiste solo convenzionalmente e che, alla nascita, gli uomini sono tutti uguali: tesi, questa, abbracciata, seppur con sfumature diverse e piuttosto variegate, da Ippia, Antifonte e Alcidamante. Già Platone, invece, sosteneva che solo i Barbari potevano essere fatti schiavi, mentre ciò era impossibile con individui di origine greca. Ma è legittimo domandarsi quale sia la differenza (ammesso che ci sia) tra uomini liberi e schiavi: Platone la individua nel fatto che gli schiavi sono sprovvisti di logoV e dotati esclusivamente della doxa, possono cioè opinare senza però formulare ragionamenti, con la conseguenza che lo schiavo è un mero esecutore incapace di autodeterminarsi e in tutto e per tutto dipendente dal padrone. Questa distinzione la troviamo in Aristotele (Politica, I 13), il quale opera una diversificazione tra individui dotati di ragione (e perciò capaci di pensare e di prevedere) ed individui sprovvisti di essa e tenuti solo a faticare col proprio corpo; questi ultimi sono puri e semplici strumenti nelle mani del padrone, alla pari del bue e dell’aratro. “Differiscono quanto alle capacità di deliberare derivata dalla riflessione razionale: tutti hanno le parti dell’anima, ma in maniera diversa. Lo schiavo non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa; la donna la possiede ma senza autorità; il ragazzo la possiede ma non ancora sviluppata“. E – aggiunge Aristotele – si è degni di stare dentro o fuori le mura della poliV a seconda che si possegga o meno il boulhtikon, la capacità di deliberare. Lo schiavo può apprendere la ragione dal padrone, poiché la sua è una razionalità riflessa, che imita ed emula quella del padrone appunto. La donna, invece, la possiede ma senza autorità: ella ragiona poco, non al punto da persuadere, cosicchè, quando si trova a discutere col filosofo, ella si trova costantemente in uno stato di minoranza. Solo il maschio adulto (e per questo il ragazzo risulta escluso) ha piene facoltà razionali: esso solo è uomo nel vero senso della parola (animale razionale e politico). E non è un caso che lo Stagirita distingua l’adrapodon (l’essere dai piedi umani) dal tetrapodon (l’essere a quattro zampe, ovvero la fiera), identificando il primo con l’uomo, il secondo con lo schiavo. Secondo Aristotele, la schiavitù è giusnaturalisticamente costituita, giacchè esistono esseri dotati di ragione e per questo destinati al comando, ed esseri che sembrano essere uomini ma che in realtà non lo sono e, in virtù di ciò, mancano degli stessi diritti del cittadino, il quale è secondo lo Stagirita un greco, maschio, adulto, ozioso, urbano e libero, cosicchè – contrariamente alle tesi sofistiche – la schiavitù è naturale e legittima. Altra cosa, invece, sono gli schiavi per legge, ossia quegli uomini che perdono in guerra, poiché vinti, la loro libertà: una schiavitù di questo tipo è giusta solamente se i vinti fatti schiavi sono tali già per natura, altrimenti, se ci troviamo dinanzi a uomini un tempo liberi e ora privati della loro libertà e ridotti in catene, trattasi di una schiavitù illegittima. A corollario di quanto detto, ricordiamo la dottrina aristotelica del dispotismo e la distinzione ch’egli opera con la tirannia: il despota è per natura il padrone della casa (oikoV), e il dispotismo da lui esercitato è il potere arbitrario del padrone sugli schiavi e su quanti (donne e bambini) non sono propriamente uomini, sebbene Aristotele si renda perfettamente conto che la relazione intrattenuta dal “pater familias“/despota con la moglie non si configuri come un dispotismo, ed è per questo che lo Stagirita tende a parlare di un’aristocrazia all’interno della casa, dove a governare sono il marito e la moglie congiuntamente; in questo modo, viene reintrodotto il potere femminile, precedente negato. In sostanza, il dispotismo è il legittimo rapporto di potere che si instaura tra chi possiede il bouleutikon e chi ne è sprovvisto, un rapporto che è esercitato non nei confronti di cittadini, ma verso strumenti quali sono per Aristotele lo schiavo e il bambino. Al contrario, la tirannia è un sopruso esercitato nei confronti dei cittadini e per questo motivo è del tutto illegittimo, e reso ulteriormente illegittimo dal fatto che se il despota è il cittadino razionale e virtuoso per eccellenza, il tiranno invece è colui che meno possiede la ragione, e che anzi è preda delle proprie passioni, sicchè l’illegittimità del suo potere è fondata dal suo padroneggiare sui cittadini e sulla tipica incapacità di comandare propria di chi è in balia delle nocive passioni. In questi termini, il dispiegato ottimismo del popolo greco trova una sua clamorosa smentita: l’uomo, che così spesso troviamo tratteggiato nelle pagine dei filosofi, è in realtà un personaggio meno frequente del previsto, anche se non è mai possibile fugare completamente l’ambiguità di fondo, quell’ambiguità che ci assale puntualmente ogni qual volta ci imbattiamo nel termine “uomo”, così ricorrente negli scritti di Platone e di Aristotele. Alla diffusione di tale ambiguità ha contribuito il massimo divulgatore del pensiero greco, Marco Tullio Cicerone, troppo spesso presentato semplicemente come un avvocato capzioso e verboso, e non come una delle più lucide menti filosofiche dell’antichità, quale effettivamente fu. Il suo De officiis è la quint’essenza dell’etica antica: vi troviamo un costante elogio reiterato dell’uomo raziocinante, virtuoso, instancabile cultore del bene, interamente dedito all’esercizio della ragione, e, presi dal magnifico periodare ciceroniano, finiamo per dimenticare che quello da lui descritto è un animale rarissimo, quasi inesistente.

FONTE@ filosofico.net/