LA FILOSOFIA NEL MEDIOEVO


 

Tentata un’ardita sintesi, proveremo ora a delineare succintamente il mutamento intervenuto in ambito filosofico grazie al cristianesimo, tra il VI e il XII secolo d.C. La grande e fondamentale novità che l’avvento del cristianesimo ha introdotto è il ridimensionamento netto della ragione antica, la cui celebrazione greca deve fare ora i conti con l’instaurarsi del principio di autorità e con il dogma della destinazione divina dell’uomo, nonché della beatitudine eterna e, ad essa correlato, il peccato originale. Nel mondo antico, la ragione era la sola, suprema autorità, a tal punto che si potrebbe parlare di sovranità della ragione: nessuna autorità le contendeva il primato di autorevolezza teorica ed etica, il saper dire “che cosa fare” e “come agire”. Un tale agonismo tra la ragione e un’autorità da essa distinta interviene con il cristianesimo, che ha caratteristiche diversissime dalla religione degli antichi Greci e che lo conducono inevitabilmente ad un conflitto con la ragione, una belligeranza lunghissima e dapprima risolta (in età medioevale) con la subordinazione totale della ragione alla Rivelazione; tale subordinazione si attua in due momenti distinti: in un primo momento, nella fase patristica; in un secondo, in quella scolastica. Il momento patristico (che si protrae fino al XII secolo) ha la sua sistemazione in Agostino di Ippona e informa di sé la cultura teologica e monastica che domina fino al XII secolo a.C, quando subentreranno novità che porteranno ad una riformulazione – la “scolastica” – del rapporto intercorrente tra rivelazione e ragione, soprattutto grazie all’opera di Tommaso d’Aquino. Grazie all’Aquinate, verrà restituito, almeno parzialmente, alla ragione qualcuno dei diritti di cui era stata spogliata dalla patristica. Ma – chiediamoci – perché la religione antica non si era opposta alla ragione (come invece accade in età cristiana)? Le fonti su cui poggiava la religione antica, in special modo quella greca, erano due: la mitologia e gli oracoli, e, per di più, la mitologia di marca greco/romana non si configura come una rivelazione divina, ma come un’affabulazione umana, come interpretazione del mondo, e ne sono portavoce i poeti (Omero ed Esiodo), i quali scoprono, immaginano e inventano gli dei, le loro reciproche relazioni e quelle con gli uomini; si tratta, dunque, di un’affabulazione anteriore e parallela rispetto alla riflessione razionale, ma – al pari di questa – è pur sempre umana e, perciò, risolvibile nella speculazione filosofica, secondo un passaggio dal muqoV al logoV, passaggio che si concretizza nella cultura antica, quando cioè i filosofi hanno fatto propri i miti e ne hanno dato formulazioni razionali. Così hanno agito Platone, gli Stoici e i Neoplatonici, rielaborando in chiave razionale i miti; anche Epicurei e Scettici si sono mossi in un contesto non del tutto differente, demistificando la mitologia come cumulo immane di fandonie liquidate dalla ragione: da tutto ciò si evince come, nel mondo antico, ragione e mitologia non siano mai, propriamente, entrati in conflitto. Sull’altro versante, l’oracolo è parola divina comunicata agli uomini in luoghi precisi (i templi) attraverso una persona consacrata alla divinità venerata in quel determinato luogo: un tale verbo divino ha, tendenzialmente, contenuto di pronostici, di oroscopi, di divinazioni, ed è rivolto ai singoli che di volta in volta interrogano l’oracolo. Ciò segnala che alla religione antica ineriva una funzione eminentemente profetica, e il profetismo era risolto in una precisa casistica, il Dio si esprimeva attraverso il medium umano (la Pizia, la Sibilla, ecc), che rispondeva di volta in volta a puntuali e circoscritte domande, quali “che cosa fare nei momenti di ansia e di paura?” Le risposte, quindi, erano altrettanto puntuali rispetto alle domande, cosicchè la parola oracolare del Dio non si organizza mai in un configurarsi di rivelazioni, ossia in una visione complessiva, totalizzante e veritiera del reale; al contrario, il verbo divino non concerne la verità, e d’altro canto quando tende ad articolarsi in verità si presenta sempre come affabulazione poetica, che può essere rielaborata dai filosofi. Non è un caso che, in tale prospettiva, agli antichi greci fosse sconosciuta una Bibbia rivelante la verità, una Chiesa intorno alla quale raccogliersi, poiché questa si costituisce solamente in seguito ad una rivelazione, di cui è l’unica autentica interprete. Non sussiste nel mondo antico alcun problema di fede e ragione come due possibili e diversi accessi alla verità: il problema, invece, si pone con le “religioni del libro”, con il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo, dove ci si imbatte in una rivelazione divina che si scontra con la ragione, ai cui occhi tale rivelazione appare come una folle stranezza, in quanto non solo predica cose nuove e non pronunciate dalla ragione, ma addirittura incomprensibili e opposte alla ragione stessa e ai suoi dettami (tale è il caso della Trinità, che si oppone al principio di identità). E per di più tali stranezza vengono dalla Rivelazione sentenziate con una veste di autorità sovrannaturale, come verbo divino. Con il mondo cristiano, ci si trova dinanzi a due distinti fonti della Verità immediatamente contrastanti e guerreggianti, cosicchè diventa inevitabile interrogarsi sul loro rapporto: per i non cristiani, la Rivelazione è mera invenzione umana e, come tale, viene prontamente liquidata. Ma, con l’erezione del cristianesimo a religione dell’impero avvenuta sotto Costantino, si ha l’insediamento del principio di autorità, e questo perché la natura divina della Rivelazione del libro è imposta e riconosciuta dal potere politico, spesso – se necessario – con la forza. In quanto parola divina, essa è l’assoluta verità cui la ragione umana è chiamata a sottomettersi, con la conseguenza che la “pagina sacra” e la dottrina che i suoi legittimati interpreti ne traggono è la Verità stessa, cui deve piegarsi ogni pretesa verità puramente umana. Ne sorge una società in cui la cultura non potrà essere se non cultura del “Libro sacro”, cultura cioè di un solo libro, e configurantesi precipuamente come sua lettura e, rispetto a ciò che il testo detta, l’atteggiamento della ragione non potrà che essere ricettivo e strumentale, un passivo ascolto e una mera fornitura dei mezzi volti alla comprensione quel dettato dell’auctoritas: ed è appunto questo che si compie nei monasteri fino al secolo XI (lectio divina). Ma, accanto alla novità dell’autorità, è introdotta l’innovazione della mutata immagine dell’uomo: creato da Dio e destinato a godere di beatitudine eterna, anche se parzialmente compromessa dal peccato originale, ma recuperabile col soccorso della grazia divina, l’uomo non può contare soltanto sulla propria ragione. L’obiettivo centrale e imprescindibile della vita umana diviene lo sforzo di meritarsi la beatitudine eterna e, dunque, il tentativo di conseguire con le buone opere la giustizia divina occorrente per acquisire tale beatitudine, una giustizia che è però radicalmente diversa da ogni altra. Si tratta tuttavia di un obiettivo irraggiungibile in questa vita, stante quel peccato originale che ha corrotto la ragione e ha tarpato le ali alla volontà di ottenere la beatitudine; è però in virtù della Grazia che tale impegno viene finalmente premiato, e la vita acquista senso in riferimento al suo tendere alla santità. L’uomo che si sforzi di vivere rettamente (secondo la legge divina, non quella umana) è destinato allo scacco qualora pretenda di raggiungere tale fine esclusivamente con le sue forze, poiché – come nota Agostino – si trova ineluttabilmente vinto dal peccato se non fa riferimento alla Grazia divina liberatrice. In quest’ottica, le morali elaborate dagli antichi sbagliano nel proporre fini puramente umani e terreni, che alla luce della Grazia si rivelano come illusori ed effimeri, lungi dall’autentico Bene. E il raggiungimento di quel bene terreno e umano – vuoi l’areth aristotelica, vuoi l’ascesa razionale platonica – richiede l’esercizio di virtù che sono tali solo per chi ignora la natura di Dio e dell’Amore (agaph) che Egli pretende dalle sue creature, quell’amore disinteressato per il prossimo che è sconosciuto all’etica antica; il falso eudaimonismo dei Greci poggia, secondo i cristiani, sull’ignoranza di quale sia la natura divina, giacchè tutto ciò che concerne la relazione intercorrente tra uomo e Dio (e dunque la Grazia, il peccato originale, la perfezione dell’Amore, ecc) esula dalle capacità conoscitive della ragione resa incapace dal peccato originale. Allora la relazione con questo Dio rivelatosi diventa l’essenziale, e così l’uomo in quanto ragione mira a conoscerLo e in quanto volontà tesa a compiere quella divina è rimandato continuamente a tale Rivelazione, alla quale deve in tutto e per tutto sottomettersi, piegandosi anche alla Grazia che si sviluppa in un nuovo agire reso possibile dal concorrere della Rivelazione e dalla Grazia: è, questo, l’unico vero sapere e l’unico vero agire, l’unico a contare davvero per la salvezza, frutto della Grazia agente sulla ragione e sulla volontà, secondo quanto stabilito da Dio. Con la “patristica” assistiamo ad una radicale delegittimazione di ogni punto di vista che non sia quello imposto dalla fede, e pertanto il sapere viene concepito e praticato unicamente come teologia, ovvero come LogoV intorno a QeoV, come scienza di Dio: si tratta di un genitivo sia soggettivo sia oggettivo, in quanto Dio è l’oggetto di tale scienza, ma è al contempo Dio stesso il soggetto che sa, è la Grazia divina che con la Rivelazione informa il fedele circa Dio. La delegittimazione di ogni altro sapere finisce per investire anche la filosofia e viene scandita secondo due modalità: in primo luogo, il filosofare umano è congedato come errore frutto dell’ignoranza di che cosa sia la natura divina; in secondo luogo, qualora non venga così brutalmente messo alla porta, viene etichettato come una vana curiosità intorno a cose di poco conto se raffrontate all’unica cosa che davvero conta: la salvezza umana; tutto ciò che non ha ad essa attinenza è vana curiositas e, come tale, va rigettato, si abbandona il sapere umano e si abbraccia la fede, viatico alla beatitudine eterna, una fede che è un assenso e una fiducia in ciò che viene rivelato, ma è altresì notizia di ciò che è rivelato, ossia è nozione di ciò in cui si ripone la fiducia. La fede, pertanto, incrementando questa sua spinta conoscitiva, si sviluppa in intelligenza di sé e dà così vita ad un sapere in cui è al contempo oggetto e soggetto; tale sapere è intellectus fidei, l’intellezione della fede, l’intellezione che ha ciò in cui crede. Agostino dice che vi è un primo momento di “fede semplice”, e un secondo in cui si è fatta intellectus fidei. Nello stato di fede semplice, la ragione aderisce strettamente alla parola scritturale, la tiene per vera e si riduce ad essa, si ha cioè una ragione come mera ricezione del Verbo. In un secondo momento, in forza dell’illuminazione proveniente da quella parola, l’intelletto muove dalla parola mirando ad una più ampia comprensione della parola stessa e, quindi, dirigendosi ad essa: la parola è principio della fede, e la fede illuminata tende ad una più profonda comprensione della parola. Sempre muovendosi entro l’orizzonte della parola, la fede da semplice diventa teologia, anche se tale passaggio non si verifica in tutti i fedeli (nella stragrande maggioranza resta fede semplice), ma solo in pochi eletti. Agostino nota come nello sforzo di articolazione della fede da semplice a complessa, accada al teologo di ricorrere alle dottrine di alcuni filosofi che lo hanno preceduto e che lo sorprendono per la loro straordinaria somiglianza con quel che la Rivelazione dice: tali sono, secondo Agostino, i Platonici e i Neoplatonici. Ma non per questo il teologo abbandona i suoi panni per indossare il mantello del filosofo: non si rinuncia al proprio punto di vista, poiché le dottrine filosofiche accostabili a quelle dettate dalla Rivelazione altro non sono se non un plagio o il frutto di una Rivelazione parallela; Platone stesso non è altro che un “Mosè atticizzato“. Come Mosè ha ricondotto il popolo dall’Egitto alla terra promessa, così Platone ha fatto il suo viaggio in Egitto e ha trovato le tracce della Rivelazione ebraica e se ne è impadronito per riformularle come propria filosofia. Ne deriva che il platonismo è un plagio. La seconda teoria (formulata da Clemente Alessandrino) è quella della “Rivelazione parallela”: stando ad essa, bisogna riconoscere che se ci sono (e, di fatto, ci sono) analogie tra alcune ragioni cristiane e alcune filosofiche, ciò dipende dal fatto che, accanto alla Rivelazione vera e propria, Dio ne ha prodotta un’altra – in senso lato -, ed essa corrisponde ad un certo filone della filosofia greca; e del resto la ragione di cui si son serviti nel loro incedere i filosofi antichi non è forse anch’essa il frutto della creazione divina? Sicchè il teologo che si impadronisce di certe dottrine filosofiche non fa altro che recuperare ciò che per natura è suo, formula cioè la stessa verità nello stesso modo in cui l’avrebbe prima o poi formulata, anche senza incontrare quelle dottrine filosofiche, poiché si tratta della medesima fonte di Verità. Fino a Bonaventura (XIII secolo d.C.), passando per Bernardo di Chiaravalle, domina questa prospettiva teologica che vuole la ragione interamente guidata dalla fede, e ciò non solo in sede teoretica, ma anche in campo etico, dove le improbabili virtù della sola ragione vengono surclassate dallo sforzo verso la santità supportato dalla Grazia, con la conseguenza che il vero comportamento è quello del monaco asceta e della sua assidua lotta contro il peccato, ch’egli conduce vivendo fino in fondo, nel suo cuore, la distinzione – soprattutto agostiniana – tra città divina e città terrena. Quando alla sovranità della ragione socraticamente intesa come curiosa di tutto si sostituisce l’autorità di un solo punto di vista imposto dalla fede, sovrarazionale e perciò inattaccabile dalla ragione, il dialogo cede il passo al monologo, la cultura da vivace che era diventa statica e stagnante, con un unico orizzonte entro il quale la ragione è mero strumento passivo, illuminato dalla Grazia: non vi è altro da sapere se non la vita eterna che si vivrà, e il nostro mondo perde in tal modo di rilevanza, quasi diventa favola, il monaco il monastero assurgono a simboli di una fuga dal mondo e dalla vita terrena, con l’apparentemente irrisolvibile paradosso che in quei monasteri in cui ci si vuole sottrarre dal mondo e dall’esercizio della ragione abbondano i copisti, che – attraverso il loro strenuo lavoro di copiaggio – trasmettono ai posteri un sapere puramente umano. In realtà, è un paradosso solo apparente, giacchè tali copisti, che ricopiavano per intero le opere dei grandi filosofi dell’antichità, facevano ciò solo per penitenza, per guadagnarsi il paradiso, senza nemmeno leggere quel che copiavano (sarà poi il mondo umanista che tornerà a leggere con rinnovato interesse i testi tramandatici dall’antichità). In tutte queste componenti del mondo medievale troviamo conferma della tremenda depressione culturale in cui è immersa quest’epoca: ma, a partire dalla metà del XII secolo d.C., si assiste al ritorno di Aristotele e del suo bagaglio di scritti, che irrompono portati dagli Arabi (soprattutto Avicenna e Averroè), e l’ingresso dello Stagirita in Occidente è uno shock culturale, in quanto ci si ritrova dinanzi ad una sistematica visione del mondo (precisamente: di questo mondo) che è così articolata, complessa e diffusamente argomentata – e perciò istruttiva – che non sembra più possibile sbarazzarsene come di un blocco fatto passare per menzogna o vana curiosità. E’ un sapere così autonomo che non sembra neppure possibile farlo rientrare in qualche modo nell’alveo della Rivelazione, poiché si tratta di un sapere improntato sull’esercizio non della fede, ma della ragione: con Aristotele, torna in Occidente – con rinnovato vigore – il sapere filosofico, dopo un esilio durato qualche secolo, con un effetto assolutamente dirompente, dal momento che costringe i teologi ad ammettere una forma di sapere altrettanto legittima rispetto alla loro, e li induce ad elaborare una nuova teologia che tenga conto di questa realtà poggiante su di un positivo sapere umano impostosi inconfutabilmente. Così, Bonaventura avrebbe preferito che Aristotele non fosse mai “risorto”, ma, di fronte al monumentale corpus aristotelico, non può non riconoscergli lo statuto di un sapere razionale valido, diverso sì da quello del teologo, ma non per questo da rigettarsi. Per questa via, la filosofia (opus rationis) e la teologia (intellectus fidei) si configurano come due ordini distinti, caratterizzati ciascuno da un proprio statuto, cosicchè alla teologia si impone di trasformarsi per poter intrattenere con la risorta filosofia un rapporto che le consenta di esserle superiore: prima che Aristotele facesse irruzione nell’Occidente medievale, la superiorità della teologia era scontata e aproblematica; ora, invece, la si deve riformare per far sì ch’essa sia in contatto con la ragione filosofica, ma restando ad essa superiore. Ed è in questa prospettiva che si orienta Tommaso, il quale fa nascere la teologia scolastica, ribadendo l’egemonia della teologia, pur non respingendo la ragione. Compie questo in due mosse congiunte: fa all’interno dell’economia della salvezza maggior spazio al puramente umano di quanto non venisse ad esso riservato dalla tradizione agostiniana. Prima del ritorno in Occidente di Aristotele, la ragione era del tutto appiattita sulla fede (“intellectus fidei“) e il sapere era meramente teologico: la ragione poteva sì conoscere qualcosa, ma unicamente in forza dell’illuminazione della Rivelazione. Con l’irruzione di Aristotele, anche i teologi più renitenti (quale fu Bonaventura) sono ora costretti a riconoscere, accanto a quello teologico, un sapere filosofico non scevro di una sua dignità, e il teologo deve quindi riaffermare la supremazia della teologia sulla filosofia, senza potersi sbarazzare tout court di quest’ultima: Tommaso non si esime da questo compito strategico con – come abbiamo già detto – una duplice mossa. Viene dall’Aquinate aperto maggior spazio di quanto non ne venisse lasciato da Agostino alla capacità razionale e alla volontà dell’uomo, poiché, se per Agostino il peccato originale ha fatto tabula rasa demandando l’uomo all’intervento salvifico della Grazia, secondo Tommaso tale peccato ha solo tangenzialmente ferito la natura umana, l’ha vulnerata di ferite non tali da impedire all’uomo l’esercizio delle sue naturali facoltà, ed è così (equipaggiato di efficaci doti conoscitive) che lo descrive Aristotele e, sulle sue orme, Tommaso. La ragione crea proficui processi argomentativi, ma risulta altresì in grado di innalzarsi, elaborando una teologia naturale (meramente razionale), ossia una vera – seppur parziale – conoscenza di Dio, razionalmente inteso come principio del mondo. Ed è a questo punto che subentra la seconda mossa di Tommaso: non solo il retto uso della ragione è possibile e dà buoni risultati, ma è il solo che, producendo una veritiera conoscenza del mondo e di Dio, non solo non è contrario alla fede, ma anzi prelude e introduce ad essa. Sicchè il percorso razionale è meritorio e degno d’esser praticato, e questo perché i due ordini (della ragione e della fede) provengono dallo stesso ed unico Dio, cosicchè la retta ragione non può contraddire la fede: la verità della fede e quella della ragione non si elidono vicendevolmente. Ciò vuol dire che una filosofia contraria alla fede è un errore della ragione che la ragione stessa è in grado di individuare e di correggere: la filosofia corretta è l’aristotelismo che culmina nella teologia razionale tomistica, quel tale aristotelismo sviluppato appunto da Tommaso nei suoi scritti; devono invece essere rigettate come errate tutte quelle interpretazioni dell’aristotelismo che hanno esiti diversi, prima fra tutte quella espressa da Averroè (contro i cui seguaci l’Aquinate si schiera soprattutto nel De unitate intellectus contra Averroistas), la cui rielaborazione dell’aristotelismo finiva per predicare l’eternità del mondo. La sola ragione può qualcosa da sé, se correttamente esercitata, e configura il filosofare come introduzione alla fede, giacchè un tal corretto filosofeggiare culmina naturalmente nella conoscenza di Dio. Ma la filosofia non si riduce a questo: il suo esercizio prosegue dopo l’incontro della ragione con la Rivelazione, la quale non fa altro che potenziarla; illuminata, la ragione è ora in grado di dare alla fede l’intelligenza di sé e la propria comprensione, cui è la fede stessa ad aspirare. Ne nasce il sapere teologico propriamente detto, sicchè il teologo è colui che anticipa la beatitudine conoscitiva propria degli eletti. In questo modo Tommaso, nell’atto stesso in cui riconosce la bontà e la legittimità del filosofare (se direzionato dalla fede), pone la filosofia sotto la tutela della teologia, ribadendo così l’incontrastata preminenza di quest’ultima. E’ sì legittimo filosofeggiare, ma tale attività – se corretta – è preludio alla fede: la filosofia è in tal modo ridotta al rango di ancilla theologiae. Non vi è contraddizione e neanche soluzione di continuità, giacchè il sapere filosofico si prolunga nella teologia positiva, cosicchè si tratta di un unico sapere frutto dapprima della sola ragione, poi anche della fede, il tutto sotto l’egida della Rivelazione e della fede stessa, il cui primato è costantemente messo in evidenza. Da una parte c’è la ragione senza fede ed è preambolo alla fede, ossia le cammina davanti; e, successivamente, abbiamo il sapere ottenuto dalla ragione congiunta alla fede, ci troviamo cioè di fronte all’inveramento di quel preambolo costituito dal solo procedere della ragione. Tra le due – ragione e fede – vige una nuova relazione anche sul versante etico/pratico: la stessa continuità che sussiste sul piano teoretico (culminante in teologia rivelata) regna anche sul piano pratico tra etica filosofica ed etica rivelata. A tal proposito, Tommaso parla di lex divina, di lex naturalis e di lex humana: quella divina è rivelata da Dio nella Scrittura, quella naturale è scoperta dall’investigare della ragione ed è anch’essa di natura divina, poiché insita nelle cose prodotte dal Creatore; infine, quella umana è deliberata e messa in atto dall’uomo, legittima solo in quanto derivata da quella naturale. In quanto dotato di ragione, l’uomo conosce la legge naturale, il cui nocciolo – apparentemente tautologico – è così esprimibile: fai il bene ed evita il male. Ora, il bene a cui fa qui riferimento Tommaso è il bene a noi noto nel significato aristotelico e colto, appunto, dalla ragione: si tratta, cioè, del bene come piena attuazione dell’essere proprio di ogni ente; tale processo si scandisce in fasi diverse: la conservazione di sé, la procreazione, la crescita della prole, la vita in società, la conoscenza della verità, l’agire secondo ragione. Ed è in ciò che consiste anche il raggiungimento della perfezione umana e della felicità terrena: ma questa, che per Aristotele era la massima felicità, per il cristiano Tommaso risulta invece una felicità imperfetta e depotenziata, terrena e perciò mutila. Occorre notare, a tal proposito, che in questo discorso di etica filosofica ritroviamo invariate tutte le caratteristiche del filosofare etico/aristotelico, ivi compreso l’intellettualismo, in particolare là dove esso asserisce che la volontà è funzione della ragione: non a caso Tommaso dice che “si ratio recta, et voluntas recta“, ad indicare che dove la ragione procede bene, lì anche la volontà – che ad essa è indisgiungibilmente connessa – funziona bene. Ma tutto ciò vale esclusivamente nell’ambito dell’etica naturale, cioè nell’adempimento della legge di natura: c’è però – come sappiamo – anche una legge divina, che la ragione non può conoscere né la volontà può adempiere, bensì necessita della Rivelazione per essere conosciuta e della Grazia per essere osservata. Essa prescrive all’uomo la iustitia divina, ossia il puro e disinteressato Amore divino, conosciuto con la Rivelazione e praticato con la Grazia: è solo tale morale a fornire la vera felicità, mentre l’etica naturale funge da preambolo ad essa proprio come la filosofia è preambolo al sapere teologico, nel senso che predispone l’uomo – distogliendolo dagli istinti passionali – ad ascoltare la volontà divina. Ugualmente, l’etica filosofica prepara l’uomo all’etica cristiana, è una prima tappa di raccoglimento in vista del conseguimento dell’eterna beatitudine. Siamo tuttavia in presenza di un evidente duplice ottimismo: da un lato, la ragione conosce le virtù (il che le era dalla patristica precluso) e, dall’altro, pur non soddisfando l’esigenza divina di giustizia, prepara ad essa, ottenibile solo in virtù del soccorso della Grazia; così la ragione, rinforzata dalla Grazia stessa, riesce per un po’ a perseguire la santità. Infine, la legge umana è quella stabilita dal potere politico amministrato dagli uomini: essa è legittima nella misura in cui è trasposizione fedele della legge naturale, e se la contraddice non è legge, così come quando la filosofia contravviene alla fede non è filosofia, ma erramento. Sicchè è lecito affermare che la legge è tale solo e nella misura in cui è giusta, altrimenti va respinta: ed è per questo che Tommaso riconosce la liceità politica della ribellione e della lotta contro il tiranno (con il conseguente abbattimento del medesimo). E tuttavia, nella legge umana, traduzione di quella naturale e divina, tale legge esprime parallelamente all’etica la medesima funzione propedeutica, poiché, costringendo a non fare il male e a non delinquere – anche solo per il timore di essere puniti – indirizza verso il bene, cosicchè c’è da aspettarsi che quanti costretti dalla legge non fanno il male solo per paura delle pene derivanti (ed è questa la tesi proposta nella Repubblica platonica attraverso il mito di Gige) si abituino a non farlo e a fare volontariamente ciò che prima facevano sotto costrizione. Da tutto questo discorso si evince come le novità apportate da Tommaso non siano poche e di scarso valore: prima fra tutte, la legittimazione del filosofare in quanto tale, seppur subordinato alla teologia e nonostante il persistere della subordinazione del terreno al divino; similmente, beatitudine eterna e santità restano lo scopo ultimo a cui tendere e per cui impegnare le proprie energie. Il tomismo restituisce alla sfera umana un respiro che per secoli era stato abolito: legittimare il sapere filosofico significa rilegittimare la conoscenza di questo mondo, e nelle università urbane fiorite ai tempi di Tommaso nel loro massimo splendore si insegna e si studia la filosofia come una conoscenza squisitamente razionale, soffermandosi sull’aristotelismo presentato in tutte le sue molteplici forme, anche le più radicali (l’averroismo). Anche se nella metà del 1200 si terrà a Parigi il processo intentato a Sigieri di Brabante e agli altri pensatori che, sulla sua scorta, ponevano la filosofia in antitesi con la fede, ciononostante la filosofia continuerà ad essere costantemente insegnata, godendo di grande fortuna. Ciò non toglie, però, che nella cultura dell’età medievale la relativizzazione della vita terrena e mondana resti dominante e sancita, e l’esigenza della santità rimanga discriminante; l’uomo deve sì raggiungere le virtù, ma non fermarsi ad esse, giacchè al di là vi è la santità. In questo panorama, la figura del monaco, ovvero di colui che impegna tutto se stesso nel raggiungimento di suddetta santità, resta un modello imprescindibile per tutti, di contro a cui la vita civile e mondana si rivela periferica e imperfetta. Del resto, non è un caso che ancora il Concilio di Trento minaccerà l’anatema a chi azzardi sostenere la superiorità del matrimonio sulla castità monacale: ciò testimonia come la vita nel mondo terreno resti per lungo tempo soggetta al sospetto e alla diffidenza, e come, nonostante le innovazioni e le aperture apportate da Tommaso e da altri pensatori illuminati, la modernità resti ancora all’orizzonte. La riscoperta di Aristotele impressiona fortemente l’Aquinate, ma viene spontaneo domandarsi perché non sortisca effetti altrettanto profondi su Agostino e sulla cultura del suo tempo, che aveva liquiditato lo Stagirita (inserito nel tutto della cultura antica) come errore e vana curiositas. Come è possibile che Tommaso resti affascinato dal pensiero greco espresso da Aristotele, mentre Agostino lo congeda come se fosse una bagatella? Una possibile risposta a tale interrogativo potrebbe essere quella che invoca la categoria hegeliana di “Spirito del tempo”, ossia la tendenza peculiare e irresistibile di una certa epoca storica e della sua cultura: la tendenza trionfante in una determinata epoca è, in definitiva, una manifestazione dello “Spirito del tempo”, e in effetti la categoria hegeliana è più complessa di quanto si possa pensare sulle prime, giacchè lo “Spirito del tempo” risulta composto da innumerevoli e imperscrutabili fattori che, variamente combinandosi, determinano i mutamenti epocali (ad esempio la fine del mondo antico e l’avvio di quello medievale). Tali fattori sono così numerosi (pressochè infiniti) da richiedere un’analisi quasi interminabile: ci troviamo pertanto di fronte ad una categoria vaga, perché in ultima istanza lo “Spirito del tempo” hegeliano sfugge alla presa della ragione discorsiva, è un certo nonsochè di sfumato, che non può essere colto dal pascaliano “esprit de geometrie“, ma dall’opposto “esprit de finesse“. Ed è in quest’ottica che dinanzi ad Aristotele si reagisce in maniere diverse, per svariati e non precisi motivi legati allo “Spirito del tempo”, forse perché ai tempi di Agostino la ragione era in declino e la fede rappresentava una novità sollecitante, mentre ai tempi di Tommaso, viceversa, si cominciava a nutrire un rinato interesse per le facoltà razionali così a lungo sepolte. In maniera del tutto analoga alla reazione di fronte ad Aristotele, capita che una stessa città, se vista nel cuore della notte, quando vi si giunge stanchi, appaia orribile; ma, al contrario, se osservata alla luce del sole, da riposati, risulti meravigliosa, pur essendo sempre la stessa.

FONTE@ filosofico.net/