Il teologo e filosofo morto nel 1993 svolse un’articolata analisi di modernità e secolarizzazione verso una religione aperta e in relazione diretta e dialettica con le culture
Giornalista e scrittore. Leo Lestigi ripropone una sua lunga intervista uscita per la prima volta quarant’anni fa con don Italo Mancini, teologo e filosofo a lungo docente di varie discipline all’Università di Urbino. Un cristianesimo radicale. Fede, culture e ideologia, ripresenta per i tipi di Stamen (pagine 90, euro 14,00), è un dialogo che fa emergere nel complesso il pensiero del grande filosofo della religione. È un ottimo viatico, come ricorda Piergiorgio Grassi nella introduzione che qui anticipiamo, per addentrarsi nella visione di Mancini, a trent’anni dalla sua scomparsa.
È un gesto coraggioso e utile quello di Leo Lestingi che ripubblica una sua lunga intervista a Italo Mancini, uscita alla fine del 1983, ma con un titolo diverso, più preciso nell’indicare i temi di cui si tratta. A trent’anni dalla morte, il filosofo urbinate è più che mai oggetto di attenzione: saggi, articoli e monografie si sono moltiplicate. Segno di un’attenzione, sempre rinnovata, nei confronti di un filosofo della religione e del diritto che ha segnato con la sua presenza la seconda metà del Novecento e che ha cercato di pensare il proprio tempo anticipando spesso sviluppi che oggi sono all’ordine del giorno.
Chi volesse conoscere che cosa ha veramente pensato Mancini sino agli inizi degli anni Ottanta del secolo breve, troverà in questo lungo colloquio il filo rosso che lo guida nel ripercorrere un lungo itinerario di pensiero: dagli iniziali studi sull’ontologia e la metafisica sulle orme e le sollecitazioni di Gustavo Bontadini, all’approdo ad una filosofia della religione intesa come ermeneutica della rivelazione, all’incontro con le teologie evangeliche di Barth, Bultmann, Bonhoeffer, alla delineazione di un cristianesimo aperto e in relazione diretta con le culture, sino al confronto serrato con Marx e il marxismo nelle sue diverse “ortodossie”, la cui prospettiva è definita come religione in eredità, riprendendo un sintagma caro a Jürgen Moltmann. Non manca, proprio all’inizio dell’intervista, una presentazione dei “mondi vitali” in cui si è realizzata la formazione di Mancini, con particolare enfasi sul paese natale, Schieti di Urbino, un paese di minatori e di “casanti” (lavoratori a giornata), «contesto e orizzonte in cui trovano significato e approfondimento le indagini anche le più astratte» del suo futuro filosofare. Così come non mancano cenni rapidi e precisi all’esperienza milanese, in particolare all’Università Cattolica, in qualità di studente prima e di giovane docente poi.
Sono gli anni, quelli di questo dialogo-intervista, in cui Mancini va elaborando una lettura non riduttiva del cristianesimo e che chiamerà radicale, quale emerge dalla Lettera a Diogneto, perché paradossale e diverso dal comune modo di pensare. Come ha scritto lo stesso Mancini: si tratta di «quel cristianesimo che il testamento di Francesco d’Assisi chiamava vivere secondo la forma Evangelii e che aveva un criterio molto sensibile di individuazione: sentire dolce da amaro che era lo stare con i lebbrosi. Quel cristianesimo che Pascal chiamava agonico («Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo»), che non escludeva l’impegno nel mondo, anzi esigeva (esige) una prassi di liberazione storica attraverso convergenze etiche, in vista della riconciliazione». Quell’essere-per-gli-altri come caratteristica di chi si pone alla sequela del Cristo nel mondo, illustrato da Dietrich Bonhoeffer nelle sue Lettere dal carcere; una svolta nel modo di elaborare e di attuare il discorso teologico. Per dirla ancora con Mancini nell’intervista a Lestingi: «Insomma o il Vangelo è con tutta la sua incarnazione o non è Vangelo: sarà altro anche importante, ma il Vangelo e il suo darsi primigenio nel nesso di fede e cultura e storia e mondo non può essere messo da parte».
Vorrei sottolineare l’importanza di questa intervista anche per ciò che riguarda un settore di studi manciniani di notevole rilievo, che gli dettero anche amarezze perché interpretati secondo logiche meramente politicistiche e che non stati ancora oggetto di particolare attenzione per quanto riguarda il loro effettivo apporto storiografico. Intendo riferirmi alla sua attenzione a Marx e al marxismo, negli anni in cui sembrava fosse ancora egemone. Dico sembrava, perché il declino fu rapido, almeno in Europa, sostituito da quello che Mancini avrebbe chiamato il pensiero negativo in un libro fortunato presso la critica e preso i lettori (cfr. Il pensiero negativo e la nuova destra, Mondadori, 1983). Ebbene Mancini ha richiamato nell’intervista i punti centrali del suo confronto con Marx e il marxismo, avendo scritto e letto tanto senza aver prodotto un testo di sintesi. Le pagine dell’intervista, a questo proposito, sono mosse dal «problema della continuità o di certe scissure, di certe deviazioni, lungo l’arco del suo sviluppo e il problema della sua posizione sostanziale nei confronti della religione». Mancini è ben consapevole che in diversi contesti il pensiero di Marx ha assunto connotazioni diverse e subìto autentici travisamenti, com’è accaduto nella versione leninista, che ha teorizzato una rivoluzione violenta imponendo il dominio sullo Stato, burocratizzandolo, e sulla società civile: una figura di irriducibile totalitarismo novecentesco. Il testo di Lenin, Stato e rivoluzione, rappresenta una discriminante ineludibile nella storia del marxismo e caratterizza nettamente quelle correnti che hanno portato a forme diverse, e pur sempre opprimenti, di dittature portatrici spesso di un duro ateismo di Stato.
Dimensione che non appartiene a Marx, il quale intendeva risolvere non religiosamente i problemi propri della religione («una soteriologia senza cristologia», nota Mancini), riconoscendo che la religione ha sì una sua verità, rivela infatti il malessere del mondo contro cui eleva la sua protesta, senza però sanarlo, cadendo anzi in una forma di ideologia come coscienza falsa e falsificante, opponendo al vecchio mondo solo alternative di coscienza e quindi forme di pensiero che non determinano la vita: al contrario è la vita (i meccanismi del sistema di mercato e le sue legittimazioni) che determina la coscienza. Si tratta di rimettere in piedi «l’uomo completo, libero da alienazioni, riconciliato con la natura, capace di esprimere tutta la socialità di cui è capace la sua essenza», emancipato dalla miseria reale che consiste nella sudditanza all’alienante logica del lavoro capitalistico ; lavoro capitalistico da sostituire con il comunismo dei mezzi di produzione, vale a dire restituendo il lavoro alla portata di tutti, impedendo l’accumulo della ricchezza da parte di pochi, causa principale della progressiva miseria della maggioranza. Marx considerava il proletariato vero mediatore di questo “arrovesciamento”. Con il superamento della miseria reale (e non con l’ateismo di Stato) la religione sarebbe progressivamente scomparsa. La soluzione marxiana del malessere non è quella cristiana, osserva Mancini; inoltre, rimanevano aperte questioni come la morte individuale e l’impotenza collettiva d’amore che reclamano una salvezza eteronoma, una forma di più completa riconciliazione attraverso la mediazione del Cristo. La religione dunque non muore. E, però, «tanto per i cristiani e tanto per il principio di Marx si tratta di liberare l’uomo da una caduta diversamente identificata», liberazione tramite forme di riconciliazione che si attuano, ripeto, in virtù di mediatori assolutamente diversi.
Di Piergiorgio Grassi – fonte: https://www.avvenire.it/