Il primo ministro belga convoca il nunzio apostolico e deplora le “intollerabili” parole del Papa su aborto e donne. L’università cattolica di Lovanio attacca il Pontefice. Le “bastonate” alla Chiesa tedesca che mirava all’autonomia. Dopo le aperture, vere o presunte, del Papa preso alla fine del mondo, Francesco s’è fatto prudente. Gli oppositori (coloro che fino a poco fa erano i suoi più entusiasti estimatori) lo bollano come “dogmatico”. Vedono la retromarcia innestata, non dandosene pace.
E’ cattolica?”, ha risposto il Papa al termine di uno degli appuntamenti del significativo viaggio in Lussemburgo e Belgio quando il vescovo ausiliare di Treviri, mons. Jörg Michael Peters, gli ha portato i saluti della Conferenza episcopale tedesca. Una battuta, certo, ma che in realtà dice molto di quel che in realtà Francesco pensa del bizzoso Cammino sinodale tedesco, il lungo percorso intrapreso in Germania da Chiesa e laicato attivo (che lì è potente e conta davvero) che nato per discutere misure contro la piaga degli abusi è finito – come prevedibile – a discutere di diaconato femminile, celibato sacerdotale e di rovesciamento delle gerarchie che da secoli caratterizzano la Chiesa cattolica. Il Pontefice aveva già da tempo dato il suo altolà, prima di persona con lettere e messaggi, quindi affidando alla curia romana il compito di sottolineare quel che si poteva e non si poteva fare. Infine, dicendo che di Chiesa protestante ce n’è una e non ne servono altre. Perfino un grande teologo riformista come Walter Kasper s’interrogava se davvero ci fosse qualcosa di cattolico in quel processo che si voleva sinodale. Di più: a giudizio di Kasper, quel che si faceva in Germania era “il tentativo di un colpo di stato”. Il capo dell’episcopato tedesco, intento a benedire nuovi organismi in cui il ruolo dei laici veniva assimilato a quello dei vescovi, masticava amaro e si diceva deluso. Ma come è possibile che il Papa della rivoluzione, colui che nel suo programma di governo, l’evangelii Gaudium del 2013, aveva messo nero su bianco che alle conferenze episcopali spettava anche potestà dottrinale, abbia poi tarpato le ali ai sogni che affollavano le rive dell’impetuoso Reno? Disorientando così tutti e costringendo a riporre nei cassetti i sogni di gloria e di nuovo corso nella millenaria storia della Chiesa.
Francesco è imprevedibile. Chiunque parli con lui, che sia più devoto a sant’agostino o alle istanze di Luca Casarini, dice che in realtà quel che pensi davvero l’augusto interlocutore non lo sa nessuno. Si esce dalle udienze sempre come sospesi… era d’accordo? Mi ha dato ragione per chiudere in fretta la questione? Mi detesta? Tornerò mai più qui? Non è una novità, è una storia che va avanti da più d’un decennio. E’, in fin dei conti, purissimo instrumentum regni: per scardinare la curia con i suoi “tappi” e buchi neri, quella curia che Jorge Mario Bergoglio ha sempre detestato tanto da non metterci quasi mai piede quand’era cardinale e arcivescovo dall’altra parte del mondo, non si può fare altrimenti. Bisogna giocare d’astuzia e se possibile anticipare le mosse dell’ospite. In Vaticano ci hanno messo molto a capirlo, dopotutto c’era chi ai vertici della vecchia guardia ratzingeriana in quel marzo del 2013 assicurava tra un caffè al bar e quattro passi in via della Conciliazione che l’inesperto Bergoglio sarebbe stato ammansito dai riti consuetudinari del Palazzo. E invece. Sinodi tesi, bastonate di qua e di là, documenti, viaggi in posti impensabili, nomine di rottura, interviste con frasi che sempre fornivano un titolo da scoop o quasi. Poi, lenta, lentissima, la retromarcia. Non drammatica e aulica come quella di Paolo VI, tra fumi satanici ed encicliche verso le quali interi episcopati scagliavano pietre. Fino allo strazio in morte dell’amico Aldo Moro – perché Signore non hai ascoltato la nostra preghiera? Da pochi giorni (si andrà avanti per tutto il mese) è iniziata la fase conclusiva del Sinodo sulla sinodalità, percorso durato anni e che ora trova il suo momento clou a Roma. Grandi aspettative da una parte e grandi timori dall’altra: cosa accadrà? Il cardinale poeta José Tolentino, in un’intervista estiva si diceva sicuro che dopo questa assemblea la Chiesa non sarà più la stessa e che pensarla ancora come una piramide – Papa in testa e tutti subordinati – non ha più molto senso. E’ l’epoca della collegialità che non è proprio sinodalità ma le si avvicina. Discorsi spesso astrusi per pochi eletti che hanno fatto fatica a entrare nelle menti e soprattutto nei cuori della base cattolica, del laicato che vive fra parrocchia e movimenti. In ogni caso, l’occasione pareva quella ghiotta per far entrare nelle stanze vaticane, con tutta la loro forza, i venti della primavera annunciata dodici anni fa dal cardinale Oscar Maradiaga, rendendo così davvero irreversibile la riforma pensata da Bergoglio e teorizzata dai suoi collaboratori più vicini, sia quelli realmente tali sia quelli autoproclamatisi tali.
Ma nel frattempo qualcosa ha irrigidito Francesco, che ha visto usare il “suo” Sinodo come grimaldello per andare ben oltre i piani previsti o quantomeno tratteggiati. I tedeschi pronti a calare con le loro tesi su Roma, per fare dell’assise il luogo di un mini Vaticano III che archiviasse il Vaticano II e seguendo le folate dello Spirito del tempo adeguasse la Chiesa alle istanze del mondo: i preti single non vanno più bene, le suore che pregano e basta neanche: facciano altro, le diaconesse come elemento di novità sull’altare. E ovviamente le benedizioni per le coppie omosessuali, con tanto (ci sono le prove fotografiche, è sufficiente una rapida ricerca sul web) di bandiere rainbow sulle mense eucaristiche o sul camicione di sacerdoti convinti che la salvezza della Chiesa passi inevitabilmente dall’adeguamento allo Zeitgeist. Dal Belgio, cuore pulsante della secolarizzazione orgogliosa che ha reso la fede un suppellettile sociologico e un mero elemento culturale, il Papa ha chiarito che “il processo sinodale dev’essere un ritorno al Vangelo; non deve avere tra le priorità qualche riforma ‘alla moda’”. Alert indirizzato a quanti si sarebbero da lì a poco ritrovati in Vaticano per discutere e riprendere il filo interrotto lo scorso autunno. Per evitare sorprese ha anche sottratto alla discussione plenaria le questioni più delicate, quelle che da anni lacerano il Corpo della Chiesa e che anche dodici mesi fa, in una sessione a ogni modo soft e con pochi colpi d’ala delle varie fazioni, avevano contrapposto vescovi e laici, chi da una parte e chi dall’altra. Certo, ora si dice che anche di quei temi si discuterà, che il lavoro delle dieci commissioni create ad hoc si mescolerà al dibattito in corso e che ciascuno dei padri e delle madri potrà far pervenire ai gruppi appositi segnalazioni, proposte, idee.
E poi c’è stato il dramma di Fiducia supplicans, la Dichiarazione del dicastero per la Dottrina della fede che autorizzava la benedizione delle coppie “irregolari”, che ha avuto conseguenze catastrofiche e impensabili fino a poco prima che il documento fosse firmato dalla penna del fedele cardinale prefetto Fernández. Interi episcopati che disconoscevano pubblicamente la Dichiarazione, cardinali (mons. Fridolin Ambongo, arcivescovo di Kinshasa) che si presentavano con i bagagli a Santa Marta con il proposito di non muoversi da lì finché non si fosse posto rimedio. Perfino cardinali creati da Francesco e considerati da sempre a lui vicini, come l’uruguagio Sturla, sui social prendevano le distanze da quanto reso noto dal Sant’uffizio. Che, pochi giorni dopo, era costretto a pubblicare una seconda nota, “correttiva” e assai buffa, quella delle benedizioni a tempo, massimo “in dieci o quindici secondi”. Non proprio una gran figura, che seguiva peraltro le risultanze del Sinodo autunnale assai lontane dalle aperture preventivate alla vigilia: il documento conclusivo della sessione intermedia, infatti, era compromissorio. Tanti capitoli che aperti erano prima e aperti sono rimasti anche dopo le riflessioni e le discussioni dei padri riuniti in Vaticano. Tra rassicurazioni di approfondimenti e di studi futuri. Appariva chiaro come fosse impossibile mettere d’accordo, su una linea profondamente riformatrice, Chiese che sui temi più controversi la pensano ciascuna in modo diverso, se non opposto. Si prenda il riconoscimento dei diritti delle persone lgbtq+, ad esempio: come portare i vescovi europei a firmare lo stesso documento di quelli dell’africa subsahariana? Le priorità sono diverse, così come la particolarità d’ogni singolo tessuto sociale e culturale. Dopotutto, è stato proprio Francesco a introdurre l’immagine del poliedro, con le sue facce tutte diverse rispetto all’uniformità noiosa e pericolosa della sfera che tende a rendere ogni cosa uguale all’altra.
Ma è anche il “fenomeno Francesco” a non brillare più come un tempo. Per anni i media d’ogni parte del globo se lo contendevano, le sue frasi a effetto diventavano slogan al pari dell’ “I have a dream” kennedyano. Il Martin Luther King cattolico, il profeta del sud del mondo, il novello san Francesco. Ma dopo il “Chi sono io per giudicare un gay?” sono arrivate le battute sulla “troppa frociaggine”, non proprio allineate con il bon ton da salotto che aveva eletto Bergoglio a leader spirituale del progressismo naïf e un po’ da Ztl, di quello cioè del non credoma-lui-mi-piace. L’università di Lovanio gli ha dato del “conservatore” – e non certo s’intendeva un complimento –, il principale quotidiano belga, Le Soir, ha pubblicato un editoriale dai toni che definire duri è usare un eufemismo: “Bisogna farla finita con l’ambiguità che consiste nel ricevere, con lo status di capo di Stato, un capo della Chiesa dogmatico, improvvisamente predicatore, che sfida le leggi del paese che lo ha invitato”. Undici anni dopo l’apparizione alla Loggia delle Benedizioni, i primi e più entusiasti delle aperture del nuovo Papa sono quelli che oggi vorrebbero ridimensionarne l’impatto o, in casi estremi, si augurano un rapido cambio alla guida della Chiesa. Quel mondo che aveva abbracciato in modo appassionato Francesco, sovente fraintendendone i messaggi o cestinando rapidamente le parole meno inclini al pol. corr. (il gender come “sbaglio della mente umana”, tanto per fare un esempio), oggi non sa più che farsene di un Papa che fa battute sui “froci”, che non sa dire chi preferisca tra l’improponibile Trump e la straordinaria Kamala, che bolla i medici che praticano l’aborto come “sicari” e chi è favorevole all’aborto come “quelli che uccidono i bambini”.
Il navigare al largo del Papa preso quasi alla fine del mondo, senza una meta prefissata, ha trovato al declinare del pontificato, sulla propria rotta, ostacoli che non si credevano più attuali. I segnali, però, c’erano stati, anche quando la luna di miele tra masse, media e Santa Marta era al suo apice e si riteneva incrollabile: Francesco chiedeva scusa per gli abusi, cospargendo di cenere il capo della Chiesa riunita in San Pietro, e fuori s’agitavano cappi e manette. Le conferenze episcopali facevano corali mea culpa in sessioni assembleari e qualche volta pure in diretta televisiva, annunciando risarcimenti e indagini approfondite, e le associazioni pretendevano di più, sempre di più. Finendo per far perdere la pazienza perfino a un uomo mite come il cardinale Zuppi, che presentandosi come capo della Cei spiegava che le cose vanno fatte per bene e che la verità non si ristabilisce certo andando a scoperchiare tombe (come fatto in Belgio, il solito Belgio) o processando morti da gran tempo. Non saranno le decine di libri pubblicati ogni anno sui pensieri del Papa per fidanzati, bambini, nonne e zie a far tornare il sereno, in ogni caso. Né la miriade di interviste o comparsate televisive dove si spazia dalla guerra al celibato sacerdotale, dalla Cina al dialogo interreligioso. Certo, è sempre possibile una strambata che annulli quella appena fatta nelle acque impetuose del tempo che scorre ineluttabile.
Il mondo, però, soprattutto quello miscredente che aveva trovato in Papa Francesco un modello da affiancare al Dalai Lama, non vedendo grosse differenze tra il vescovo di Roma, Greta Thunberg e Al Gore, molto semplicemente non può accettare che il Papa faccia il Papa. Sono sempre quelli che, dopotutto, il rosario se lo mettono al collo come fosse una collana da spiaggia.
Fonte: Il Riformista