Katharine Graham


 

la donna dei Pentagon Papers

fonte @ rebelstudio.it

Sul New York Time furono pubblicati i Pentagon Papers, documenti segreti che riguardavano il coinvolgimento degli Stati Uniti nella Guerra del Vietnam, ma dopo i primi due giorni, la pubblicazione fu interrotta sotto le pressioni dell’amministrazione Nixon. Il Washington Post decise di proseguire al posto del Times.

Dietro quella decisione ci fu il coraggio Katharine Graham, editore del Post e “donna più potente d’America”, come spesso veniva definita e come lei odiava essere considerata.

«Mi fa sembrare una sollevatrice di pesi. Ciò che si intende veramente con questo è che “sei una donna che guida un’azienda” e che le persone lo trovano incredibile. È un po’ sessista.»

 

Le due vite di Katharine Meyer Graham

Katharine Meyer Graham, “Kay”, può essere definita “la donna che visse due volte”. La prima iniziata con la sua nascita e finita a 46 anni, con la morte scioccante di suo marito. La seconda caratterizzata dalla sua presidenza al The Washington Post Company che, di fatto, la trasformò nella donna più influente degli Stati Uniti. Una vita di luci e ombre, spesso non facile da descrivere e quasi sempre insondabile, malgrado l’aura dorata di una perfetta nonché luminosa esistenza.

Classe 1917, newyorkese di discendenza ebraica, era figlia di Eugene Meyer, plurimilionario imprenditore e governatore dello Stock Exchange e capo della World Bank. Tra il 1933 e il 34, i Meyer comprarono il Washington Post a un’asta, a seguito della bancarotta causata dalla cattiva gestione e soprattutto dalla Depressione del 1929. Per Eugene Meyer quella che si prospettava davanti era l’occasione perfetta per dare vita a un grande quotidiano che potesse rappresentare la voce della capitale americana.

E fu così che Katharine Graham entrò per la prima volta a contatto con il mondo dell’editoria. Un mondo che formalmente non le apparteneva e che al massimo poteva rappresentare un hobby di alto lignaggio.

Era la quarta di cinque figli ed era naturale che la gestione del giornale passasse all’unico figlio o al marito di una delle sorelle o addirittura al suo, come infatti si verificò. Ma non di certo a lei.

«The more subtle inheritance of my strange childhood was the feeling, which we all shared to some extent, of believing we were never quite going about things correctly. Had I said the right thing? Had I worn the right clothes? Was I attractive? These questions were unsettling and self-absorbing, even overwhelming at times, and remained so throughout much of my adult life, until, at last, I grew impatient with dwelling on the past.»

Così per molto tempo, il Post fu per Katharine Graham una passione da consumare durante gli anni universitari a Chicago e un modo per mettere alla prova le sue doti da scrittrice, prima di intraprendere il più dei convenzionali ruoli della vita: quella di moglie e di madre. Eppure, stranamente, il Post rappresentò per lei qualcosa di molto più significativo: un ricorrente appuntamento col destino. E il primo fu a settembre, nel 1939, mentre si trovava alla Casa Bianca, come giornalista non accreditata, per sentire la conferenza stampa di Franklin Delano Roosevelt sullo scoppio della guerra in Europa. Qui incontrò Philip Graham, “uomo brillante, carismatico, affascinante”, l’uomo che riuscì a incidere la vita di Katharine come legno d’acero.

Il 5 giugno 1940, dopo pochissimi mesi di conoscenza, a Mount Kisco, Katharine divenne la signora Graham. La felice signora Graham. E tutto quello che era previsto per lei dalle aspettative sociali diventò realtà. La sua vita, quella ormai di donna adulta, era emblema dell’agiatezza, dell’eleganza, del benessere e le collaborazioni come editorialista al giornale del padre erano ormai un passatempo prezioso da alimentare con cura, senza attirare troppe attenzioni.

«I resigned myself quite contently to the life of a vegetable. I went to cooking school in the morning, had lunch with friends, sat in the sun with other pregnant ladies, talked, gossiped, did everything in short that’s in the books including laying out my husband’s slippers and smoking jacket. (I’m serious I assure you.) And the funniest part of all is that I liked it.»

Dopo sei anni di matrimonio e 10 anni dedicati al giornale, nel 1946, il Post venne affidato a suo marito, Philip: avvocato di successo che aveva trascorso sei mesi come editore associato. Solo sei mesi, rispetto alla sua lunga gavetta. Era ironico, anzi non lo era affatto per quei tempi. Questo però non rappresentò mai un problema per Kay, né a livello personale né all’interno della famiglia: aveva una grandissima stima di suo marito, ma soprattutto lo reputava la persona giusta per realizzare il sogno di suo padre.

Il Washington Post, dopo due anni di gestione Graham, iniziò infatti la sua ascesa, grazie anche ai nuovi assunti all’interno della redazione, tra cui Ben Bradlee. Non era più il piccolo giornale di un tempo ma si proiettava ormai su scala nazionale e nel 1948 riuscì a vendere circa 180mila copie.

Un vero successo per la voce “indipendente” di Washington, che indipendente dimostrò effettivamente di esserlo, malgrado la saggezza convenzionale ritenesse che i media mainstream statunitensi dovessero essere esclusivamente dalla parte dei repubblicani. Negli anni del cosiddetto maccartismo, infatti, si oppose alle sparate anticomuniste del politico e nei primi anni 70 assunse una posizione critica nei confronti di Richard Nixon. Un dato non da poco alla luce dei Pentagon Papers e successivamente del Watergate.

Ma ancora prima dell’inchiesta, dello scandalo, della popolarità del Post, qualcosa attraversò la vita di Kay, cambiando completamente quel futuro che si sarebbe aspettata di vivere per il resto dei suoi anni.

«Bromidic though it may sound, some questions don’t have answers, which is a terribly difficult lesson to learn.»

Indiscrezioni e pettegolezzi avevano portato sulla bocca di tutti i problemi di depressione maniacale di cui soffriva da tempo suo marito. E nel 1963 – in una sorta di sovrapposizione onirica tra tragedia personale e tragedia storica collettiva – Phil Graham si suicidò a 48 anni.

«I had very little idea of what I was supposed to be doing, so I set out to learn. What I essentially did was to put one foot in front of the other, shut my eyes, and step off the edge.»

A due mesi dalla morte del marito, Katharine Graham era a capo ufficialmente della società, assumendo i ruoli di editore, presidente e amministratore delegato, con la promessa che avrebbe continuato l’eredità di Phil. Negli anni 60, essere l’unica donna in un ambiente a maggioranza maschile non era facile. Il che richiese una certa abilità per farsi strada nel mondo del management giornalistico, tra CdA e finanza, tra politica e affari.

«The nicest thing you did was to take me seriously when a lot of people wouldn’t have, but not too seriously, which was just right.»

Tuttavia l’impegno al giornale le diede l’opportunità di “dare vita” a una nuova Kay, più forte, sicura e determinata a non restare nell’ombra – come dimostrano le foto al Plaza Hotel, in cui Truman Capote l’accompagna a uno spettacolare ballo in maschera.

E così, un passo dopo l’altro, costruì un sistema costellato di relazioni politiche, che le permisero non solo di creare una propria comfort zone tra i potenti dell’epoca ma, soprattutto, di interagire con la Storia e di comprendere i retroscena di un’America dilaniata tra conseguenze del Maccartismo, della Guerra Fredda, le tensioni razziali, il Vietnam e le crisi petrolifere.

Grazie alla sua personalità, riuscì a instillare un grande senso critico e di libertà di stampa al giornale. E forse, a distanza di anni, questo rimane il suo lascito più importante.

1971 – Lo scandalo dei Pentagon Papers

«What the president never accepted, or even clearly understood – as most people don’t understand – is the autonomy editors have, and must have, to produce a good newspaper. I used to describe it as liberty, not license.»

Nel 1967, a un gruppo di analisti (tra cui Daniel Ellsberg) fu commissionato dal Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert S. McNamara, uno studio approfondito sui rapporti del Governo Federale con il Vietnam, nel periodo dal 1945 al 1967, per ricostruire la storia del conflitto e capire cosa fosse andato storto nella strategia militare e nel processo decisionale.

Il risultato, però, andava ben oltre quello che tutti si aspettavano. Era la crepa nel sogno americano.

Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson e non ultimo anche Nixon – che cercava di mettere tutto a tacere – non solo avevano ingannato l’opinione pubblica sull’andamento delle operazioni in Vietnam, ma avevano sostenuto pubblicamente di cercare un accordo di pace mentre, dietro le quinte, militari e CIA avevano incrementato l’impegno nel conflitto.

Alla fine del ՛75, la guerra in Vietnam costò la vita a 58.220 soldati americani e causò la morte di oltre un milione di persone. Una verità questa che doveva essere tenuta nascosta, se non fosse che Daniel Ellsberg cominciò a fotocopiare le 7000 pagine del dossier – coperto dal segreto di Stato – per lasciarle sulle scrivanie del New York Times.

Era il 13 giugno del 1971 quando, dopo il terzo articolo, l’amministrazione Nixon scese in campo per bloccare la stampa: “per la prima volta nella storia americana, il governo ha chiesto, e vinto, un’ordinanza del tribunale temporanea che vietava a un giornale di pubblicare un articolo.”

Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ottenne così dal tribunale distrettuale un’ordinanza restrittiva temporanea contro un’ulteriore pubblicazione del materiale, sostenendo che tale diffusione pubblica avrebbe causato “un danno immediato e irreparabile” agli Stati Uniti. Il Times era stato fermato.

Ricevuti gli stessi documenti, Katharine Graham aveva davanti a sé la scelta della vita, di tante vite moltiplicate per le vittime e i sopravvissuti di quella Guerra: proseguire la pubblicazione dello studio sul Post o lasciar perdere. E la posta in gioco non era solo una questione etica o morale, ma una costosa battaglia legale con l’eventuale perdita, nel caso fosse stata condannata per spionaggio, delle lucrose licenze televisive che l’azienda possedeva.

Katharine Graham decise di proseguire e con un tenue ma deciso “sì” andarono in stampa i nuovi articoli dei Pentagon Paper sulle pagine del Post, consapevoli che sarebbero stati fermati anche loro in poche ore.

«At the Post, we received a lot of unpleasant phone calls, many readers expressing the sentiment that they imagined we were all popping champagne corks to celebrate the result we had wanted from the beginning—in short, the “I-hope-you’re-satisfied” school of thought.»

 

Il 30 giugno 1971, la Corte Suprema degli Stati Uniti, con una decisione 6–3, fece riprendere la stampa indicando che il Governo non era riuscito a giustificare efficacemente la limitazione alla pubblicazione.

Come scriverà negli anni successivi Ben Bradlee, editore esecutivo: “uno dei nostri obiettivi inespressi era quello di indurre il mondo a ritenere Il Post allo stesso livello del Times. Grazie a quei documenti e alla loro pubblicazione,  ci siamo riusciti.”

Tre anni più tardi, Katharine Graham guidò il suo giornale verso un’altra importantissima inchiesta – il terzo treno della sua vita – ritenuta una delle migliori di tutti i tempi: il Watergate, che costrinse Nixon alle dimissioni.

«Credo che la democrazia prosperi quando il governo può compiere legittimi passi per mantenere i suoi segreti, e quando la stampa può decidere se pubblicare quanto sa.»

Fu senza dubbio un personaggio fuori dall’ordinario, granitico e allo stesso tempo estremamente vulnerabile, con quella sensazione di essere sempre fuori posto. Una donna diventata metafora della potenza di una stampa libera. Una ribelle capace di creare un vero e proprio colosso mediatico.