Joan Ruth Bader Ginsburg


 

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Bader Ginsburg, Joan Ruth. – Giurista e magistrato statunitense (New York 1933 – Washington 2020). Conseguita nel 1954 la laurea in Diritto presso la Cornell University, ha svolto attività di docenza presso la Rutgers University (1963-72) e la Columbia University (1972-80). Attivista per i diritti civili, le libertà individuali e la parità di genere, fondatrice nel 1972 dell’associazione per la difesa dei diritti delle donne Women’s rights project, nel 1980 è stata nominata giudice della Corte d’appello degli Stati Uniti da J. Carter, lasciando la carica nel 1993 per assumere su nomina di B. Clinton quella di giudice della Corte Suprema, seconda donna dopo S. Day O’Connor a esservi ammessa e, con E. Kagan e S. Sotomayor, quarta a farne parte nella storia degli Stati Uniti. La sua biografia politica coincide con le più significative battaglie sociali della storia statunitense degli ultimi decenni, dal diritto all’aborto all’assistenza sanitaria gratuita, fino alle unioni omosessuali e alle questione immigratoria. Al denso percorso umano e professionale della giurista sono stati dedicati il docufilm RBG (Alla corte di Ruth. RGB, 2018) di B. West e J. Cohen e On the basis of sex (Una giusta causa, 2018) di M. Leder.

Dopo Ginsburg. La Corte suprema, tra riforma e conflitto politico

Se, i sostituzione di Ruth Bader Ginsburg (RBG), i repubblicani e Donald Trump riuscissero a nominare un nuovo giudice entro la fine della legislatura – una ipotesi realistica, sia pure in piena stagione elettorale (molti americani già votano) e in un clima ancor più (se possibile) avvelenato –, e se dalle urne del prossimo novembre uscissero un presidente Joe Biden e un Senato a maggioranza democratica – una ipotesi possibile ma niente affatto scontata, anzi, una bella scommessa –, allora, hanno detto parecchi leader democratici, per l’anno prossimo “tutte le opzioni sono sul tavolo”, il gioco si farà davvero duro. Alcuni di loro, in consonanza con spinte che tradizionalmente vengono dall’ala più liberal del partito, minacciano di proporre una qualche riforma della Corte suprema. Vuote minacce? Minacce politicamente deboli, soprattutto se presentate e percepite dal pubblico come una vendetta di fazione (a suo tempo ne avevano preso le distanze sia Biden che la stessa Ginsburg). Ma nondimeno minacce con buone ragioni teoriche e radici storiche.

La Corte suprema è per definizione, per sua gloria e maledizione, l’organo più elitario, più lontano dal controllo di “we the people”, fra quelli previsti dalla Costituzione federale. Fin dall’inizio della sua esistenza ha suscitato lo sdegno dei democratici più radicali, e l’istinto di manipolazione di ogni politico che si rispetti. Un padre fondatore (ma non costituente) come Thomas Jefferson ne aveva una pessima opinione. È un organo oligarchico e irresponsabile, diceva, la sua indipendenza è un errore, la nomina a vita dei suoi membri è una aberrazione, la sua pretesa di interpretare la legge è un pericolo, una forma subdola e dispotica di policymaking; nelle sue mani la Costituzione diventa una “cosa di cera” modellabile a piacimento. Un simile atteggiamento critico è rimasto vivo nella cultura politica del Paese, anche quando nel corso dell’Ottocento la Corte ha acquisito un ruolo oracolare tanto da essere paragonata, con un linguaggio che oggi sarebbe imbarazzante, a una “sorta di Mecca” verso cui guardano i fedeli della sacra scienza, il diritto. È sempre stata anche un organo politico, nei fatti e certo agli occhi degli osservatori più cinici: perché, come usava dire un cinico scrittore satirico, è noto che la Corte segue la Costituzione ma anche i risultati elettorali.

In effetti, dal 1800 in poi ci sono stati centinaia di tentativi politici di toccarne il ruolo o l’organizzazione. Quelli più pensosi e pensati sono anche i più difficili perché affrontano il nodo protetto in Costituzione della nomina a vita degli augusti giudici, e propongono dei term limits: che ciascuno abbia un unico lungo mandato, tipo 18 anni, e poi a casa, senza aspettare che morte lo separi. Alla fine del Settecento la vita delle persone (persino dei magistrati) era più breve; oggi, si dice, il ricambio per cause naturali è più lento, la Corte rischia di diventare un organo ossificato, i cui membri vivono per decenni una vita separata. Fissare dei term limits aumenterebbe il ricambio, e depotenzierebbe il significato politico di ogni singola nomina, che non sarebbe come oggi per la semieternità. Se poi i mandati fossero scaglionati nel tempo, come quelli dei senatori, potrebbe liberarsi un seggio ogni due anni, e tutti i presidenti avrebbero la chance di riempirne due. Fra l’altro, come ha commentato il giudice Stephen Breyer, «ciò semplificherebbe un sacco la vita» sua e dei colleghi, sollevandoli da valutazioni e scelte esistenziali assai delicate sul momento in cui ritirarsi (come ben sapeva RBG). Fra gli esperti questa riforma sembra godere di consensi bipartisan; secondo alcuni, con qualche trucco (se per esempio gli ex giudici supremi restassero nei ruoli dei tribunali federali subapicali, anch’essi a vita), potrebbe persino evitare le strettoie delle procedure di revisione costituzionale.

Ma le proposte di cui si parla in questi giorni sono altre, più avventurose e partisan, in teoria più facili e veloci perché non toccano neanche da lontano la Costituzione. Oggi come oggi sono frutto di reazioni di sinistra alla svolta a destra impressa alla Corte dalle nomine di Trump, di cui quella del successore di Ginsburg sarebbe la terza – una svolta destinata a durare ben oltre Trump. Ma hanno una storia più lunga, e infatti la parola chiave è court packing, che riecheggia una simile manovra tentata da Franklin D. Roosevelt (FDR) negli anni Trenta del secolo scorso: prepararsi ad aumentare il numero dei giudici dai 9 attuali fino a 11 (FDR ne voleva fino a 15), così da dare a un futuro presidente progressista l’opportunità di fare nuove nomine tutte sue e diluire la presenza conservatrice. Qualcuno si spinge oltre: perché non arrivare a 27 membri? Ma qui il respiro si allarga a una vera riforma strutturale, sul modello delle corti d’appello federali: tanti giudici che lavorino non tutti insieme, ma per panels o sezioni più ristrette, trovandosi in seduta plenaria solo nei casi più rilevanti o controversi. Così la Corte potrebbe occuparsi di più casi, avere maggioranze meno rigide e precostituite, e la rilevanza politica del singolo giudice, della singola nomina, sarebbe meno accesa.

In questi casi non c’è un problema costituzionale perché il numero dei membri della Corte non è stabilito nel sacro testo bensì in una legge ordinaria. Erano 6 nella legge istitutiva delle origini, nel secolo successivo sono diventati 5 e poi di nuovo 6 e 7 e 9 fino a 10 nel 1863, per essere di nuovo ridotti e infine congelati agli attuali 9 nel 1869. Anche la legge del 1869, fra l’altro, era la conclusione di un processo di court packing con cui i nordisti repubblicani avevano riorganizzato una Corte avversa che aveva validato la schiavitù proprio alla vigilia della guerra civile. Non c’è un problema costituzionale ma c’è un problema politico, come già c’era stato negli anni Trenta rooseveltiani. L’onorabilità della Corte, la sua integrità e indipendenza di fronte al pubblico ne verrebbero compromesse? Ulteriormente compromesse, dopo tre nomine molto partisan? L’operazione è discussa dagli stessi proponenti come un modo di giocare sporco, giustificato dal giocare sporco dei repubblicani (la nomina del giudice Merrick Garland da loro negata a Barack Obama nel 2016, la loro corsa contro il tempo in questo scorcio di 2020). E naturalmente richiede, come si diceva all’inizio, che la Casa Bianca e il Senato tornino in mani democratiche.

 

di Arnaldo Testi