Israele, una democrazia divisa


di Rony Hamaui

Israele è un piccolo stato, ma è caratterizzato da una enorme e crescente frammentazione culturale, religiosa, economica e politica. Senza una ricomposizione delle differenze, il paese rischia non solo di andare verso l’autoritarismo, ma anche di dividersi.

La frammentazione religiosa

“Gli antisemiti sono persone che odiano un po’ troppo gli ebrei”, dice una vecchia battuta ebraica. Oggi forse potremmo parafrasarla dicendo che “gli antisemiti odiano un po’ troppo Israele”. Certo, il numero di civili morti e le condizioni disumane in cui vivono da mesi i gazawi spiegano l’isolamento senza precedenti dello stato ebraico. Tuttavia, prima di condannare senza mezzi termini, non il governo israeliano, ma lo stato d’Israele, vale la pena analizzare alcuni aspetti della società, delle istituzioni e dell’economia israeliana. Questo anche per valutare le possibili evoluzioni della guerra attuale, la più lunga e sanguinosa combattuta dallo stato ebraico, dopo quella d’indipendenza (1948-1949).

Uno degli aspetti più caratteristici del piccolo stato israeliano, che conta meno di 9,5 milioni di abitanti (meno della Lombardia), è la sua enorme e crescente frammentazione culturale, religiosa, economica e politica.

Se i tre quarti della sua popolazione sono di religione ebraica, il rimanente quarto è per la maggior parte musulmano. In particolare, la percentuale di arabi israeliani è cresciuta dall’11 al 21 per cento dall’indipendenza a oggi. Anche la popolazione palestinese nei territori occupati e a Gaza è aumentata di nove volte nello stesso periodo.

Gli ebrei israeliani sono poi una realtà tutt’altro che omogenea. Innanzitutto, va ricordata la storica divisione tra ebrei mizrahì, scacciati dai paesi del Medio Oriente e del Maghreb dopo la nascita dello stato ebraico, ed ebrei askenaziti, provenienti dall’Europa centrale e orientale, tipicamente più laici e istruiti, che nei primi decenni hanno dominato la vita politica e culturale del paese.

Né possiamo dimenticare che, per una maggioranza laica, esiste una importante minoranza religiosa che si distingue fra ebrei ortodossi e ultraortodossi o meglio haredìm cioè “timorati di Dio”. Questi ultimi – divisi in varie sette – vivono in modo segregato studiando la Torà: non lavorano, non svolgono il servizio militare e vivono di sussidi. Hanno un’altissima natalità che fa sì che il loro peso continui a crescere rapidamente: oggi rappresentano circa il 13 per cento della popolazione israeliana (1,2 milioni).

Perché i coloni sono un problema

Un’ulteriore spaccatura del paese è rappresentata dai coloni, che hanno superato la ragguardevole cifra di 800 mila, vivono nei territori occupati della Cisgiordania, hanno per lo più una visione messianica e si collocano all’estrema destra del panorama politico.

I coloni sono il prodotto del trauma della guerra del Kippur (1973) e del progressivo indebolimento del partito laburista, che aveva governato il paese dalla sua fondazione e non ha saputo contrastare con determinazione la palese illegalità dei loro insediamenti. I coloni hanno goduto di una continua crescita e legittimazione da parte dei partiti di destra, fino a diventare l’ago della bilancia del parlamento israeliano. Spesso hanno adottato comportamenti violenti – nei confronti della popolazione araba – che il più delle volte sono rimasti impuniti. E mentre le violenze dei coloni vengono giudicate da tribunali civili, quelle perpetrate dei palestinesi sono giudicate da tribunali militari.

La frammentazione economica

Alla frammentazione religiosa, etnica, politica e territoriale si è aggiunta una forte frammentazione economica. Con lo sviluppo dell’industria high-tech le disuguaglianze sono infatti aumentate enormemente. Il notevole incremento di valore degli immobili nelle zone più pregiate del paese ha poi emarginato anche fisicamente gli strati più deboli della popolazione.

Come mostrato in un articolo di qualche anno fa da Alberto Alesina e altri, la frammentazione influenza la stabilità politica, la qualità delle istituzioni e dei servizi pubblici, la fiducia reciproca e in ultima analisi la crescita economica. In effetti, il sistema politico israeliano è risultato sempre più instabile: ci sono volute cinque tornate elettorali consecutive per formare l’ultimo governo Netanyahu nel 2022. Questo, poi, una volta in carica, ha tentato ripetutamente di limitare l’indipendenza della Corte Suprema e il suo potere di veto sulle leggi approvate dal parlamento in caso di “irragionevolezza” o “incoerenza” con le “leggi fondamentali”, che fanno le veci di un unico testo costituzionale. In difesa della indipendenza della Corte Suprema, nel corso del 2023, si sono succedute enormi manifestazioni pubbliche.

Anche il sistema scolastico israeliano ha conosciuto un progressivo peggioramento, nonostante l’abbondanza di risorse pubbliche dedicate, l’eccezionale percentuale di laureati e la presenza di istituzioni di eccellenza. I test Pisa mostrano come Israele si collochi sotto la media dei paesi avanzati, sia nelle materie scientifiche che classiche. Particolarmente scadenti sono i risultati delle scuole ultraortodosse e arabe, che godono di una ampia autonomia. Così la scuola, invece di fare da collante delle generazioni future, tende a riprodurre, se non ad aumentare, divisioni e disuguaglianze.

Finora, Israele, nonostante la sua forte frammentazione, ha mostrato uno straordinario sviluppo economico. Il suo Pil pro-capite, ad esempio, è passato da quasi zero a oltre 55 mila dollari (quello italiano è di 35 mila dollari). L’incredibile dinamismo della sua industria hi-tech è riuscito a più che compensare la bassa produttività del resto dell’economia.

La guerra ha tuttavia cambiato lo scenario. L’impegno di molti giovani sul fronte, oltre a 300 mila riservisti, l’impossibilità di utilizzare la manodopera palestinese a basso costo e il fatto che oltre 100 mila persone che vivevano ai confini del Libano, Siria e Gaza, abbiano dovuto abbandonare case, lavoro e scuola sta rendendo sempre più teso il mercato del lavoro. Interi settori dell’economia come il turismo, la ristorazione e lo spettacolo lavorano a ritmi molto ridotti. L’unica compagnia a volare nell’aeroporto Ben Gurion è quella di bandiera (El Al), che tuttavia ha aumentato enormemente le sue tariffe, rendendo più complesse le catene di approvvigionamento. Gli investimenti dall’estero sono crollati, mentre la spesa pubblica, soprattutto per la difesa è esplosa. La Banca centrale d’Israele ha stimato che – fra il 2023 e il 2025, per effetto di costi diretti e indiretti – la guerra contro Hamas costerà 67 miliardi di dollari. Così il Pil è crollato del 4,7 per cento negli ultimi quattro trimestri, mentre l’inflazione mostra forti segni di tensione.

Quale futuro?

In questa situazione è ragionevole pensare che la guerra finisca relativamente in fretta (forse anche con una tregua) sia per i crescenti costi che impone allo stato ebraico, sia perché alla vigilia delle elezioni americane l’amministrazione Biden ha urgenza di trovare una soluzione al conflitto. In fondo, dalla guerra del Kippur (1973) in poi, tutte le guerre nella regione sono finite prima di quando volesse Israele a causa delle pressioni americane, efficaci per la dipendenza del paese dalle armi e dai trasferimenti di denaro statunitensi.

Tuttavia, se Israele vuole un futuro è necessario non solo trovare una soluzione politica che garantisca la sua sicurezza e la libertà del popolo palestinese. È anche e più che mai necessaria una soluzione che favorisca la riduzione della frammentazione dello stesso stato ebraico. Ciò richiede la realizzazione di un sistema educativo e di coscrizione, che diminuisca l’isolamento degli ultraortodossi e degli arabi israeliani; una politica molto ferma nei riguardi dei coloni e una riduzione delle disuguaglianze economiche. Altrimenti, non solo la democrazia israeliana rischia di scivolare verso l’autoritarismo, ma la stessa unità del paese potrebbe essere seriamente a rischio, replicando una situazione già nota. Nella storia di Israele non sarebbe la prima volta di una tragica spaccatura fra il Regno di Samaria del Nord, laico e progressista, e quello di Giuda del Sud, messianico e reazionario.

Fonte: Lavoce