INTRAMONTABILE BAGAGLINO


Da Berlinguer ad Andreotti alle mille interpretazioni di Mussolini, l’eterna ossessione del cinema per i sosia

Di Michele Masneri

Fabrizio Gifuni è ormai abbonato ad Aldo Moro, l’ha fatto in “Esterno notte” e prima in “Romanzo di una strage”, ma anche a teatro Toni Servillo è specializzato in centrodestra. Ha fatto Andreotti nel “Divo” ma anche Berlusconi in “Noi” (in cui interpreta pure Doris) “M” di Scurati dovrebbe chiamarsi “XL”. E’ l’harry Potter italiano, e Mussolini l’equivalente nostrano di “Star Wars”o Indiana Jones Aspettiamo ansiosi la serie su Mike Bongiorno su Rai 1, mentre è una sorpresa quella di Sky sugli 883. Lì appare anche Maria De Filippi
C’era
una volta il Bagaglino, lo show con i sosia dei politici nato nel 1965 per opera di Pier Francesco Pingitore e Mario Castellacci. Ma è negli anni Ottanta che il Bagaglino conosce la grande celebrità, grazie alle dirette su Rai e Fininvest. Tra le imitazioni più note il Giulio Andreotti di Oreste Lionello e le Raffaella Carrà e Maria De Filippi di Leo Gullotta, ma anche il Craxi di Pier Luigi Zerbinati. Le torte in faccia al Salone Margherita, declinate in programmi dai titoli come Biberon (1987-1990), Crème Caramel (1991-1992), Saluti e baci (1993) hanno accompagnato le nostre vite e le ère politiche. Poi, la decadenza, il lento declino e infine la chiusura, gli inutili e tristi appelli. L’ultima volta nel 2017 per una specie di reunion.
Ma il Bagaglino non è morto, anzi è vivo, vivissimo, e si può dire che sia percolato nel cinema e nella televisione italiani. Che ormai sono colonizzati dai sosia: e se ci sono i sosia bonari e un po’ raffazzonati di “Tale e quale show”, il bagaglinismo è diventato autoriale. Ecco dunque in questi giorni “Berlinguer. La grande ambizione”, film di Andrea Segre sul segretario del Partito comunista italiano che apre la Festa del cinema di Roma, interpretato da Elio Germano.
Il bagaglinismo in un paese senza show business è un po’ pericoloso perché ci si ritrova sempre ad avere le stesse facce. Intendiamoci, è lo stesso ovunque, e se nel nuovo film su Trump, “The Apprentice”, il suo diabolico consigliere e legale Roy Cohn è interpretato da Jeremy Strong, il figlio scemo di “Succession”, quello italiano è un caso peculiare data la ristrettezza del mercato e delle sue star. Ci sono attori ormai specializzati in parti politiche: per esempio il bravissimo Fabrizio Gifuni è ormai abbonato ad Aldo Moro, l’ha fatto in “Esterno notte” e prima in “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana, ma l’ha anche interpretato a teatro e ha scritto libri sul leader Dc (e forse non riesce più a uscire dalla parte, lo immaginiamo col cappotto in spiaggia anche d’estate come lo statista democristiano a Terracina nella foto che fa sempre sospirare tutti: “Ah, quelli sì che erano politici”). Però Gifuni ha fatto anche per la tv “De Gasperi – L’uomo della speranza”, regia di Liliana Cavani, e “Paolo VI – Il papa nella tempesta”, regia di Fabrizio Costa. Diciamo, quindi, specializzato in Democrazia cristiana.
Elio Germano invece finora non si era appropriato di un singolo politico prima del colpaccio con Berlinguer ma diciamo ha una syndication per il centrosinistra: quasi sempre si richiede infatti un’aderenza ideologica al personaggio. Se ha fatto Ligabue (il pittore), ha recitato nella Diaz del G8, ha fatto “Palazzina Laf”, vale comunque come punteggio; se non c’è identità anche solo di corrente tra interprete e interpretato, è utile emanare dichiarazioni di circostanza che sembrano moduli prestampati, tipo Nda o liberatorie (“da profondo antifascista quale sono è stata una delle cose più dolorose che io abbia mai fatto”, ha detto Luca Marinelli preparandosi a interpretare il Duce nella prossima serie Sky da “M” di Scurati. “M” by Scurati è l’harry Potter nostrano, e Mussolini per il cinema italiano è l’equivalente di Star Wars o Indiana Jones per Hollywood; tra prequel e sequel, vale più del tax credit, ma di questo diremo in seguito).
In sosia di centrodestra è specializzato il grande Toni Servillo che oltre ad Andreotti nel “Divo” ha fatto Berlusconi, nell’introvabile “Noi” sempre di Sorrentino. Ma nel film a un certo punto recita Ennio Doris e Berlusconi insieme. Se avesse una puntina di seno avrebbe fatto anche Veronica Lario. Invece Doris, quello della “Banca intorno a te”, nel film a lui dedicato, “Ennio Doris – C’è anche domani”, è interpretato da Massimo Ghini (caso misterioso di enormi incassi, sorsero leggende metropolitane sugli impiegati di Banca Mediolanum trascinati al cinema tipo cineforum del megadirettore Guidobaldo Maria Riccardelli, non si è mai saputa la verità).
I film coi sosia sono anche forse una sottoforma di pigrizia nell’epoca del remake, del prequel, della mancanza di idee. Il Bagaglino come forma mentale non rischia nulla, e uno zoccolo duro di utenti dotati di potere d’acquisto e tempo libero che si trascineranno fino alla “sala” (sempre sottolineare: la magia della sala) si troverà, anche non trascinati. Si potranno fare anche belle abbuffate: primo spettacolo Berlinguer, secondo, per rilassarsi un po’, a casa, “Hanno ucciso l’uomo ragno”, la serie Sky che racconta della provincia italiana anni Novanta e la nascita degli 883, e chi l’avrebbe mai detto che saremmo finiti a vedere gli 883? La serie tra l’altro è carina e ben fatta, senza pretese e almeno gli attori sono solo vagamente somiglianti, non si è cercato l’effetto, appunto, Bagaglino (c’è anche una fittizia Maria De Filippi ancora avvocata esperta di diritti d’autore, che riceve tramite il giovane Pezzali garzone nella fioreria di famiglia molti mazzi di rose spediti via Interflora da un intuibile e fantasmatico Maurizio Costanzo).
E’ sempre una scelta difficile però quella sulla dose di Bagaglino da utilizzare. Puntare sul mimetismo completo o allontanarsi un po’ dall’originale? Dicevamo, non è un problema solo italiano, all’estero non sono messi meglio, però hanno più attori. La Regina Elisabetta vanta molteplici tentativi di imitazione (cit. per noi boomer) con le sue ormai decine di interpreti più o meno bagaglinesche, da Helen Mirren in “The Queen” (2006) alla pletora di attrici che si sono succedute nella maratona di “The Crown”, dunque Claire Foy, a fare Elisabetta ragazza, e poi Olivia Colman a partire dalla terza stagione, e infine Imelda Staunton che ha fatto l’elisabetta finale. E nell’ultima puntata tutte le Elisabette si trovavano insieme, come vorremmo noi un filmone di soli Andreotti. Tutti insieme, al Salone Margherita, quelli che l’hanno interpretato negli anni: da Toni Servillo nel “Divo”, Fabrizio Contri in “Esterno notte”, Paolo Pierobon in questo “Berlinguer”, e naturalmente Oreste Lionello nel Bagaglino. Andreotti pare che odiasse Thatcher, riodiato, peraltro. In “The Crown” spuntava anche la lady di ferro, che anche lei dà lavoro a tante attrici: nella serie Netflix era Gillian Anderson che col suo ritratto super bagaglinesco ha preso pure un Emmy col vocione e i tic da figlia del droghiere. Ma è stata impersonata pure da Meryl Streep in “The Iron Lady” (2011).
Effetto memoria: del Bagaglino si trovano ancora tracce infinite online, soprattutto su Facebook. Anche tante foto di scena che riviste oggi mettono una tristezza tremenda, perché senza le luci il trucco cola, la somiglianza latita, prevale la maschera luttuosa. Ce n’è una che mostra uno Zerbinati che effettivamente sembra Craxi, ha anche dell’originale la presenza fisica e carismatica; c’è un improbabile D’alema, con dei baffi troppo grandi e folti, e un De Mita che non somiglia per niente… in mezzo, una Marta Marzotto che non si capisce se è lei o non è lei (come diceva Ezio Greggio in “Drive In”. Anche lì, imitazioni, però più grottesche; Gianfranco D’angelo faceva Baudo, la moglie Katia Ricciarelli, Sandra Milo, Roberto Gervaso, Piero Angela e Raffaella Carrà).
Zerbinati fu un caso limite. Rischiò a un certo punto negli anni Novanta di Tangentopoli di essere malmenato perché in un paese in Salento l’avevano scambiato per Bettino, quello vero. Il suo destino fu la condanna a diventare Craxi. Lo interpreta anche nel film “Ladri si nasce” (1997) sempre di Pingitore, e in “Hammamet Village” (1997), e il capo del Psi a quel punto lo vuole conoscere, diventano amici, faranno lunghe passeggiate, fino alla morte del leader.
“Hammamet” era poi il titolo della bagaglinata di fascia alta, altissima, di Pierfrancesco Favino, il sosia d’italia, il mimetico in servizio permanente effettivo, che mette a segno un Craxi tunisino y final diretto da Gianni Amelio. Ma già lì Favino metteva in guardia. “Una metamorfosi emotiva, che va molto oltre l’esteriorità”, definì la sua performance. “Altrimenti sarebbe solo un principio imitativo. Se lo spettatore passasse il tempo a pensare: ‘Oddio, com’è uguale a Craxi’ si distrarrebbe, concentrandosi sul virtuosismo invece che sulla storia”.
Chissà che ne direbbe Zerbinati. Su Facebook nel gruppo “Cinema italiano di serie B” c’è un post e un tale scrive: “Sto cercando di contattare Zerbinati per un mio zio, suo amico d’infanzia, che lo vorrebbe rincontrare. Qualcuno per caso sa dirmi come mettermi in contatto con lui? (o può chiedergli di contattarmi?) grazie!”. Un altro utente risponde, lapidario: “E’ morto nel 2011”.
Cortocircuiti totali tra vita e arte, tra realtà e tv, come quando Fantozzi davanti alle tribune elettorali viene colto da allucinazioni: nell’“esterno notte” di Bellocchio c’è Andreotti che non è Servillo, e c’è papa Paolo VI che invece Servillo. Ma dove siamo? Nella “Grande Bellezza”, nel “Divo”, nella serie sul Papa americano (no, qui è il Papa bresciano)? E dove sono gli altri? Buccirosso che
èfa uno strepitoso Cirino Pomicino, e uno straordinario Popolizio che fa Sbardella?
Poi bisogna stare attenti, il Bagaglino diventa come un peso che gli attori si portano appresso per sempre: se Gifuni sembra non poter abbandonare l’espressione addolorata di chi si prepara a finire nel bagagliaio della R4, Alessandro Borghi sembra rimasto per sempre imprigionato nel ghigno-paresi facciale dei super orgasmi di “Supersex” in cui dipinge un dolente Rocco Siffredi (dolente ma non per questo meno erettile).
I film coi sosia a me mettono poi sempre una leggera tristezza, almeno all’inizio. Mi ricordano un circo di paese, o le atmosfere crepuscolari del “fuori” Sanremo con gli imitatori di provincia che si aggirano per la cittadina ligure nell’umidità delle serate del Festival (c’è quello di Mike Bongiorno, quello di Fiorello…). A proposito di Mike, aspettiamo ansiosi la serie tv che andrà in onda lunedì e martedì prossimo in prima serata su Rai 1. A fare Mike è Claudio Gioè, mentre Elia Nuzzolo, che ha interpretato Max Pezzali nella serie sugli 883, è il presentatore da giovane. E chissà se ci sarà anche un cameo di Mussolini: si sa che Mike da giovane finì in carcere a San Vittore insieme a Sandro Pertini in quanto partigiani – come si vede anche nella mostra allestita fino a novembre a Palazzo Reale a Milano, piena di documentazione interessante.
Di nuovo il Duce, adesso ci arriviamo, un attimo. I sosia dei politici si moltiplicano in un paese – si è detto mille volte – senza star system, ma dove lo star system è la politica. “Politics is show business for ugly people”, diceva Gore Vidal, la politica è lo show business dei brutti (purtroppo il Gore interpretato da Kevin Spacey, già girato, è chiuso nei magazzini di Netflix per note vicende di #metoo, anche se il povero Spacey è stato sempre scagionato e a questo punto potrebbero anche sbloccarlo).
E siamo finalmente a Lui, al Duce. Il sogno (cinematografico?) di tutti. Su Esquire c’è anche una classifica delle cinque migliori interpretazioni di Mussolini al cinema. Il Duce è il protagonista assoluto del bagaglinismo italiano. Adesso su Sky sta per arrivare quello fatto da Luca Marinelli, tratto da “M”, la mussoliniade di Scurati: M come Mussolini, M come Male assoluto, M come Mad Men fascio, ma è talmente enorme il business che è M ma dovrebbe chiamarsi XL. Intanto esce in libreria “M – L’ora del destino”, ultimo capitolo della saga, tipo “Indiana Jones e l’ultima crociata”, con formidabile lancio alla Buchmesse versione off, la controprogrammazione alla versione governativa.
Sullo schermo, uno dei Mussolini più apprezzati è stato quello di Massimo Popolizio in “Sono tornato” di Luca Miniero (anche però in versione teatrale da Scurati). Per non confondermi ho chiesto a CHATGPT secondo lui o lei qual è il miglior Mussolini cinematografico e senza battere ciglio ha stabilito trattarsi di Rod Steiger nel film del 1962 “Il Leone del Deserto”. “Steiger ha offerto una performance intensa e credibile, incarnando la figura di Mussolini con grande autorità e complessità. La sua interpretazione ha catturato sia il carisma che l’arroganza del dittatore, rendendolo una figura imponente e inquietante”, ha risposto l’essere inanimato (chiedere a CHATGPT è il nuovo “me l’ha detto il tassista”, vabbè). Il tassista artificiale mi ricorda anche un Mussolini che m’ero dimenticato: Filippo Timi in “Vincere” (2009) di Marco Bellocchio, “dove ha interpretato Mussolini in una chiave drammatica, concentrandosi sull’aspetto privato e oscuro del dittatore, in particolare attraverso la relazione con Ida Dalser”.
Poi certo ci si chiede perché questa ossessione per Lui, per M, per il Male e il Duce. Vero, c’è stata l’orrida e demente dittatura. Però in Spagna è durata il doppio ma i cinematografari non sono così ossessionati con Francisco Franco. E l’ossessione, si sa, ha a che fare col desiderio…
In questo mercato così ampio dell’interpretazione autentica del Duce ognuno cerca poi di differenziarsi, di puntare su qualche dettaglio originale. Marinelli sull’occhio a palla, che però lo rende invece simile a Giorgio Bracardi. Intanto arriva anche un nuovo libro su Mussolini, di Giordano Bruno Guerri (“Benito. Storia di un italiano”, Rizzoli): la foto di copertina è un inedito Duce coi capelli, forse anche in scia a una temperie sotterranea della destra meloniana, lo sdoganamento del trapianto, da Francesco Lollobrigida al nipote di Bruno Vespa Andrea Ruggieri, ospite fisso televisivo, neo irsuto. La vera egemonia è forse questa? Non quella del trapianto di capelli, ma quella di un paese ossessionato e intossicato dalla politica, dove la politica dunque lo stato permea qualunque spazio (e si conclude sempre col casting sbagliato). Però attenzione: saremo esposti così più degli altri alla sostituzione etnica da parte dell’intelligenza artificiale, con un Bot che senza scioperare, senza agenti, con pioggia e vento sa interpretare tutti, Mussolini giovani, con capelli e senza, Aldo Moro con cappotto e in short, Berlinguer intensissimi, Andreotti che cantano davanti a Renato Zero? Sarebbe un disastro per registi, attori, sceneggiatori. E, soprattutto, truccatori.

Fonte: Il Riformista