Intervista ad Alessandro Scuderi: “Eravamo giovani, sognavamo di cambiare il mondo e sconfiggere la mafia”


Di Daiana De Luca (Responsabile Comunicazione Confedercontribuenti)


A pochi giorni dalla commemorazione del XXVIII anniversario della strage di Via D’Amelio, nella quale persero la vita il Giudice Antimafia Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, la redazione del Quotidiano dei Contribuenti ha incontrato Alessandro Scuderi, ispettore in quiescenza che ha svolto il suo servizio presso la Squadra Mobile di Palermo e Catania, con un segmento professionale prestato anche alla D.I.A., insomma presso gli uffici di punta della lotta alla Mafia negli anni che riconosciamo come quelli più violenti, quelli delle Stragi di Capaci e via D’Amelio; quelli delle guerre tra i clan di Cosa Nostra per l’acquisizione del potere sul territorio.

A lui si deve il primo identikit, mai usato, di Bernardo Provenzano, il cosiddetto “Ragioniere” della Mafia. A tre episodi della sua carriera professionale si è ispirato lo scrittore Giampiero Calapà per realizzare il suo ultimo lavoro dal titolo “A un passo da Provenzano”.

 

IL LIBRO

“Il libro, ci tengo a precisarlo e ribadirlo fin da subito, del quale ho scritto la post fazione, è di Giampiero Calapà a cui ho raccontato tre episodi del mio impegno contro  la mafia che, insieme ai miei colleghi, ho condotto e che mi hanno visto, mio malgrado, coinvolto”.

“Il primo è relativo all’arresto di Salvatore Contorno, che è stato materialmente ammanettato da me nell’ambito di una operazione nella quale sono stato coinvolto dal mio Dirigente dell’epoca (Arnaldo La Barbera – ndr) solo la sera prima dell’irruzione in una villetta a San Nicolò, luogo in cui avvenne l’arresto; tuttavia ci tengo, a precisare, rispetto a tale arresto, non ho partecipato a nessuna operazione di intelligence ad esso legato. Quella mattina, in particolare, avevamo già arrestato Gaetano Grado in una villetta in cui facemmo irruzione. Durante queste fasi, vedemmo un uomo fuggire verso un terreno limitrofo, lo inseguimmo ed insieme ad un mio collega lo bloccammo. Era Salvatore Contorno e sebbene fui io ad ammanettarlo, il merito va ad entrambi”.

“Il secondo episodio riguarda il rinvenimento dell’ordigno posizionato negli scogli antistanti la villetta al mare del Dott. Falcone (attentato Addaura ndr). Ci tengo, anche qui, a precisare che la borsa con dentro l’ordigno venne trovata dagli agenti della scorta del Giudice e quando giunse il primo allarme, trovandomi a bordo dell’auto più vicina al luogo, mi recai, insieme al collega, immediatamente sul posto. Fin da subito i colleghi avevano intuito che dentro la borsa vi fosse un ordigno; io, in effetti, ho riconosciuto l’impianto, così, dopo aver dato l’allarme arrivarono gli artificieri ed ho assistito al disinnesco dell’ordigno, operazione, quest’ultima, alquanto maldestra”.

“Il terzo episodio descritto è relativo alle indagini da me condotte circa l’omicidio del quasi collaboratore di giustizia, già  infiltrato all’interno di Cosa Nostra, Luigi Ilardo detto Gino. Da subito l’omicidio Ilardo apparve come un omicidio “eccellente”. Una mia fonte confidenziale mi disse che Cosa Nostra aveva già deciso che Gino Ilardo avrebbe dovuto essere ucciso, ma questa decisione venne ad un certo punto accelerata e nel giro di pochi giorni, infatti, il collaboratore venne assassinato sotto casa. Appena qualche giorno prima si era incontrato presso la sede R.O.S. dei Carabiniri a Roma, con Tinebra  Caselli e la Principato. Quel giorno non fu redatto alcun verbale…”

L’ndagine sull’omicidio Ilardo viene sostanzialmente divisa in due filoni: il primo, quello degli anni 96-98; il secondo, trascorsi 17 anni, grazie alla contributo di diversi collaboratori di giustizia, inizio’ quando nel 2013,  venni contattato dal Sostituto Procuratore, il Dott. Pacifico, titolare delle indagini, da cui venni escusso a “sommarie informazioni”, e ricominciai io stesso a lavorare a queste indagini insieme ai colleghi”.

“Ribadisco che il secondo filone di indagini, come sopra anticipato, prese vita dopo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia che nella sostanza raccontarono quanto da me sostenuto anni prima, perché svelatomi dalle fonti fiduciarie; dunque, assodato che il reato di omicidio non va mai in prescrizione, quando tornai a lavorare sulle indagini, trovai il relativo fascicolo molto scarno. Io, invece, nella mia attività di indagine pregressa, insieme ai colleghi, avevo raccolto ben tre scatole di incartamenti e documentazione varia”.

 

SULL’IDENTIKIT DI BERNARDO PROVENZANO

“Il mio identikit di Bernardo Provenzano, nasce da un’attività non facile di convincimento che ho operato su una delle mie fonti confidenziali che alla fine ha ceduto ed ha cominciato a descrivermi il capomafia della Cupola. Sulla base di quella descrizione disegnai prima uno schizzo e poi un vero e proprio identikit. Entusiasta di questo lavoro  scrissi una relazione ma, ritengo di poter dire che i tempi, allora, non erano maturi e probabilmente io stesso non mi sono reso credibile e di fatto non sono stato creduto. Potrei anche dire di essere stato “protetto” in qualche modo, nel senso che non venni messo in situazioni scomode o pericolose; può darsi che, come mi venne detto, non avevo ancora le spalle abbastanza larghe da sostenere una situazione molto più grande di me”.

 

IL SERVIZIO NEGLI ANNI DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA

“Ho vissuto quegli anni inconsapevolmente. Sostanzialmente non ci si rendeva conto dell’enormità del contesto , della sua pericolosità ed importanza. Si viveva tutto come  fosse un’avventura… Ero un giovane poliziotto contento e felice di fare il mio lavoro; coi miei colleghi non avevamo orari di servizio, se non sulla carta, e spesso non segnavano  neanche lo straordinario pur di arrivare all’obiettivo di cambiare il modo, di sconfiggere la mafia”.

 

IL FENOMENO MAFIOSO IERI E OGGI

“Io sono stato trasferito a Catania per motivi di famiglia nel 91, poco prima delle Stragi e dopo un periodo all’ufficio scorte sono stato assegnato alla Squadra Mobile, alla sezione omicidi. Da quell’anno e fino alla fine del 1998 a Catania abbiamo potuto contare circa 100 morti ammazzati all’anno. Tratto distintivo di quegli anni era proprio la violenza che la mafia usava per accaparrarsi il controllo del territorio soprattutto per il mercato della droga e delle estorsioni”

“Dal 2000 in poi, invece, abbiamo assistito ad un drastico calo degli omicidi; questo vuol dire che la mafia oggi, tramite accordi raggiunti, riesce a spartirsi i mercati dello stupefacente, dell’usura e del racket. Insomma sono cambiati loro ed i mezzi che hanno a disposizione per affermare la loro predominanza sul territorio; oggi la mafia è indiscutibilmente più forte rispetto a quegli anni; e’ una mafia imprenditrice e manageriale. Ritengo, comunque, in modo ottimistico che la mafia sia destinata un giorno a finire, come diceva il Dott. Falcone, tuttavia non credo che questo possa essere un “problema” di imminente risoluzione giacchè, come diceva anche Sciascia, “l’antimafia dovrebbe iniziare a scuola”, cosa che non accade del tutto. Dovrebbero, inoltre, esserci prese di coscienza più forti, come leggi di contrasto alla criminalità organizzata diverse e più efficaci”.

“Prosaicamente dico che “ la mafia è una montagna di merda”, come diceva Peppino Impastato; atteso ciò, sostengo che oggi la mafia sia una Holding, strettamente collegata al potere politico ed alle istituzioni e non sarà semplice né immediato porre fine al sistema che ha creato”.

 

SULLE ASSOCIAZIONI ANTIMAFIA

“Sono sul punto molto critico; non ho problemi a dire che ho buttato spesse volte fuori dagli uffici della mobile più di un rappresentante di queste associazioni. Allo stesso modo, però, devo dire che ritengo alcune associazioni antimafia davvero molto serie. Ho, ad esempio, un bellissimo ricordo della Dott.ssa Guerini, scomparsa qualche mese fa, o di Salvatore Fiore, ma credo poco, in buona sostanza nei “paladini” antimafia e spiego con un esempio semplice il perché. Ho ricordo di qualche anno fa quando, durante una fiaccolata davanti al Tribunale di Catania, tanti partecipanti, a loro dire, sfilavano e manifestavano contro la mafia; alcuni di loro li conoscevo già perché tempo prima, durante un servizio di Ordine Pubblico, mi avevano lanciato delle monetine. Subito dopo la manifestazione, così come confidatomi da una ragazza tossicodipendente che ben conoscevo, alcuni dei partecipanti andarono a comprarsi la “roba”, arricchendo ed alimentando, così, quel sistema mafioso teste’ criticato, che trova nel mercato dello stupefacente una fonte inesauribile di risorse, non solo economiche. Ovviamente non voglio generalizzare ma questo fatto è certamente emblematico e fa riflettere.

Ritengo, perciò, che quella che vi ho raccontato non sia antimafia; l’antimafia si fa sul territorio, aiutando davvero la gente vittima di usura ed estorsione, ed a scuola contribuendo ad evitare la diserzione scolastica, così  amo chiamarla…”

La storia della lotta alla mafia racconta di persone lasciate sole nel loro agire, di persone costrette a dover subire spesso vessazioni morali pur di scoraggiare il loro viaggio verso il raggiungimento di un ideale di piena legalità. In questo lungo e difficile cammino, riteniamo, non si debba né possa mai prescindere dal nutrire sentimenti contrastanti di paura e dal coraggio. Giovanni Falcone, simbolo, insieme a Paolo Borsellino, della lotta antimafia, diceva “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”.  Riteniamo di non trovare un modo migliore per concludere questo viaggio appassionato che abbiamo fatto insieme.