Quanto pesano realmente gli aiuti europei? Dipende da come i soldi verranno spesi. Governo e Parlamento devono scegliere gli investimenti che generano innovazione e tecnologizzazione, recuperando quella produttività che da trent’anni segna un tasso di incremento pari a zero
di Renato Costanzo Gatti
In un articolo di pochi giorni fa sul Financial Times, gli economisti italiani Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo le seguenti due posizioni:
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ciò che l’Italia riceverà dall’Europa con il NGEU “is a very modest sum when compared to a crisis that destroyed over 160 bn of GDP last year alone, much more than past recession” (è una somma molto modesta se paragonata a una crisi che ha distrutto oltre 160 miliardi di PIL solo lo scorso anno, molto più della passata recessione).
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“Draghi policy will be a schumpeterian laissez-faire rather than Keynesian expansion” (La politica di Draghi sarà un laissez-faire schumpeteriano piuttosto che un’espansione keynesiana).
Circa la prima affermazione il ragionamento fatto dai due autori è, grosso modo, il seguente: contrariamente a quanto affermato dalla stampa o dai politici di comodo e a quanto ritenuto dal senso comune corrente i 209 miliardi di euro che ci dà l’Europa, sembra una cifra enorme che viene paragonata addirittura al piano Marshall dell’immediato dopoguerra, ma in verità è un aiuto molto modesto. È da ricordare che gli aiuti statunitensi erano veri e propri aiuti, da non restituire, quindi a titolo gratuito anche se finalizzati a fidelizzare gli stati beneficiati agli USA e a costruire un promettente mercato per gli stessi.
Il NGEU in effetti ci presta 127 miliardi e ci sussidia con 82 mld a fondo perduto. Ora questi 82 miliardi sono il 21% dei totali sussidi a fondo perduto erogati dall’Europa ai paesi membri pari a 390 miliardi, e vanno quindi ad incidere sul bilancio dell’Europa che dovrà poi ri addebitare questo deficit tra tutti i paesi europei quando calcola il contributo dovuto da ciascun paese. Questo riaddebito avviene sulla base delle quote di partecipazione di ciascun paese nel bilancio della UE, e la nostra quota è del 12%. Dovremo quindi ripagare 47 miliardi (390*.12) con una differenza a nostro favore di 35 miliardi (82 ricevuti meno 47 da ripagare).
In fondo, dicono gli autori, sono solo 6 miliardi l’anno per 6 anni. Una cifra ridicola se pensiamo che nel solo 2020 abbiamo perso 160 miliardi di PIL.
Non un cenno è fatto dagli autori al fatto che la quota sussidi (superiore alla quota prestiti) costituisce, per la prima volta nella storia dell’Europa, un indebitamento comunitario e rappresenta quegli eurobond che da anni si invocavano nella politica comunitaria. Questo fatto è invece, a mio parere, un enorme passo in avanti fatto dall’Europa di Ursula, destinato a modificare profondamente il futuro della politica comunitaria.
Ma l’obiezione principale che mi sento di fare all’affermazione degli autori riguarda il fatto che ci si attenderebbe un “regalo” (da chi e perché?) senza considerare, invece, che i prestiti, se ben investiti, generano i risparmi che serviranno alle prossime generazioni e che quindi più che sui regali sarebbe bene puntare al “come” usare i fondi che dovremmo ricevere.
Passiamo così al secondo punto, che è proprio quello sul quale ci si misura circa l’utilizzo dei fondi del NGEU. Che significa accusare il governo di voler privilegiare il laissez faire schumpeteriano anziché l’espansionismo keynesiano? Scrivono Brancaccio e Realfonzo: “Draghi ha esortato i governi a sostenere una “distruzione creativa” da libero mercato. Questo non è Keynes ma una versione laissez faire di Schumpeter. Se il finanziamento europeo della resilienza non è più generoso, il governo Draghi potrebbe configurarsi come poco diverso dall’austerità dei tecnocrati che l’hanno preceduto”.
I due autori, quindi, preferirebbero inondare il paese di liquidità al fine di incrementare in modo sostanziale la domanda aggregata e quindi stimolare l’effetto Smith (il filosofo ed economista scozzese del XVIII secolo Adam Smith) quale fattore positivo della produttività. Se non ci fossero i limiti e le indicazioni dell’Europa, che indicano gli obiettivi della digitalizzazione e dell’ecologia, potrebbe sembrare che gli autori vogliano indicare addirittura una specie di helicopter money (una forte immissione di denaro per stimolare l’economia in recessione). E ciò senza chiedersi se la struttura attuale del nostro sistema produttivo è in grado di rispondere a questa spinta espansiva senza orientarla verso l’importazione.
Vedo invece in Schumpeter l’economista che considera l’innovazione come variabile endogena al sistema per cui la concorrenza avviene con l’introduzione di nuove tecnologie o nuovi prodotti, introduzione che spiazza la concorrenza e permette momentanee posizioni di monopolio.
Nel nostro caso è il governo/parlamento che sceglie gli investimenti che, schumpeterianamente, devono tendere all’innovazione ed alla tecnologizzazione, recuperando quella produttività che per ben trent’anni ha segnato un tasso di incremento pari a zero. Considero quindi auspicabile un intervento schumpeteriano che, peraltro essendo guidato dal governo/parlamento, mi sembra tutt’altro che laissez faire.
L’approccio keynesiano eternizzerebbe una economia a basso contenuto tecnologico ancora una volta basata sul basso costo del lavoro; l’approccio schumpeteriano vedrebbe invece l’intervento pubblico spingere verso l’innovazione di processo o di prodotto ed un recupero della competitività che urge al nostro sistema. L’importante, mi pare, è che questi interventi non vengano sotto forma di sussidi, agevolazioni, sconti, regali ma rimangano come partecipazioni statali, preservando nell’ambito della comunità i sacrifici dei contribuenti presenti e futuri.