Carrello della spesa bollente per i consumatori: dopo il caro dell’energia, l’inflazione va a colpire gli scaffali degli alimentari, mettendo in difficoltà i consumatori. Ed è subito corsa alle strategie, da parte dei clienti, per diminuire il costo dei prodotti nel carrello: meno salumi e formaggi, spese più frequenti senza scorte e più prodotti a marchio delle catene. E’ un italiano su due ad aver difficoltà a fare la spesa, mentre uno su tre deve ricorrere al discount.
Secondo l’ultima ricerca di Aldi commissionata ad AstraRicerche, quasi il 32% degli italiani sceglie il discount per la propria spesa. E, a fronte di 30 milioni di italiani in vacanza, che “rappresentano solo metà della popolazione -spiega Mauro Antonelli, responsabile dell’ufficio studi dell’Unione Nazionale dei Consumatori- molti non possono permettersi la spesa, con un aumento delle disuguaglianze”. Bisognerebbe, ribadisce, intervenire con un aiuto ad un italiano su due: serve “ridare la capacità di spesa al 50% meno abbiente della popolazione”.
Dalla caccia agli sconti, all’aumento dei clienti dei discount alla riduzione dei prodotti acquistati: “Queste dinamiche ci sono state tutte”, dice Donatella Prampolini, presidente di Fida Confcommercio, la Federazione Italiana Dettaglianti Alimentari. “Inizialmente -spiega- quando l’inflazione ha cominciato a mordere nel 2022, c’è stato un travaso importante di consumatori dai supermercati ai discount, anche se non in maniera esclusiva, perché oggi i consumatori girano, quindi magari alcuni che prima non li frequentavano hanno iniziato ad andarci”. L’anno scorso i discount hanno avuto degli “incrementi sia nei pezzi venduti che nel fatturato, in certi casi anche in doppia cifra: per i pezzi venduti anche del 6-7% in più”. Il supermercato, invece, “ha fatto un più molto ristretto rispetto al discount, per effetto di un’inflazione che su certi prodotti toccava numeri a doppia cifra, come sui prodotti caseari e i salumi”. Proprio la tipologia di prodotti di cui il consumatore ha iniziato a ridurre i consumi per primi: “il consumatore ha fatto anche rinunce”.
Da mesi, spiega Antonelli, “le vendite di volume alimentari attestano un calo delle quantità acquistate dei prodotti”. E, puntualizza, se c’è una spesa obbligata è quella alimentare, per cui il fatto che si siano ridotte le quantità acquistate “è indice della difficoltà delle famiglie ad affrontare il caro spesa”. Non si tratta, aggiunge il responsabile dell’Unione Consumatori, di una riduzione per evitare sprechi “ma proprio di quantitativi acquistati ed è indice di un problema da risolvere dal punto di vista economico”, anche perché, sottolinea, è un problema che coinvolge tutta l’economia: “se le famiglie non acquistano, i commercianti non vendono e le imprese non producono”. Bisogna, per questo, “partire dai consumi interni per il rilancio dell’economia, che nel nostro Paese rappresentano il 60% del Pil”. La riduzione dei consumi, con la rinuncia ad acquistare, è dunque l’ultimo passaggio di una serie di strategie messe in campo dai clienti per fare fronte all’aumento dei prezzi. Anche Antonelli ribadisce che per prima cosa “le persone hanno cercato di cambiare tipologia di esercizio, alla ricerca del risparmio, passando da negozi ai supermercati e poi ai discount”. Poi, “si cambia marca, si va a caccia delle offerte promozionali, si fa zapping tra un supermercato all’altro a seconda delle offerte, impiegando più tempo per cercare prodotti per cui si può risparmiare. E poi, alla fine, si riduce anche la quantità acquistata”. E questo si riflesse sulle vendite, in cui, prosegue ancora la presidente Prampolini, “abbiamo notato un calo dei volumi: i fatturati rimangono invariati, ma essendoci una spinta inflazionistica significa che i pezzi venduti sono calati”.
Infine, è cambiato anche il modo di fare acquisti: “i consumatori hanno acquistato meno e cambiato le loro abitudini”, spostandosi verso “acquisti più frequenti”, preferendo “più spese frazionate, con meno prodotti di scorta” alla grossa spesa settimanale, con una riduzione degli sprechi. Un’altra cosa apprezzata, aggiunge Prampolini, “sono le offerte promozionali: è venuta meno la fedeltà alla marca in favore di quella all’offerta”. Sono tutti comportamenti che “i consumatori hanno fatto propri per mitigare gli effetti dell’inflazione”. Sta aumentando, poi, la vendita dei prodotti con il marchio delle varie insegne, che è “un buon compromesso tra prodotto di qualità e prezzo più basso rispetto alla marca leader”. E’ un trend, sottolinea Prampolini, che si osserva da alcuni anni, anche per l’investimento delle insegne nell’ampliare la gamma dei prodotti a marchio, che hanno mediamente “prezzi più bassi rispetto all’industria di marca perché non c’è il costo di promozione e di marketing”. Il prodotto a marchio, aggiunge, è “stata in certi casi una scelta obbligata per arrivare a fine mese, anche se poi sono stati apprezzati per la loro qualità”.
Il trend, sostiene Prampolini, probabilmente continuerà: “il consumatore rimarrà molto attento e lo sarà anche quando l’inflazione morderà meno, perché una volta che si sono recepiti certi comportamenti virtuosi è difficile tornare indietro”. In ogni caso, nel breve e medio termine, “non ci si aspettano cambiamenti rispetto a queste dinamiche”, oggi si ha a che fare con un “consumatore attento, che non rinuncia a niente, ma cerca di arrivare a fine mese attraverso la multicanalità”. Per evitare le rinunce, magari “compra una volta in meno il prodotto di qualità, ma lo compra lo stesso e cerca di mediare il costo andando a volte anche al discount”. Insomma, è una “dinamica fatta di equilibri”.
Una soluzione per ridare la capacità di spesa ad un italiano su due potrebbe essere, continua Antonelli, un “bonus come quello fatto dal governo Draghi, per chi guadagnava meno”, che dava un sostegno alle famiglie con un reddito sotto i 35mila euro. Non si tratta solo di equità sociale, sottolinea, ma proprio di una strategia economica: il “primo quintile della popolazione ha una propensione marginale al consumo doppia rispetto al 20% più ricco che, avendo già i soldi, se gliene arrivano altri, li risparmia”. Secondo Antonelli, “bisogna cercare di ridurre le tasse che colpiscono tutti indistintamente, che fanno più male ai cittadini non abbienti, e combattere l’inflazione”, altrimenti “se aumentano le bollette e le tasse su spese obbligate come l’energia, poi si riduce il consumo”, con un danno per l’economia nel suo complesso.
In particolare, la città di Milano, sottolinea Antonelli, “sul settore alimentare ha un’inflazione più bassa rispetto alla media nazionale, perché c’è una concorrenza maggiore: ci sono ancora i mercati rionali, dove si trovano prodotti a prezzi calmierati, perché c’è tanta concorrenza e ci sono tante bancarelle”. Il settore alimentare va un po’ meglio in città, in termini di inflazione, rispetto ad altri: “Milano spicca il volo ed è terza dopo per i servizi di alloggio e comunque sopra la media nazionale per i servizi di ristorazione”, mentre sull’alimentare si mantiene nella media nazionale. Anche i servizi di ristorazione, tra l’altro, si trovano a fare i conti con un carrello della spesa sempre più caro: anche se l’inflazione a giugno è rallentata, “i prezzi dei beni alimentari -fanno sapere dall’ufficio studi di Fipe Confcommercio, la federazione italiana pubblici esercizi- continuano a restare troppo alti”. Sebbene ristoranti e bar non facciano la spesa come una famiglia, aggiungono, “i significativi aumenti che da oltre un anno si scaricano sui listini delle materie prime alimentari, anche all’ingrosso, creano enormi difficoltà alle aziende del settore, sia in fase di approvvigionamento che in fase di formazione dei prezzi e di relazione con i clienti”. Il risultato è, concludono, che “l’aumento dei prezzi di bar e ristoranti è costantemente al di sotto dell’inflazione generale e questo dato trova conferma anche nei dati di giugno”.