Il premier uscente nazionalista Narendra Modi è il grande favorito alle elezioni generali indiane, che da venerdì si terranno in sette fasi fino al 1 giugno, ma la sua figura cristallizza sempre più critiche e il suo bilancio di governo è contrastante. I sostenitori di Modi e del suo Bharatya Janata Party (BJP) sottolineano il record economico registrato dall’India – con una crescita dell’8,4% lo scorso febbraio – sul punto di diventare una superpotenza, grazie alla sua rapida espansione. La sua presenza sulla scena mondiale, come Paese ospite del G20, si è nettamente rafforzata, oltre al fatto di essere un alleato degli Stati Uniti, in contrasto col rivale cinese. A questi punti a favore si aggiunge lo sbarco sulla Luna, con la missione Chandrayaan-3, passato alla storia.
L’altro fattore di popolarità è rappresentato dalla dimensione di sviluppo sociale delle politiche di governo, con la recente introduzione di generosi programmi di Welfare, come la fornitura di grano gratuito a 800 milioni di persone tra le più povere dell’India e uno stipendio mensile di 1.250 rupie (16 dollari) alle donne appartenenti a famiglie a basso reddito. Tuttavia la pagella socio-economica di Modi registra punti deboli significativi: il Paese più popoloso del mondo dopo la Cina non è riuscito a creare occupazione per milioni di giovani che lottano per entrare nel mondo del lavoro e l’inflazione mentre l’inflazione è sempre più alta. Alla fine del 2023 il tasso di disoccupazione dei giovani tra 20 e 24 anni era pari al 44,4%. Un’altra fonte di malcontento è arrivata dal mondo degli agricoltori indiani, scesi ripetutamente in piazza per chiedere una maggiore protezione del loro benessere economico, rivendicano prezzi fissi più alti per i loro raccolti. Negli ultimi anni sono diventati la più grande minaccia per il partito al governo e dietro loro pressione Modi è stato costretto ad abrogare delle politiche agricole impopolari. L’agricoltura è la principale fonte di sostentamento per circa il 55% della popolazione indiana. Ad alimentare crescenti critiche nei confronti di Modi – che arrivano da più parti – è la tendenza ad aver fatto “scivolare l’India verso l’autocrazia” e ad aver rafforzato la presa sulle sue istituzioni democratiche. Per giunta il premier nazionalista indù è accusato di aver messo a tacere i suoi critici e di aver represso i media indipendenti indiani, oltre a limitazioni imposte a testate straniere, tra cui la Bbc.
Nell’annuale World Press Freedom Index, l’India è scesa dal 140° posto nel 2014 – anno in cui Modi salì al potere – a 161 su 180 nazioni nella lista dello scorso anno. Inoltre i gruppi di minoranza denunciano di essere spesso vittime di discriminazioni e attacchi e di essere costretti a vivere come cittadini di “seconda classe” sotto il governo di Modi: un’accusa che il BJP respinge. In particolare 200 milioni di musulmani affermano di essere stati perseguitati a causa delle politiche nazionaliste indù del partito al potere. Demolizione di monumenti islamici e costruzione sugli stessi siti di templi indù, ridenominazione delle città fondate da antichi sovrani musulmani, e revisione dei libri di storia: nei fatti l’India sta attraversando un cambiamento epocale segnato dal tramonto dei suoi valori fondanti secolari e dall’avvento di una nazione incentrata sugli indù. Gli analisti prospettano che un altro mandato del BJP spingerà l’India ulteriormente su questa strada. Ora Modi e i suoi alleati puntano a conquistare più di 400 seggi nella Lok Sabha, per poter riuscire così a modificare da soli la costituzione indiana. Nel 2019 riuscirono a ottenere la maggioranza assoluta, con 303 seggi per il BJP, e un totale di 352 per la National Democratic Alliance. Cinque anni fa il 67% degli indiani andò a votare, facendo segnare l’affluenza alle urne più alta nella storia del Paese. Una rinnovata vittoria alle elezioni del 2024 consolideranno la sua posizione di leader tra i più importanti e longevi dell’ex colonia britannica.
In campagna elettorale Modi ha promesso più posti di lavoro, investimenti pubblici in nuove infrastrutture, migliori opportunità di sostentamento per i cittadini, con l’obiettivo di trasformare l’India nella terza economia mondiale. Il suo programma di governo include l’estensione per cinque anni di un programma di distribuzione di cibo per 800 milioni di persone lanciato durante il coronavirus. Tra le promesse più controverse c’è l’adozione di un codice civile uniforme se il BJP resterà al potere: una promessa storica di lunga data per porre fine al regime separato per le comunità religiose che è esistito finora. La regione settentrionale dell’Uttarakhand, governata dal partito nazionalista indù, ha già approvato un codice uniforme lo scorso febbraio e la legislazione è ora destinata a entrare in vigore, nonostante le preoccupazioni delle minoranze per l’abolizione delle loro pratiche religiose o tradizionali. Modi si è anche impegnato ad accelerare il rafforzamento dei confini con la Cina e il Pakistan, nonché con la Birmania (Myanmar) nel nord-est, e ad aumentare i prezzi minimi di alcune colture “di tanto in tanto”.
A caratterizzare l’India, circa 1,4 miliardi di persone, è proprio la sua diversità, con più di 100 lingue parlate sul suo sterminato territorio nazionale, la presenza di tutte le principali religioni del mondo con una maggioranza indù di quasi l’80% e un mosaico di caste organizzate in un sistema gerarchico. Eppure, casta e religione sono due temi teoricamente vietati in India ai partiti politici durante la campagna, ma nella pratica definiscono gran parte della strategia elettorale. Come altri partiti mainstream – a cominciare dallo storico Partito del Congresso all’opposizione – anche il BJP di Modi cerca di posizionarsi come una forza di tutte le caste. Lo stesso premier si vanta spesso di provenire da una famiglia umile appartenente alle cosiddette Other Underdeveloped Classes (OBC), gruppi intermedi con potere politico ma non economico. Anche la religione è onnipresente nelle elezioni indiane e pochi partiti sono stati in grado di sfruttarla quanto il BJP. Ci sono immagini di Modi come maestro di cerimonie all’inaugurazione del controverso tempio in onore del dio indù Ram nella città settentrionale indiana di Ayodhya, alla fine di gennaio. Il tempio in questione è stato eretto sui resti della moschea Babri del XVI secolo, demolita da una folla di fanatici religiosi nel 1992 in un incidente che ha scatenato un’ondata di violenza tra indù e musulmani in tutto il Paese in cui sono state uccise circa 2 mila persone, per lo più appartenenti alla comunità musulmana. Dopo dieci anni di governo del BJP, accusato da organizzazioni come Amnesty International (AI) e Human Rights Watch (HRW) di discriminare la minoranza musulmana, i valori secolari dell’India sono stati relegati al passato, tranne che da formazioni minoritarie come il Partito Comunista dell’India (CPI, marxista) e l’islamico All India Majlis-e-Ittehad-ul Muslimeen (AIMIM). “C’è stata una normalizzazione del maggioritarismo indù, con tutto ciò che questo comporta in termini di discriminazione e violenza contro le minoranze religiose, che non abbiamo mai visto prima in India”, conclude Gilles Verniers del Centro indiano per la ricerca politica (CPR). (AGI)
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