In Tunisia il presidente Saied sta smantellando la democrazia


Il paese sta attraversando una profonda crisi economica, mentre il capo dello stato espelle i membri della commissione Venezia e continua la sua repressione contro la magistratura
YOUSSEF HASSAN HOLGADO

La Tunisia sta diventando un paese sempre più autoritario. Il presidente della Repubblica Kais Saied sta preparando il terreno per arrivare alle elezioni di dicembre e governare con pieni poteri, smantellando ogni istituzione a difesa dello stato di diritto. Lo scorso 2 giugno ha rimosso dall’incarico 57 giudici con l’accusa di corruzione. «Ho dato alla magistratura numerose opportunità e avvertimenti – ha detto Saied – un’epurazione totale del sistema giudiziario resta l’unica opzione per sradicare la corruzione del paese». Qualche giorno prima, il 30 maggio, ha espulso dal paese i membri della commissione Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che si occupa di monitorare lo status democratico e il rispetto dello stato di diritto di un paese. I membri della commissione sono stati cacciati dal paese per aver pubblicato un comunicato in cui criticavano il quadro costituzionale e legislativo in vista del referendum popolare che il prossimo 25 luglio dovrà portare all’approvazione della nuova Costituzione tunisina.
La presa di mano
In meno di un anno Tunisi ha subìto importanti cambiamenti politici che rischiano di portare il paese allo status quo precedente la rivoluzione dei Gelsomini iniziata a fine dicembre 2010 con la quale è stato destituito l’allora presidente Ben Ali. I primi segnali che potevano far prevedere ciò che sta accadendo oggi risalgono allo scorso 25 luglio quando il presidente Kais Saied in maniera unilaterale aveva deciso di congelare i poteri del parlamento eletto democraticamente, e deporre alcuni ministri del governo tunisino, fra tutti il primo ministro Hichem Mechichi.
Da quel momento Saied ha iniziato a governare per decreto presidenziale concentrando sulle sue mani un potere non indifferente. Ha sospeso la costituzione, sciolto il Consiglio supremo della magistratura tunisina e ha preso il controllo della commissione elettorale indipendente. Ha indetto delle consultazioni online per la stesura della nuova costituzione, alle quali ha avuto accesso solo la parte del paese che può permettersi una connessione a internet e gode di conoscenze digitali, mentre sono rimaste escluse le fasce più emarginate della società. Il verdetto finale ci sarà con il referendum del prossimo 25 luglio. Una data non casuale, che coincide con l’anniversario dell’inizio dell’accentramento dei poteri di Saied quando, nella calda estate del 2021, ha mobilitato l’esercito nel quartiere del Bardo davanti la sede del parlamento per evitare l’ingresso ai deputati.
Il parlamento, alla fine, è stato sciolto dopo otto mesi lo scorso 30 marzo e come se non bastasse alcuni legislatori stanno subendo un processo con la pesante accusa di «cospirazione contro la sicurezza interna della stato» per aver tenuto una riunione online nella quale hanno votato la fine della sospensione dei loro poteri decisa dal presidente Saied.
Nel paese manifestare è sempre più difficile. La polizia è tornata nelle strade con droni di sorveglianza e manganelli per colpire attivisti e cittadini. A gennaio centinaia di manifestanti, tra cui anche diversi minori, sono stati arrestati e condotti in caserma. E anche per i giornalisti, soprattutto quelli tunisini, è difficile lavorare in un clima simile. Lo scorso 19 gennaio l’ong Reporter san frontières aveva lanciato un allarme con la pubblicazione del rapporto “Il giornalismo in Tunisia: l’ora della verità” chiedendo a Saied di «preservare la libertà di stampa». Qualche mese dopo la giornalista Chahrazed Akacha è stata arrestata, e liberata dopo poco più di un giorno, per aver criticato la polizia e il ministero dell’Interno tramite un post su Facebook.
Crisi economica
Al collasso politico si affianca anche il collasso economico che sta colpendo duramente il paese già dall’inizio della pandemia e che ora, con la guerra in Ucraina, sta esacerbando le tensioni sociali.
La Banca centrale tunisina stima un aumento del deficit di bilancio fino al 9,7 per cento del Pil per il 2022 (una previsione più pessimista della precedente), l’inflazione continua ad aumentare, attestandosi sopra il 7,5 per cento nel mese di aprile. A questo si somma il caro carburante e la crisi del grano causata dalla guerra in Ucraina e che, nel mondo arabo, colpisce duramente soprattutto la Tunisia, l’Egitto e il Libano.
Anche le agenzie di rating internazionali stanno declassando la Tunisia per via di un rischio default che oggi non è così lontano. Il Sindacato generale dei lavoratori tunisini (Ugtt), una delle istituzioni più radicate nel paese, ha organizzato uno sciopero generale per il prossimo 16 giugno. Chiede un aumento dei salari e la fine dei tagli alla spesa pubblica.
Il colpo costituzionale
Tra le colonne del Washington
Post, Shadi Hamid e Sharan Grewal hanno definito ciò che sta accadendo in Tunisia come un colpo di stato in «slow-motion», a rallentatore, e si chiedono: «Quanto può durare una presa di potere al rallentatore prima che diventi palesemente irreversibile?».
Da avvocato costituzionalista e volto della speranza per un cambiamento politico nel paese, Saied ha smantellato, senza alcuna opposizione, anche l’ultima speranza di democrazia nata da quel movimento di protesta di 10 anni fa. E in questo suo processo politico autoritario ha anche incassato l’assenso di alcuni alleati, primo fra tutti il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi con il quale è in ottimi rapporti.
Nonostante la gravità della situazione politica l’Unione europea non ha escluso la Tunisia dal fondo di 200 milioni che servirà ad aiutare i paesi più colpiti dalla crisi del grano. Per Bruxelles è importante mantenere una Tunisia stabile nel Mediterraneo e perciò continua, attraverso una serie di accordi, a finanziare il governo tunisino con un unico obiettivo: contrastare l’immigrazione illegale. Ma un paese più autoritario porterà inevitabilmente più giovani a cercare democrazia e lavoro altrove.

Fonte: Domani