«IN MARE C’È UNA LEGGE MORALE CHE NESSUN DECRETO PUÒ PIEGARE»


Parla l’attivista, portavoce di Sea-Watch: «Una ong che cerca di salvare qualcuno poi deve andarsene in un porto a 1500 km, così si lascia il campo all’intervento dei libici che catturano i migranti»

Umberto De Giovannangeli

Dal pianto di un bambino può venire una lezione di vita. Personale e politica. Giorgia Linardi, portavoce e consulente di Sea Watch, già Advocacy Manager di MSF, questa esperienza l’ha vissuta in prima persona e raccontata in un emozionante articolo su La Stampa, “Baby Naufrago”. Una lezione che è anche una sfida a chi ha dichiarato guerra alle navi salvavita.
Quale insegnamento personale ha tratto dall’incontro con quel “baby naufrago” tratto in salvo dal team di soccorso di Medici Senza Frontiere su un gommone straripante di persone?
L’insegnamento di resilienza e di forza che queste persone hanno per noi e che noi ci rifiutiamo di vedere. Penso davvero che sia un’occasione mancata quella di sentire che cosa queste persone hanno da dirci. Per me è stata una grandissima sorpresa, per esempio, vedere ogni volta che queste persone salivano a bordo come ringraziassero di essere vive, cosa che a me non capita di fare la mattina quando mi sveglio. Sembrano “banalità”. Ma sono proprio queste “banalità” che io in questa attività a livello personale ho riscoperto. Ed era un po’ quello che volevo dire nel riprendere il pianto del bambino. Il pianto di un bambino è una immagine che purtroppo ormai suona solo come pietista, me ne rendo conto. L’elemento che ho sottolineato di quel pianto non è il pianto in sé ma il fatto che questo bambino che ha pochi mesi, che ancora non sa camminare ma già conosce la paura di morire e nel preciso istante, non so come ma capisce di essere in salvo smette immediatamente di piangere. La lezione di resilienza e di forza che queste persone hanno da insegnarci ma che noi come società tendiamo a non volere assolutamente ascoltare. Avere l’umiltà di capire che avremmo qualcosa da imparare da queste persone oltre che l’obbligo morale e di diritto che abbiamo di andargli incontro.
E a livello politico cosa racconta quel pianto? Che è giusto disobbedire a decreti che impediscono di salvare vite in mare?
Questa è la pratica che le Ong fanno in mare. Ong è diventato un acronimo antipatico, ma alla fine si tratta di persone, cittadini, della società civile in mare. Quell’acronimo parla di questo. Quello che si cerca di fare in questo momento è obbedire a una legge morale, umanitaria, oltre che a una legge scritta che è di gerarchia superiore rispetto al Decreto sicurezza e a qualsiasi legge italiana…
Vale a dire?
Il Diritto internazionale. Che nel nostro ordinamento interno è recepito direttamente. Questi sono termini tecnico-giuridici per dire che l’Italia ha deciso che la normativa interi trattati, che ha firmato, hanno un valore normativo superiore rispetto alla normativa interna e vengono direttamente recepiti, così come sono scritti, nel nostro ordinamento. Questo è quello che la politica si dimentica. Prima abbiamo parlato della lezione personale che ho tratto da quella esperienza diretta. Ma ci sono anche due lezioni politiche…
Quali?
La “battaglia navale” di cui ho parlato in quell’articolo, si può evitare. E c’è una responsabilità politica nel volere che continui a protrarsi in questo modo. Il fatto che ci sia la nave Ong che cerca di salvare qualcuno e poi viene chiamata ad andarsene in un porto a 1500 chilometri di distanza, nel frattempo agevolando la presenza e l’internazionale, vento dei libici con le motovedette della guardia di finanza italiana. Facilitando la loro attività di cattura e di respingimento delle persone in mare. Non solo. Con la sfacciataggine di farlo anche venendo meno ai principi fondamentali del soccorso. Le Ong che erano in mare questi giorni ci hanno raccontato che i libici si sono rifiutati di soccorrere persone cadute in acqua. E questa è la legge numero uno del mare tanto più se ti definisci e vieni definito da chi ti copre di soldi come una guardia costiera. E addirittura hanno minacciato l’uso della forza – e parlo di minaccia dell’uso della forza perché anche questo è un termine tecnico-giuridico nell’ambito del Diritto internazionale – contro una delle navi che stavano prestando soccorso. Quando si dice “sparare sulla Croce rossa”. Questo i libici hanno minacciato di fare quando la Geo Barents nell’osservare inerme la cattura da parte dei libici di un gruppo di persone in mare, ha fatto notare loro che alcune di queste persone erano in acqua. Sono stati cacciati, insultati malamente, e l’hanno anche minacciati di sparargli addosso. Queste sono condotte sanzionabili che però, come ricordavo nell’articolo, cadranno in quella che definisco l’istituzionalizzazione politica dell’omissione di soccorso. Politica e anche giuridica. Perché questo è il profondo significato del Decreto sicurezza: istituzionalizzare un crimine e criminalizzare quello che invece sarebbe un dovere giuridico, cioè l’obbligo di soccorso. C’è questa distorsione che a mio avviso questo Decreto determina.
E la seconda lezione?
E’ quella che mi porto dietro non tanto da attivista o da portavoce di Ong ma da cittadina italiana. E’ una domanda che ho anche posto nell’articolo, veramente onesta. Ma ci sembra normale che nel 2023 la prima priorità dell’anno del governo sia una decretazione d’urgenza per regolamentare la condotta della società civile in mare? Per sempre rimarrà nella storia che il decreto d’urgenza numero uno del 2023 riguarda l’assoluta necessità e, appunto, l’urgenza di normare la presenza della società civile in mare per soccorrere chi è in fuga dalla Libia e che le Nazioni Unite hanno definito vittime di crimini contro l’umanità. A me dà fastidio non come portavoce di Ong, dà fastidio e mi preoccupa molto come cittadina di un paese in cui credo che le priorità siano ben altre.

Fonte: Il Riformista