di Diego Zurli fonte@ umbria24.it/
Il sisma che ha interessato l’area a cavallo tra il Comune di Umbertide e quello di Perugia del 9 marzo, mi ha riportato alla mente quello del 29 aprile 1984. Quest’ultimo evento, aveva colpito un area assai più vasta con epicentro distante una decina di chilometri dal primo ma caratterizzato da una magnitudo maggiore. Memore dell’esperienza vissuta e dei molti altri eventi dei quali, a vario titolo, mi sono occupato, non ho resistito alla tentazione di curiosare tra le zone maggiormente colpite. In attesa di completare la stima dei danni e delle numerose valutazioni tecniche di rito, emergono fin d’ora alcuni aspetti e qualche analogia che meritano di essere brevemente commentate.
La gestione dell’emergenza Nel 1994, il sistema della protezione civile istituito dalla legge n. 225/92, dopo un lungo iter parlamentare durato 10 anni del disegno di legge promosso da Giuseppe Zamberletti, non era certamente quello di oggi. Ricordo con un senso di angoscia l’arrivo in piena notte delle roulottes trasportate dall’esercito e la spasmodica ricerca di un’ anima buona che mettesse a disposizione la propria macchina dotata di gancio di traino per posizionarle in prossimità delle abitazioni danneggiate. Oggi, la Protezione Civile è in grado di allestire un campo tende in poche ore, dotandolo di tutti i servizi, seguire ed affrontare l’evoluzione degli eventi, effettuare i sopralluoghi per verificare l’agibilità dei fabbricati, portare conforto e generi di prima necessità alle popolazioni anche grazie alla straordinaria capacità operativa delle migliaia di volontari che compongono la vera forza del sistema regionale di Protezione civile di cui l’Umbria può andare fiera. Davvero un altro mondo.
Gli effetti prodotti dal sisma Nella zona a cavallo dei due comuni, l’evento ha interessato gran parte degli stessi insediamenti colpiti nel 1984, siti in un areale di raggio distante qualche chilometro dagli epicentri delle scosse. Occorrerà attendere qualche giorno per conoscere i dati sulle abitazioni inagibili e, successivamente, una prima sommaria stima dei danni. La prima impressione è che l’evento abbia prodotto danni abbastanza diffusi, per lo più concentrati nelle zone prossime agli epicentri, ma non di gravità tale da rendere la gran parte degli edifici irrecuperabili. Non sembra inoltre siano stati registrati crolli, ad esclusione degli edifici collabenti: i danni maggiori, si sono verificati su edifici realizzati con murature di non eccelsa qualità o in edifici particolarmente vulnerabili come quelli dedicati al culto. Gli unici edifici in c.a. che hanno subito danneggiamenti strutturali, osservando alcune delle immagini pubblicate, sono quelli che presentano difetti costruttivi macroscopici come la mancanza di staffe nei nodi. E’ invece molto interessante osservare come la gran parte degli edifici che erano stati oggetto di interventi di riparazione o di ricostruzione dopo il sisma del 1984 o non hanno subito conseguenze o presentano lesioni piuttosto lievi alle strutture. Questo dato è significativo perché la gran parte degli stessi erano stati oggetto di interventi al tempo denominati di “riattazione”, riguardanti semplici e poco onerose opere di rafforzamento locale – così definite dalle norme tecniche 2018 – le quali, a distanza di anni, hanno più volte dimostrato di rispondere efficacemente alle sollecitazioni indotte dai numerosi sismi che si sono succeduti nel tempo, confermando come tali opere possano garantire un efficacia molto alta. Ricordando sempre e comunque che, scopo delle norme, è innanzitutto quello di proteggere la vita delle persone e non quello di scongiurare il rischio del danneggiamento. Il diverso grado di intensità dei due eventi sismici può inoltre produrre effetti al suolo molto diversi potendo gli stessi, come osservano gli esperti, essere influenzati da fattori assai variabili come le condizioni geologiche, morfologiche e geotecniche locali o fattori di amplificazione sismica come quello del cosiddetto “effetto catino”. Relativamente a tali aspetti, comunque, è meglio attendere i risultati delle verifiche in corso e, più che alle magnitudo calcolate, sarà soprattutto agli effetti al suolo che occorrerà fare riferimento (come il buon vecchio Mercalli – quello della “scala” – aveva già capito alla fine dell’800).
Quale modello per la ricostruzione Ad oggi non è dato di sapere se ci sarà una ricostruzione o, meglio, se questa sarà accompagnata da una qualche dotazione finanziaria. Molto dipenderà dal lavoro che le istituzioni ed in particolare la Regione sapranno compiere in queste prime settimane nella necessaria interlocuzione con il Governo centrale. Nel 1984 lo schema era molto semplice: mutuato dall’esempio della ricostruzione del Friuli Venezia Giulia e sotto la direzione politica di un eccellente assessore come Paolo Menichetti, furono previste due modalità di intervento – la cosiddetta “riattazione” e la riparazione/ricostruzione – in relazione al livello di danneggiamento ed a cui corrispondevano diversi massimali di contribuzione da parte dello Stato. Purtroppo, pur mantenendo il doppio regime applicabile ai danni lievi o a quelli gravi, ad ogni terremoto sono state associate procedure diverse, sempre più complicate e difficili da gestire. Il caso della ricostruzione post sisma 2016 ne rappresenta forse l’esempio meno felice; e solo grazie alla riconosciuta capacità – unita ad una notevole dose di pragmatismo – dell’ex commissario Legnini, incautamente rimosso dal nuovo Governo, si è finalmente riusciti sbloccare la ricostruzione privata. Certamente il modello prescelto per gli eventi sismici 2016 non è stato il migliore possibile per effetto della nomina di un commissario nazionale – in luogo del presidente della giunta – e per la gestione accentrata che ha sfavorito soprattutto le regioni più efficienti e organizzate, come l’Umbria, che avevano sempre dato ottima prova (introducendo per primi nel 1997 strumenti come il Durc e la Congruità poi estesi all’intero paese). La stessa scelta di istituire un Ufficio speciale per la ricostruzione imposta dal Governo Renzi nella pia illusione di governare da Roma processi di grande complessità che solo il protagonismo delle istituzioni locali e delle comunità possono affrontare con successo, ha rappresentato, a sua volta, un errore: perché i terremoti, come la storia sismica dell’Umbria e del Paese insegnano, non sono eventi speciali ma sono eventi ordinari che vanno affrontati con strumenti e modelli organizzativi stabili e funzionanti con continuità, radicati nel territorio.
Stato d’emergenza Concludendo, terminata la fase attuale, si aprirà la sfida più difficile che è quella di ottenere la dichiarazione dello stato d’emergenza, condizione indispensabile per poter beneficiare del contributo di autonoma sistemazione per coloro che non potranno rientrare nelle proprie abitazioni (date le caratteristiche dell’evento, escluderei con quasi totale certezza l’eventualità che si debba ricorrere alla realizzazione delle sae) e, ovviamente, delle risorse per la ricostruzione. Si tratta di una operazione che andrà affrontata con grande determinazione e con il massimo impegno da parte delle istituzioni. L’impedimento che potrebbe derivare da un provvedimento del Governo Monti del 2012 che, a quanto si legge, limiterebbe la possibilità di decretare lo stato d’emergenza solo in presenza di eventi con magnitudo superiori a 5, può essere superato dato che, in altri casi come il terremoto di Ischia del 2017, le magnitudo calcolate erano risultate abbondantemente inferiori a 4. E comunque, saranno gli effetti al suolo e i danni al patrimonio edilizio, e non l’automatico rispetto di parametri formali peraltro di non univoca determinazione, che alla fine peseranno sulla scelta finale. Superato questo primo ostacolo, si tratterà di capire con quali regole e procedure, affrontare la ricostruzione. Quelle utilizzate per gli eventi sismici del 2016, per quanto di non semplicissima applicazione, sono già state ampiamente sperimentate e possono essere facilmente estese anche a quest’ultimo evento non essendo certo immaginabile che un cittadino di Pierantonio, di S. Orfeto o di Piandassino, possa essere trattato diversamente da uno di Norcia o di Cascia. Come nel lontano 1984 – in condizioni assai più critiche di quelle di oggi – nel 1979 in Valnerina, nel 1997 nell’appennino umbro-marchigiano, nel 2009 a Spina di Marsciano, nel 2016 a Norcia e Cascia – solo per ricordare gli eventi maggiori – c’è comunque da augurarsi che le istituzioni, con il contributo di tutti, sappiano affrontare le difficoltà che certamente non mancheranno nella sfida continua volta a migliorare la sicurezza delle nostre città e del territorio, rendendoli più vivibili e più belli.