Nella stessa parte d’Europa scenario dell’attuale conflitto, dal settembre 1941 sino al febbraio 1943 un ragguardevole contingente di truppe italiane fu mandato a combattere contro l’Armata Rossa di Stalin. Per l’8a Armata italiana (ARMIR) fu una vera ecatombe di uomini e mezzi, un disastro strategico pagato a carissimo prezzo: 84.930 uomini fra morti, feriti, congelati, dispersi, oltre a circa 64.000 prigionieri, di cui solo 10.000 fecero ritorno in Patria dopo circa tre anni di inenarrabili patimenti nei “gulag” russi
di Augusto Lucchese
Nel prendere atto, con infinita tristezza e tanta preoccupazione, della tragica e devastante guerra motivatamente o meno avviata dalla Federazione Russa di Putin contro l’Ucraina, un pensiero attraversa la mente e sopravvengono profonde riflessioni.
Quasi certamente sono in pochi coloro che ricordano i tristi e funesti avvenimenti che in quegli stessi territori, nel periodo che va dal lontano settembre 1941 sino al febbraio 1943, segnarono il destino di un ragguardevole contingente di truppe italiane, all’inizio inquadrate nel CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) e poi nell’ARMIR (Armata Italiana in Russia), inviate a combattere, seppure in uno stato di inferiorità di armamenti e di dotazioni, contro l’Armata Rossa di Stalin.
Fu una tragica avventura, voluta da Mussolini per alterigia nei confronti del tracotante Hitler, organizzata alla meno peggio, con superficialità, pressapochismo e palese inettitudine, dallo Stato Maggiore del Regio Esercito dell’epoca.
Gli impreparati reparti delle Divisioni “Pasubio”, “Torino”, “Celere”, “Sforzesca”, “Ravenna”, oltre al Corpo d’Armata Alpino composto dalle divisione “Julia”, “Cuneense”, “Tridentina”, complessivamente 229.000 uomini, furono mandati allo sbaraglio senza l’occorrente equipaggiamento invernale, in zone di operazioni infide e difficili, in un territorio vastissimo e desolato, in condizioni climatiche avverse che per parecchi mesi si spingevano oltre i 20 gradi sotto zero.
A nulla valsero i vittoriosi, iniziali scontri di Gorlokova (l’odierna Horlivka), di Nikitovka, di Chazepetovka, né l’avanzata verso Stalino (l’attuale Donetsk, città principale di una delle Repubbliche filo russe del Donbass) dopo avere superato il Dnieper e conquistata Pavlograd e Dniepropetrowsk.
Come non ricordare, inoltre, l’eroica e leggendaria carica del Reggimento “Savoia Cavalleria” presso Isbuscensky (24 agosto 1942), sempre in quel bacino del Don oggi teatro di cruenti scontri fra ucraini e russi, condotta da circa 700 cavalleggeri che, sciabola in pugno, si lanciarono contro i russi forti di oltre 2500 uomini, vincendone la resistenza.
La presenza italiana in Russia fu caratterizzata da un lungo periodo di alterni combattimenti, di inumani sacrifici, di inenarrabili difficoltà logistiche che, tuttavia, sotto i duri colpi sferrati dall’Armata Rossa nel corso della decisiva controffensiva del dicembre 1942 e gennaio 1943, si tramutò, alla fine, in un disordinato ripiegamento.
A seguito della disastrosa fase finale degli accaniti combattimenti e dopo avere solo in parte evitato l’accerchiamento, per molti reparti divisionali italiani non rimase che il tentativo di porsi in salvo cercando di raggiungere le retrovie. Lunghe colonne di militari sbandati, in massima parte a piedi o con mezzi di fortuna, dovettero affrontare, nella infernale steppa russa, inumani marce per centinaia di Km, fra fango, neve e gelo.
In quei mesi, per inciso, nella non lontana Stalingrado (oggi Volvograd) si stava consumando la tragica fine (2 febbraio 1943) della 6° Armata tedesca del Feldmaresciallo Von Paulus.
Sommando le perdite dell’una e dell’altra parte (tedeschi, russi, rumeni, ungheresi, italiani, croati), solo in quella zona, fra l’ansa del Don e il Volga, si assommarono oltre due milioni di morti, feriti e dispersi, in aggiunta ai circa 600/mila prigionieri finiti in mani russe.
L’8a Armata italiana (ARMIR), praticamente annientata, non era più esistente come Unità organica combattente. I resti delle distrutte, pur se valorose, Divisioni italiane rientrarono in Italia nell’aprile – maggio del 1943. Fu una vera ecatombe di uomini e mezzi, un disastro strategico pagato a carissimo prezzo: 84.930 uomini fra morti, feriti, congelati, dispersi, oltre a circa 64.000 prigionieri, di cui solo 10.000 faranno ritorno in Patria dopo circa tre anni di inenarrabili patimenti nei “gulag” russi.
Gli anni sono trascorsi, ma ciò che sta accadendo in quella stessa parte d’Europa, sta a dimostrare che il sogno di una vera “pace mondiale”, vissuto dopo la carneficina della 2a guerra mondiale, si è ancora una volta infranto nell’impatto con una ben diversa realtà, programmata e gestita dalla bieca mentalità di taluni efferati “capi di Stato” (dell’una e dell’altra parte in lizza) che, giunti alla guida dei loro Paesi in virtù di più o meno legalizzate investiture, ne reggono le sorti privilegiando immondi interessi economici ed egemonici, formali affermazioni di principio, rivendicazioni territoriali, di razza o di etnie.
Trattasi di veri e propri tiranni, magari ammantati da assertori della democrazia popolare, assetati di potere e di ricchezza, dominati da diaboliche mire di predominio, insensibili ai pericoli e alle sofferenze cui espongono la società umana, indifferenti alle già gravose condizioni di vita di immense masse di popolazione ormai preda del vorace consumismo globale, impassibili al cospetto dei disastri e dei lutti che le guerre, talvolta da loro stessi fomentate, apportano.
Sono uomini crudeli che agiscono con arroganza, spesso con metodi diabolici e ingannevoli, succubi di proponimenti biasimevoli, magari facendo leva sulla forza bruta delle armi, minacciando apocalittiche ritorsioni, distorcendo a proprio uso e consumo gli accadimenti non sempre esaltanti del più recente periodo storico. I discorsi propagandistici, specie dinanzi alle telecamere, sono il loro paravento.
È gente che, di massima, non riesce ad accettare serenamente le mutazioni derivanti dall’evolversi delle situazioni geopolitiche e antropologiche di parecchie zone del martoriato Pianeta che ospita la ben poco “civile” società umana.
È uno sparuto drappello di incoscienti “grimpeur” della politica mondiale che sta facendo correre il rischio a miliardi di uomini di precipitare nella peggiore delle catastrofi: una eventuale 3a guerra mondiale dominata dall’impiego di armi nucleari.
Non rimane che sperare in un ritorno alla ragionevolezza di parecchi di tali inclassificabili “personaggi”, augurandosi che prevalga, alfine, l’inderogabile esigenza di ripristinare un clima di pace basato sul dialogo, sulla convivenza e sul reciproco rispetto dei valori fondanti della civiltà.