Il sistema Paese contro l’Autonomia Differenziata


Di Matteo Berta
Responsabile Territoriale Confedercontribuenti

Un mese di tempo, o giù di lì. È passato un mese di tempo da quando l’aula di Palazzo Madama,
spumeggiante del ventaglio di colori delle identità locali che si affacciavano dagli scranni della destra,
ha approvato il cd “DdL Calderoli”, ovvero la legge dell’autonomia differenziata, il dispositivo
legislativo che consente ai maggiori enti locali – le regioni – di poter legiferare in autonomia su 23
materie stabilite dalla riforma del titolo V del 2001. Il promoter della Lega, il ministro Calderoli, ha
sentenziato, tremolante e – quasi – in lacrime, di percepire la svolta storica. Probabilmente, lo stato
d’animo del ministro non si sarà modificato di tanto, quando ha visto che il sogno della sua vita ha
raggiunto il quorum necessario per il referendum abrogativo. Touché.
L’iter di approvazione del ddl è stato, fin da subito, piuttosto travagliato. La maggioranza, stretta
attorno al cavallo di battaglia dei seguaci di Pontida, ha silenziosamente acconsentito al varo di una
legge che, a detta del partito di Salvini, rafforzerà le autonomie e le identità locali, promuovendo
anche lo slancio economico, essendo le regioni libere, seppur parzialmente, di adottare i propri piani
strategici a seconda delle proprie necessità. La proposta, cannoneggiata dalle opposizioni, è stata
denunciata da subito di essere uno specchietto per le allodole, uno stratagemma, spacciato per
decentralizzazione, che acuirà le differenze tra le regioni, specialmente sul divario nord-sud, rendendo
insostenibile il sistema Italia.
Intanto, le venti tra signorie e feudi dei signorotti locali si organizzano: chi vuole impugnare la legge,
chi spinge sulle concessioni di autonomia. Poco importa se mancano i fondi necessari alla piena
attuazione, se ancora non sono stati stabiliti i LEP (ndr. i livelli essenziali di prestazione, che ogni
regione deve garantire prima di ottenere forme di autonomia su una materia) né i fondi, quelli statali,
per sovvenzionarli. La legge è ormai approvata.
Ironico, tuttavia, che sia stato raggiunto il quorum per la richiesta di referendum abrogativo – ovvero
il mezzo milione di firme – prima che siano stati effettivamente trovati i fondi attuativi.
Partiti di opposizione, sindacati, associazioni e terzo settore, uniti e pronti a sfondare il tetto di
cristallo della politica italiana. La politica fatta per strada, quella dove tra banchetti, volantini e la
nuova possibilità di firma online, è stato infranto un nuovo record e dove si sta cementificando un
nuovo modo di intendere le vie della democrazia. “Libertà è partecipazione”, no?
L’assestamento del mezzo milione di firme e la volontà di puntare al surplus del raddoppio creano,
almeno, due questioni politiche su cui un minimo di analisi critica, da tutte le parti, è necessaria.
In primis, sui rapporti di forza tra il principale partito di governo con i suoi alleati, o più precisamente,
sul modo in cui questi rapporti producono atti politici direttamente traducibili sul mondo reale.
Quanto conviene, a Meloni, sostenere i suoi alleati nelle battaglie a cui sono tradizionalmente
ascrivibili? Sono battaglie universalmente condivisibili o, al contrario, troppo geo localizzate – più
che nello spazio, nel tempo – per essere affini ad una politica di governo nazionale? O ancora, quanto
queste battaglie – in vista anche dell’imminente riforma della giustizia, che accarezza il sentimento
forzista – possono compromettere lo storytelling che Meloni, e il suo governo, sta cercando di far
passare nel paese nel solco di una traslitterazione del concetto del “there is no alternative” su base
personalistica o, comunque, partitica? Perché, being Earnest, mezzo milione di firme raggiunte in
due settimane non può che fare male. Anche solo a livello di linea narrativa. D’altronde, tentare
un’alleanza strutturata basandosi solamente sul rispetto dei reciproci dividendi non ha aiutato
Berlusconi nel ’94 e, mutatis mutandis, non aiuterà Meloni adesso.
In secundis, le forze parlamentari, ovvero i partiti eletti, le principali bocche del legislatore,
dovrebbero cominciare a interrogarsi sull’importanza che le forme di democrazia partecipata stanno incassando negli ultimi anni. Soprattutto, sull’importanza di canalizzare al meglio i bisogni di una
popolazione sempre più eterogenea, che non si sente rappresentata dalle forme tradizionali dei partiti
di massa, forse ancora troppo ancorate a logiche novecentesche. Se non è rappresentata, figuriamoci
se si sente ascoltata. Se si deve fare la tara sui cinque quesiti referendari sulla giustizia proposti
qualche anno fa, sconfitti platealmente dall’astensionismo di una giornata di villeggiatura, si può
calibrare al meglio sulle proposte più richieste o dibattute, su quelle che creano più fermento presso
l’opinione pubblica, sul passaparola fisico e, principalmente, sui social, su quelle proposte avanzate
dal basso. In tal senso, siamo sicuri di voler ignorare, come società civile o come organici ai partiti,
le proposte su eutanasia e cannabis legale, smontate dai cavilli tecnici della Corte Costituzionale? O
i referendum contro il Jobs Act proposti dalla CGIL? Quanto incidono queste tematiche nella tenuta
della corrispettività parlamentare? Quali flussi smuovono nella società reale?
D’altro canto, queste forme possono essere anche interpretate come un segnale di buona salute –
relativa – della nostra democrazia. L’astensionismo imperante non si traduce – automaticamente – in
annientamento dell’adesione alla res publica ma in un diverso modo di intendere il proprio impegno
nel proprio paese. Associazionismo, entità culturali e circoli intellettuali, nuovi canali digitali,
stakeholder e promotori contribuiscono, oggi più che mai, a rendere più variopinto il nostro panorama
sociale e, quindi, politico.
Un buon segnale per la proliferazione del dibattito, sano e civile. Al contempo, una red flag enorme
per la Politica, con la p maiuscola.
Anche perché, lì dove ci sono voci non ascoltate, nasce la mortificazione dei progetti e
l’annichilimento politico. E dove la politica non arriva, arriva il populismo, oppure il conflitto sociale.