IL SENSO DELLA REALTÀ


Di Ernesto Galli della Loggia

Cultura e giudizi Sciocco negare che esiste l’islamofobia. Ma non viene usato un termine analogo a parti invertite
In un recente articolo sul Corriere mi sono soffermato su un carattere a mio giudizio dominante della situazione culturale e politica del nostro continente: la fortissima difficoltà che ha l’europa attuale, in particolare le sue classi dirigenti e politiche, a pensare il Negativo. A pensare che possa esistere il male, l’avversario; e di conseguenza la difficoltà dell’europa ad accettare la possibilità che esista un qualunque conflitto incomponibile (ad esempio quello sui valori) o di quella sua massima espressione che è la guerra. No: su tutto può esserci l’accordo o il compromesso: basta volerlo. Ovvio come tutto ciò si traduca in una conseguenza drammatica: nella perdita del senso della realtà, nel non riuscire più a pensare il mondo com’è e non già come vorremmo che fosse.
Ad aggravare le cose capita che una tale interdizione a pensare la realtà abbia ormai trovato la sua sanzione perfino nell’uso delle parole, nel vocabolario. Nella martellante diffusione di termini che servono per l’appunto a stigmatizzare diciamo così preventivamente l’orientamento del pensiero in una certa direzione. Di termini che servono a immunizzare preventivamente la società dal pensare il negativo aiutandola a nasconderlo, a non vederlo. E così, ad esempio, evocare certi aspetti dell’islam — veri, intendiamoci, non inventati o manipolati ad arte — viene definito sic et simpliciter come islamofobia.
Con il sottinteso di qualcosa di malato, di fissazione patologica che un simile termine implica. Allora è evidente che diviene difficile non solo discutere ma perfino conoscere una realtà pure così importante della scena contemporanea. Se ad esempio, a proposito delle proteste contro l’immigrazione appena verificatesi in Gran Bretagna sfociate in gravi disordini e violenze con indubbi contenuti razzisti contro persone e istituzioni islamiche, qualcuno ricorda anche, però, l’enorme impressione lasciata in quel Paese dallo scandalo di Rotherham — una cittadina dello Yorkshire dove proprio per paura di essere considerate «islamofobe» polizia e autorità locali si rifiutarono per anni di indagare su centinaia di abusi sessuali commessi da immigrati asiatici di fede musulmana ai danni di giovanissimi bianchi poveri di ambo i sessi, molti dei quali ridotti in schiavitù e avviati alla prostituzione (una ricostruzione dettagliata del fatto con l’esito dell’inchiesta seguitane è sul sito web del Guardian digitando «Rotherham») — ripeto: se si ricorda anche un simile fatto nella sua enorme gravità per spiegare (spiegare, non giustificare!) i disordini di cui sopra, si fa dell’islamofobia o no? Qual è insomma il confine superato il quale finisce la liceità — che si spera che nessuno osi mettere in discussione — dell’analisi e del giudizio, e comincia davvero l’islamofobia?
L’uso disinvolto del termine islamofobia da parte del mainstream dell’opinione che conta e di molti media autorevoli, rimanda direttamente all’applicazione sempre più generalizzata del criterio dei due pesi e due misure che da noi come un po’ in tutta Europa e in tutto l’occidente è ormai la regola. Ad esempio: l’uccisione di una donna in Italia ha forse uno spazio sulla stampa e produce un’eco mediatica lontanamente paragonabili a quello che ha la quotidiana privazione dei diritti, la minorità sociale, spesso la selvaggia persecuzione fisica, che colpisce milioni di donne in quasi tutti i Paesi islamici? Il che accade — particolare non dappoco — per la ragione addotta dai loro stessi persecutori che così vorrebbe, essi dicono, l’etica dell’islam. Bene: ma quando in uno dei tanti talk televisivi si depreca la nostra «cultura patriarcale» a quanti dei presenti (a quante soprattutto), viene in mente di osservare che quella che ancora alligna in questa parte del mondo fa semplicemente ridere rispetto a ciò che accade in gran parte dell’islam? È permesso pensare che in questo clamoroso voltarsi dall’altra parte c’entri qualcosa la paura che suscita l’accusa di islamofobia che aleggia in permanenza intorno a noi? Che il timore che incute quella parola impedisca di vedere le cose come stanno?
L’islamofobia certo esiste come pregiudizio culturale in tutte le sue forme possibili, sarebbe sciocco negarlo. E di sicuro in essa si può manifestare il razzismo bell’e buono. Ma, ripeto, ciò che colpisce è non solo l’uso genericamente intimidatorio che si fa del termine nel discorso pubblico ma l’assenza dell’uso di un termine analogo per fenomeni identici ma con attori diversi, magari a parti invertite. Di nuovo colpisce il chiudere gli occhi di fronte alla realtà, non voler vedere il male e rifiutarsi di dargli il suo nome. Anche qui un esempio: in Europa, in Occidente, nella terra dell’islamofobia è tuttavia rarissimo — per fortuna! — l’aggressione fisica e ancor più l’uccisione di un islamico in ragione del suo credo religioso. Viceversa, in quasi tutto l’islam con rarissime eccezioni, ai cristiani non solo è ufficialmente vietato l’esercizio del loro culto (in barba a non so quante dichiarazioni dell’onu sui diritti umani: qualcuno ha mai protestato?), ma in alcune sue parti — nell’africa subsahariana per citarne una — i cristiani sono costantemente in pericolo di vita a motivo unicamente della loro fede. Negli ultimi anni, in quei luoghi, i cristiani arsi vivi, seviziati, massacrati, si contano a decine e decine. Ebbene, che cosa si direbbe in Europa se qualcosa di pur pallidamente simile succedesse da noi? Altro che islamofobia! E invece forse ricordo male ma non mi sembra di aver mai visto o sentito a proposito dei crimini di cui sopra usare il termine quanto mai appropriato di cristianofobia. Mai. E allora bisogna una buona volta chiedersi: Perché? Perché non siamo più capaci di guardare in faccia la realtà, di dare il loro nome alle cose? Di che cosa abbiamo paura? E magari cercare di darsi una risposta.

Fonte: Corriere