Il ruolo del Mezzogiorno per rivitalizzare l’economia europea


di Amedeo Lepore

L’attenzione dell’opinione pubblica internazionale si rivolge alle tensioni politiche e al riassetto geoeconomico di un mondo sempre più difficile da comprendere. L’economia è uno snodo cruciale per l’interpretazione di un’epoca inedita della storia umana. Ma è anche il campo operativo per il dispiegamento di cospicui investimenti, come ha sottolineato il direttore del Mattino Roberto Napoletano a proposito dell’opportunità euromediterranea da cogliere per Napoli e il Mezzogiorno.

In questi giorni, l’Economist ha titolato un rapporto molto articolato: “L’ordine internazionale liberale si sta lentamente sgretolando”, aggiungendo che il suo collasso potrebbe essere improvviso e irreversibile. Leggendo quest’analisi è possibile farsi un’idea dell’intricata serie di temi che sottintendono alla costruzione di un nuovo ordine economico globale.

A uno sguardo d’insieme, l’economia mostra indicatori rassicuranti – con un Pil cresciuto del 3% nel 2023 – nonostante i conflitti bellici e commerciali in atto e il rallentamento del ritmo della globalizzazione. Tuttavia, un esame più approfondito fa emergere la debolezza del quadro generale, come conseguenza di un’erosione progressiva, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, della regolamentazione sorta a Bretton Woods per riannodare le relazioni economiche internazionali del dopoguerra. Secondo l’autorevole settimanale anglosassone, la disintegrazione del vecchio ordine è percepita diffusamente. Infatti, le istituzioni finanziarie (e non solo) alla base del sistema hanno perduto credibilità; le sanzioni sono impiegate quattro volte di più rispetto agli anni Novanta; il sostegno statale alle produzioni verdi di Stati Uniti e Cina ha innescato una “guerra dei sussidi” tra diversi Paesi; i flussi globali di capitale hanno iniziato a frammentarsi, ramificando le catene di creazione del valore.

Del resto, una volta cominciato il declino, il cedimento di un equilibrio consolidato può accadere senza preavviso. La prima globalizzazione di fine Ottocento, che sembrava durasse a lungo, è terminata repentinamente con l’avvento della prima guerra mondiale. La fase del neoliberismo, che veniva giudicata inarrestabile, si è interrotta bruscamente con l’avvio della crisi economica del 2007-2014; la pandemia e la guerra, poi, ne hanno aspramente decretato la fine. Oggi si può immaginare una rottura analoga, a causa di un ritorno della “visione del mondo a somma zero” di Donald Trump, ma anche per effetto di una seconda ondata di importazioni cinesi a basso costo e di un’estensione dei conflitti ad America e Cina per Taiwan o a Russia e una porzione più ampia d’Europa.

Eppure, la globalizzazione, insieme ad aspetti controversi, ha dato impulso a trasformazioni profonde e a un’efficace interdipendenza mondiale, che dovrebbero scoraggiare nuove ostilità e chiusure economiche. Lo scenario che si prospetta sarebbe necessario non si discostasse, come ricorda l’Economist, da un tragitto grazie al quale centinaia di milioni di abitanti della Cina sono sfuggiti alla trappola della povertà mentre il continente asiatico si immergeva nell’economia globale, il tasso di mortalità infantile in tutto il mondo è sceso a meno della metà di quello dei primi anni Novanta, la quota di popolazione annientata dalle guerre ha raggiunto il minimo postbellico al principio di questo millennio. Il processo di globalizzazione unito a una condizione di lunga pace ha permesso ad alcuni Paesi arretrati di assumere il ruolo di potenze economiche nascenti, avvantaggiandosi dell’ordine economico e dei traffici mondiali per colmare il divario con i Paesi più avanzati.

L’inversione di queste tendenze e il rischio di un “grande scollamento”, a causa dell’allargamento dei focolai di crisi e della mancanza di un sistema regolatorio internazionale, rende più ardue le sfide di questo secolo, che vanno dall’indirizzo dei progressi nell’intelligenza artificiale e nell’innovazione tecnologica, alla promozione della bioeconomia circolare, alle sinergie da realizzare nella nuova economia dello spazio, al contenimento della corsa agli armamenti, fino all’orientamento dei flussi migratori e della crescita demografica. In questo contesto, per Fabio Panetta, l’economia europea è “particolarmente esposta alle conseguenze di una frammentazione del commercio mondiale”, date le sue connessioni produttive e finanziarie globali, la sua dipendenza dall’importazione di risorse naturali e dalla domanda estera.

Nonostante l’Europa per oltre un quarto di secolo abbia tenuto il passo con gli Stati Uniti in termini di incremento del Pil pro capite, la quota della UE nell’economia globale sta riducendosi più velocemente di quella americana. Mentre gli USA rappresentano un quarto circa dell’economia globale, l’eurozona ne equivale a circa un sesto. A parere di un esperto quale Daniel Gros, per rafforzare la collocazione geopolitica europea, bisogna “rivitalizzare l’economia”. Un altro economista come Barry Eichengreen ritiene che occorrano idee innovative per il potenziamento dell’Europa.

Tra i rimedi indicati dal governatore della Banca d’Italia, infine, vi sono la partecipazione europea alla riconfigurazione delle filiere produttive globali, che costituisce un’occasione per rilanciare l’economia del Mezzogiorno attraverso “politiche di attrazione dei capitali”, e, in generale, una forte espansione degli investimenti pubblici e privati. Per questa ragione, l’Italia e il Sud devono essere pienamente parte di una prospettiva di ripresa del progetto europeo. Il Mezzogiorno può sviluppare un nuovo protagonismo, come indicato su queste colonne, se sarà in grado di acquisire sul campo la fiducia degli investitori globali e di perseguire concretamente la conquista dello spazio economico tra l’Europa e il Mediterraneo.

Libertà Eguale