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Dall’Europa dell’Est all’Italia, Marco Balzano abbraccia l’epopea delle badanti

Corriere della Sera 7 marzo 2021

di Cristina Taglietti

Marco Balzano è narratore di partenze, di abbandoni, di strappi dolorosi, di ritorni e di radicamenti. Movimenti da fermo, incastonati nei titoli, quasi a voler congelare una tematica che diventa ossatura narrativa ma anche visione del mondo, osservazione lucida delle forze che governano i rapporti e le scelte: Pronti a tutte le partenze, L’ultimo arrivato, Resto qui e, ora, in uscita da Einaudi, il nuovo romanzo, Quando tornerò, sono tutte storie di sradicamento quotidiano dove le origini non sono mai astratto mito fondativo, neppure quando (in Resto qui, secondo al premio Strega 2018) lo scrittore affronta un luogo e un periodo come il Sud Tirolo annesso all’Italia dopo la fine della Prima guerra mondiale, simbolo di una Realpolitik che vuole spostare confini e rimodellare uomini.

Partito dagli anni CinquantaSessanta con L’ultimo arrivato

(Sellerio, 2014), romanzo d’esordio sull’emigrazione minorile del secondo dopoguerra, quando molti bambini del Sud, come il protagonista Ninetto, vennero mandati al Nord in cerca di lavoro (libro gli è valso il premio Campiello), lo scrittore approda qui a un altro tipo di migrazione, quella delle badanti dell’Est Europa. È attraverso di loro che si interroga sui temi cruciali della società contemporanea: l’aspettativa di vita che si allunga, il bisogno di assistenza di tante persone anziane e sole, le famiglie che si scompongono e ricompongono in formazioni diverse, l’idea stessa di che cosa significhi essere genitori e figli.

Balzano distribuisce la narrazione in tre prime persone narranti: figlio, madre, figlia, a cui dà pesi e tempi diversi. A raccontare la prima versione della storia è Manuel, quindicenne rumeno che una mattina, con il padre Filip e la sorella Angelica, scopre che la madre, Daniela, senza preavvertire nessuno, ha fatto le valigie e se n’è andata dalla casa nel paese vicino alla Moldavia dove vivono.

«Ho trovato lavoro in Italia, devo andare, altrimenti non potrete più studiare e nemmeno mangiare come si deve», lascia scritto su un sintetico biglietto in cui promette di mandare soldi e di stare via poco. Ma quando sarà la sua voce a parlare, chiarirà i contorni di un progetto studiato a lungo: «Scappai una notte di febbraio. Da giorni, appena restavo in casa da sola, correvo a tirare fuori la valigia dall’armadio, la aprivo sul letto e dentro ci mettevo le canottiere e i pigiami. Li stiravo tra le mani, così occupavano meno spazio. Misi tutti i maglioni che avevo, perché Clarissa al telefono ripeteva che anche a Milano faceva freddo». L’italiano imparato guardando i video su internet e le notizie online, ascoltando le canzoni di Vasco Rossi e di Zucchero, quel tanto che basta per dire ai vecchi che si assistono e ai loro figli le parole semplici dei gesti elementari dell’accudimento.

È lei lo specchio di Manuel e, in modo più sommesso, Angelica. Gli eventi vengono raccontati con un montaggio accorto di voci e tempi e Balzano esplora la terra di mezzo che si apre tra le due versioni della stessa storia: da una parte il lavoro di Daniela con persone anziane e con i figli che glieli affidano, le notti passate in camerette appartenute a qualcun altro, le poche ore libere da trascorrere con altri connazionali nei parchi di Milano; dall’altra le videochiamate e i messaggi vocali, con il tempo sempre più stanchi («adesso, anche attraverso gli schermi dei cellulari, si vedevano solo le nostre facce deluse»), i soldi che arrivano per la scuola, le ricariche, il cibo, le felpe, le lezioni saltate di nascosto, i lavori da fare alla casa che il padre presto abbandona, trascinandosi in una routine di alcol e incontri di wrestling guardati alla tv.

Un racconto che molti hanno sentito in presa diretta, ascoltato spesso nelle parole di donne reali entrate e uscite dalle famiglie italiane e che Balzano ha raccolto personalmente, anche visitando in Romania le scuole e le comunità degli «orfani bianchi», i figli lasciati indietro, affidati in patria a nonni, parenti o a chi capita.

«Passa sotto la nostra casa qualche volta,/ volgi un pensiero al tempo che eravamo ancor tutti» dicono i due versi tratti da Il duro filamento di Mario Luzi che Balzano, insegnante e poeta, pone come esergo di questo romanzo che comprime gli anni in uno scorrere veloce e ben simboleggia lo scarto tra intenzioni e realtà, i giorni diventati mesi e poi anni in una ripetitività che li rende tutti uguali, triturando anche gli eventi straordinari.

Governato dalla prosa asciutta e realistica, cucita su misura dei personaggi, a cui Balzano ha abituato i suoi lettori, il romanzo restringe sempre più i rivoli, adagiandosi nel letto principale del rapporto madre-figlio a cui gli altri personaggi — il marito, Angelica, i genitori, i vecchi e i bambini per cui Daniela lavora a Milano — finiscono per fare da contorno. Succede quando un incidente in motorino manda Manuel in terapia intensiva. La madre torna in Romania ma, pur seduta accanto al ragazzo addormentato, si lascia dominare da un’altra lontananza che si impone, quella dell’ospedale e insieme del non sapere. Non sapere perché sia successo l’incidente, che cosa sia passato nella mente del suo ragazzo in quegli anni vacanti.

Battagliando con i medici e gli infermieri per non cedere la sedia su cui è seduta, ultimo ancoraggio di un affetto che ha perso il nodo della quotidianità («a volte mi diceva “mi sento orfano”» le rivela Angelica), lei cerca di raccontargli la sua parte, anche se lui non può sentirla. È così che il lettore conosce la storia e la malattia che afflige anche Daniela.

È il «mal d’Italia», come gli psichiatri dell’Est Europa ormai definiscono la depressione che colpisce chi resta per anni lontano da casa e dai figli per accudire gli anziani o i figli degli altri. Eppure, riflette Daniela, «meglio non saperli i nomi dei nostri guai, meglio consolarsi con l’idea che la sorte è crudele, il fato avverso, Dio troppo distratto da problemi più grandi».

Solitudini e dolori, stereotipi, scatti d’ira e slanci d’affetto, rabbiosi come il bisogno da cui nascono, rimbalzano da un Paese all’altro, dall’Est Europa all’Italia cambiando, a tratti e solo per un attimo, le sorti delle persone. Come il vecchio Giovanni che a seconda di come gli gira la chiama «bella gioia o puttana di una rumena». Come Elena con cui una volta i ruoli si invertono e per un giorno è lei a curare la badante immobilizzata dal mal di schiena.

Balzano registra quei gesti e quelle parole, quelle inversioni. Come un piccolo, inesorabile archivista della contemporaneità setaccia il presente e si incarica ancora una volta di raccogliere frammenti di umanità, di salvare dagli ingranaggi del sistema persone, scelte e destini.