Il piccolo Graal del gran crociato


Le imprese del condottiero pupillo di Federico II Fino al miracolo Guido Guerra e la reliquia del Latte della Madonna portata in città

Di Vanni Santoni

Le torce dei cittadini pur restando accese per ore non consumarono neanche mezza oncia di cera. Poi arrivò la scienza a smantellare le credenze del popolino
Essendo Montevarchi, in fondo, una cittadina industriale, esplosa solo a partire dal Settecento e poi dall’Unità d’Italia, abbiamo sempre patito un certo qual deficit di leggende, ed è forse per questo che insistiamo così tanto sulla «pianta medievale perfettamente conservata del centro», sul nostro scheletro di mammuth (un po’ come Zerocalcare con quello conservato, invece, a Rebibbia) o col farlocchissimo «Gioco del Pozzo», che va a inserirsi nella sterminata pletora di similpalî spuntati nel secondo Novecento in ogni cittadina toscana, come scusa per metter su qualche sbandieratore e un corteo in costume.
Ma almeno una leggenda buona, indiscutibilmente medievale, certamente avventurosa e pure misticheggiante, l’abbiamo pure noi: è quella di Guido Guerra, il gran crociato che riportò in città la reliquia del Latte della Madonna. Non un cavaliere da poco: de’ Conti Guidi e pupillo di Federico II; poi capo di Parte Guelfa e difensore di Faenza, solo ventitreenne, dall’attacco del suo ex mentore; infine Capitano Generale della Santa Sede e bestia nera degli aretini. Gli mancava giusto la conquista d’una reliquia per passare agli annali in modo indiscutibile, e ciò avvenne quando rientrò col Latte della Madonna. Sebbene la leggenda che ancora circola a Montevarchi la vorrebbe riportata dalla Terra Santa a sprezzo di molti e a volte fantasiosi pericoli, come si conviene a una vera quète, tra mostri, saracini e cavalieri neri a sbarrargli ogni volta il passo, la verità storica la indica consegnata direttamente dal Re di Francia come premio per la vittoria nella Battaglia di Benevento del 1266.
Così le fonti: «Il Conte Guido della cospicua Famiglia de’ Conti Guidi […] che portò il soprannome di Guerra […] avendo molto contribuito col suo valore e dell’invitto Squadrone de’ Guelfi da lui guidati […] fu quegli che di tanto tesoro arricchì la sua diletta Terra di Monte Guarchi. Si vuole che dal suddetto Carlo, o dal fratello di lui San Lodovico Re di Francia, gli fosse proposto di domandare qual più degna ricompensa ei bramasse del suo servigio, sicuro di ottenerla. E chiesto da lui tempo a rispondere, domandasse una porzione del Sacro Latte di Maria Vergine».
Sappiamo bene come ai tempi esistesse un vasto commercio di reliquie e che, come ebbe più volte a suggerir Boccaccio sottotraccia, a sommare tutte le «piume d’arcangelo» in giro per l’Europa medievale si potrebbero ricomporre le schiere angeliche per dieci volte almeno, e che risultasse parimenti curioso che del latte umano, ancorché d’impronta divina, avesse potuto conservarsi per due secoli e mezzo. Ma questo di certo ai montevarchini, così vogliosi d’un loro mito di fondazione, non interessava troppo. Anzi: alzar dubbi poteva risultare offensivo, se non proprio segno di sospetta aretinità.
Tanto più che all’arrivo del condottiero col suo piccolo Graal, ci fu puntuale anche il miracolo: usciti i cittadini da Montevarchi per andare incontro alla reliquia, tutti dotati di torce (Guido Guerra arrivò infatti di notte), presto notarono che quelle, pur restando accese per ore, non consumavano neanche mezz’oncia di cera; un miracolo, questo, che si sarebbe ripetuto varie volte per le ostensioni successive, almeno fino al diciassettesimo secolo. Data forse non casuale, poiché coincide con la crescita di Montevarchi in quanto centro commerciale, prima — col mercato dei cavalli — e poi industriale; e quindi, meno propensa ad antiche rievocazioni e idolatrie.
Nel frattempo sarebbe arrivata pure la scienza, sempre pronta a smantellare le credenze del popolino, e avrebbe appurato che l’esile e quasi impercettibile crosticina bianca sedimentatasi sul fondo del reliquiario, e su parte delle pareti dell’ampolla, sarebbe stata, più che latte umano liofilizzato, la forma solida del cosiddetto latte di monte o latte di luna, materiale pastoso di colore bianco, costituito da cristalli di grandezza micrometrica di materiali vari — principalmente calcite, idromagnesite e gesso — e propenso, per la sua natura, ad attrarre o espellere umidità a seconda delle condizioni atmosferiche, trasformandosi così da sostanza secca in sostanza cremosa (e in alcuni casi lattigginosa), e viceversa.
In effetti, la storia ci racconta che, scovata una buona riserva di cotal curioso materiale, l’imperatore di Costantinopoli Baldovino II avrebbe donato, o meglio venduto, al re Luigi di Francia tutta una serie di reliquie del Latte della Madonna (una è tuttora conservata alla Sainte-Chapelle parigina) e financo una «Verissima Corona di Spine», nel tentativo di rastrellare fondi e aiuti militari atti a riconquistare territori
perduti per mano dei Veneziani durante schermaglie minori avvenuti a margine della Quarta Crociata… Tutto ben documentato, assolutamente probabile, e quasi certamente vero… Ma il montevarchino, in fondo, lo sa, che l’unico Latte della Madonna vero è il suo, e quelli falsi son quelli altrui, specie se francesi — e sa pure che il Guido Guerra ficcato da Dante all’Inferno, nel Girone dei Sodomiti, doveva certo essere un omonimo: del discorso dantesco ci teniamo solo l’altro pezzetto, quello in cui si parla d’uomo che «in sua vita fece assai: col senno, e con la spada».

Fonte: corriere fiorentino