In questo sintetico prospetto del pensiero di Emanuele Severino ho inteso tracciare le sole linee essenziali di un discorso filosofico che si mostra fondamentalmente compatto: al suo centro sta la questione della verità dell’essere e al centro di questo centro sta la tesi dell’eternità dell’essente in quanto essente, e quindi di ogni essente, che è implicata dalla struttura originaria della verità.
Di Giulio Goggi
L’eternità dell’essente
Il motivo dominante del discorso di Severino viene per la prima volta formulato nel saggio del 1956 La metafisica classica e Aristotele:
La negazione del divenire scaturisce immediatamente dall’autentico principio di Parmenide: l’essere è. Se l’essere diviene – se il positivo sopraggiunge – l’essere, prima di sopraggiungere, non era: ed è appunto questo l’assurdo, o è appunto questa la definizione dell’assurdo: che l’essere non sia. […]. Tutto è necessario, allora.
Severino, La metafisica classica e Aristotele, in Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 117-118
L’affermazione che gli essenti escono dal proprio nulla e vi ritornano implica che si pensi un tempo in cui l’essente è nulla (quando l’essente non era ancora e quando non sarà più), ossia il tempo in cui l’essente è l’assolutamente altro da sé. L’impercorribile assurdo è appunto questa identificazione dei non identici. La tesi della necessità e quindi dell’eternità di tutto ciò-che-è viene ripresa e sviluppata ne La struttura originaria (1958, 1981, 2004, 2012), testo al quale lo stesso Severino rinvia come al luogo della più concreta presentazione dell’essenza del fondamento. Il nucleo teorico viene così sintetizzato:
Risiede nel significato stesso dell’essere che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza e dell’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza).
Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 517
La non separabilità dell’essenza (quale che sia l’essenza che si consideri) dalla esistenza (e cioè dal non essere un nulla della qualsiasi essenza considerata) è la stessa affermazione dell’eternità dell’essente in quanto essente.
L’alienazione dell’Occidente
- a) In Ritornare a Parmenide (1964) si fa innanzi la consapevolezza che la testimonianza inaudita della verità dell’essere esige il tramonto di tutte le forme del pensare e dell’agire della civiltà occidentali, guidate dalla persuasione che l’esistenza delle “cose” non sia necessaria:
La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci.
Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 19
In un passo del De interpretatione di Aristotele – laddove lo Stagirita afferma che è necessario che l’essere sia “quando è”, e che non sia “quando non è – Severino trova la formulazione più chiara del tramonto del senso dell’essere. Ecco il suo commento:
Il discorso aristotelico […] ponendo che quando l’essere è, è, e quando non è, non è, dice dunque che quando l’essere è il nulla, allora è nulla; e non si accorge che il vero pericolo dal quale ci si deve guardare non è l’affermazione che, quando l’essere è nulla, sia essere (e, quando è essere, sia nulla), ma è l’acconsentimento che l’essere sia nulla, cioè l’acconsentimento che si dia un tempo in cui l’essere non è il nulla (quando è) e un tempo in cui l’essere è nulla (quando non è), cioè l’acconsentimento che l’essere sia nel tempo. In questo modo il “principio di non contraddizione” diventa la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall’essere.
Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 22
- b) Nel Poscritto di Ritornare a Parmenide (1965) Severino spiega che il succedersi degli eventi, in cui l’esperienza consiste, non appare come un venire ad essere e un cessare di essere, ma come un comparire e uno scomparire dell’essente:
Questo corpo brucia e a questo corpo si sostituisce la sua cenere: l’apparire non attesta altro che una successione di eventi: il pezzo di carta bianca, l’avvicinarsi della fiamma, la fiamma che cresce, un pezzo di carta più piccolo e di forma diversa, una fiamma più esile, un pezzo ancora più piccolo e di forma ancora diversa, la cenere. Ad ogni evento ne succede un altro, nel senso che un secondo evento incomincia ad apparire quando il primo non appare più. Ma che ciò, che non appare più, non sia nemmeno più, questo l’apparire non lo rivela […]. La comprensione veritativa del divenire, che è contenuto dell’apparire, rileva […] il silenzio dell’apparire circa le sorti di ciò che non appare. E se queste sorti sono taciute dall’apparire come tale, esse sono svelate […] dalla verità dell’essere che […] dice che l’essere è è non può non essere e resta eterno presso di sé.
Severino, Poscritto, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 86-87
In altri termini, l’esperienza non attesta un incremento o un decremento dell’essere, ma soltanto che qualcosa – di cui il logos vede l’essere eterno – incomincia ad apparire e cessa di apparire.
Il significato di Ritornare a Parmenide
Parmenide ha sì affermato l’eternità dell’essere, ma ne ha insieme alterato il senso perché ha ritenuto di dover pensare che le molteplici differenze dell’essere (ossia l’essere nel suo concreto determinarsi) non abbiano verità e cioè non siano:
Ritornare a Parmenide significa ripetere il «parricidio», senza divenire colpevoli dinanzi alla verità dell’essere: ripetere la fondazione del molteplice […] affermando di ogni ente, e della concreta totalità degli enti, ciò che Parmenide affermava dell’essere: «È impossibile che non sia».
Severino, Risposte ai critici, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 315
Il tentativo di Platone di portarsi oltre Parmenide è andato fuori bersaglio: dopo aver salvato le differenze, ossia le molteplici determinazioni di cui facciamo esperienza, spiegando che esse non significano “nulla” (ciascuna di esse è infatti un qualcosa che è), egli ha continuato a concepirle come oscillanti tra l’essere e il non essere, con ciò lasciando che cadessero preda del non essere. Il gesto di Platone – il parricidio mancato – ha aperto la dimensione all’interno della quale si muove l’intera storia del pensiero occidentale che è storia della alienazione del seno dell’essere. Si capisce allora che il “ritornare” a Parmenide, di cui parla Severino, non va inteso come un imperativo, bensì come un invito a ripensare la fondazione del molteplice che non lo consegni di nuovo all’abbraccio mortale del non essere.
Fonte: emanueleseverino.it/