Il manifesto politico di Giuseppe Conte


di Xavier Mancoso

Aiutateci a ripartire”. Aiutateci a mettere in sicurezza il Paese portandolo fuori dalla pandemia, a rimarginare la ferita inferta dal “grave gesto di irresponsabilità di chi ci ha gettato in una condizione di incertezza”.

È l’appello che conclude i 56 minuti di intervento di Giuseppe Conte davanti alla Camera dei deputati. Un appello accompagnato dalla promessa di “rafforzare la squadra di governo”, dall’offerta del ministero dell’agricoltura, dall’impegno di dare la delega per i servizi segreti “a persona di mia fiducia”.

Nel suo discorso Conte ha usato poco politichese, ha detto con chiarezza che la crisi aperta da Renzi (mai nominato) in una fase cruciale per il Paese, causata dalla pandemia, non ha “alcun plausibile fondamento”, una crisi che prima di esplodere si è trascinata per mesi con tante energie “dissipate in contrappunti polemici spesso sterili: continue pretese, critiche incalzanti, rilanci”. Quindi “non si può cancellare quel che è accaduto, si volta pagina”.

La svolta consiste nel linguaggio usato da Giuseppe Conte che, per la prima volta, si propone come capo politico di uno schieramento e detta la linea: la formazione di un asse M5S, PD e LEU sulla base di una chiara scelta di campo europeista contro le derive nazionaliste e le logiche sovraniste, con “l’arricchimento” di “forze parlamentari volenterose”, del “contributo politico delle più nobili tradizioni democratiche: europeisti, liberali, popolari, socialisti”.

È stata l’abiura definitiva dell’alleanza giallo-verde del Conte-uno, l’individuazione di un campo che prefigura l’impostazione non solo dell’eventuale Conte-tre, ma anche della prossima campagna elettorale, sia che arrivi fra due anni che fra due mesi.

Dopo la rivendicazione dei risultati ottenuti dal Conte-due, dai rapporti con l’Unione Europea al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), cioè il Recovery plan italiano, dalla massa dei “ristori” ai bonus per l’edilizia e la riconversione energetica, il discorso di Conte è diventato l’esposizione di un programma di legislatura che rappresenta un vero e proprio manifesto politico.

Un programma che ha toccato tutti i nodi dello sviluppo: lavoro, salute, energia, politiche industriali, terzo settore, politiche di genere, riforma fiscale, digitalizzazione, cultura e turismo, legge elettorale “di impianto proporzionale”, riforma del Titolo V della Costituzione soprattutto nel rapporto Stato-Regioni,  ritocchi all’assetto istituzionale per conciliare centralità del Parlamento ed una più spedita forma di governo, anche per ridimensionare il ricorso eccessivo alla decretazione d’urgenza, politica estera incentrata sull’Europa e l’alleanza con gli USA, ma senza escludere la Cin e l’impegno nel quadro regionale per la stabilizzazione e lo sviluppo dell’aera mediterranea.  Il premier ha ricordando gli impegni internazionali che attendono l’Italia nel 2021, a comiciare dalla presidenza del G20.

Così Conte alla Camera, tra i frequenti applausi dei suoi sostenitori ed i soliti schiamazzi e cartelli dell’opposizione. È risultato molto chiaro che nella prospettiva indicata dal premier non c’è posto per Italia viva. Non è chiaro, invece, chi potrà puntellare, con i numeri in questa fase, con un apporto politico se il governo riuscirà a proseguire il suo percorso.

Dopo il dibattito in aula, nel quale ciascuno ha ripetuto stancamente le sue posizioni, la replica di Conte, che ha colmato alcune lacune dell’intervento iniziale, come il nuovo presidente americano Biden (col quale, ha detto, mi sono lungamente sentito al telefono anche in vista del G20 e il Sud (“siamo stati accusati – ha detto – di essere anche troppo meridionalisti”, ma il riequilibrio territoriale è necessario per far ripartire l’intero Paese) . Quindi le dichiarazioni di voto e la votazione palese per appello nominale che ha confermato la fiducia al governo con 321 voti favorevoli, maggioranza assoluta dei componenti della Camera dei deputati.

Stamattina, martedì 19 gennaio, si replica a Palazzo Madama ed è lì, in Senato che la vicenda vedrà la sua scena madre: a meno di colpi di scena clamorosi in un senso o nell’altro, grazie all’astensione di Renzi (complicato star dietro alla logica del senatore di Rignano) la mozione di fiducia al governo prenderà la maggioranza dei votanti ma, a differenza di quanto avvenuto ieri alla Camera, non otterrà la maggioranza assoluta di 161 senatori.

Pensiamo che l’intenzione del governo sia quella di andare avanti, come altre volte è avvenuto nel passato, pur avendo in una delle due camere (se davvero al Senato le cose andranno come abbiamo previsto) soltanto la maggioranza relativa. e cercare in seguito, nel breve periodo, di rafforzare la sua consistenza numerica  nel voto sui singoli provvedimenti, magari puntando ad erodere la compattezza, già malferma, di Italia viva e delle componenti centriste.

Il Presidente della Repubblica non può opporsi ad un programma così risicato. Se non ci saranno sorprese, l’Italia avrà da stasera un governo forse meno diviso, ma certamente più debole.