Il capolavoro di Luchino Visconti, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, andato in onda su Rai Uno in occasione del 60°, a distanza di tanti decenni non ha perso il fascino di una grande opera cinematografica
di Franco La Magna
Da oltre sessant’anni si discute sull’indefinibile natura del romanzo; da circa mezzo secolo sulla <<mutilazione temporale>> arrecata al film da Visconti. E la disputa esegetica dura tuttora. L’autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 – 1957) – rampollo dell’antica famiglia aristocratica dei principi di Lampedusa, duchi di Palma e di Montechiaro ha vissuto buona parte della sua vita nella natia Palermo, dove è prematuramente deceduto colpito da carcinoma. Due anni dopo la morte dell’autore il romanzo venne premiato con lo <<Strega>>, il più importante premio letterario nazionale. Dopo l’approvazione delle leggi razziali Tomasi di Lampedusa nel ’38 diventerà antifascista. Dunque <<Il Gattopardo>> è un romanzo storico, metaforico, mitologico, allegorico, metafisico? Disseminato di più o meno celati riferimenti agli anni ’30, il complesso romanzo di Giuseppe Tomasi contiene elementi mitologico-allegorici (tra i tanti, il principe don Fabrizio è descritto, ricorda Silvano Nigro, come un <<Ercole farnese>>, simbolo delle virtù eroiche dei Borbone), ma anche storici (il veloce passaggio di Garibaldi, che con una sola vera battaglia – Calatafimi – sbaraglia l’esercito borbonico in Sicilia) e ancora metafisici (la ricerca d’una regione di <<perenne certezza>>). Insomma un’opera che sembra intenzionalmente costruita per sfuggire a corrive catalogazioni. E pretestuosa, dal punto di vista editoriale, appare l’infinita polemica con Vittorini, che coerentemente ne rifiuta la pubblicazione ponendo un veto ideologico, vista la <<militanza>> della collana da lui diretta (<<I Gettoni>> di Einaudi). Il romanzo, come è noto venne poi pubblicato da Feltrinelli su suggerimento di Giorgio Bassani.
A fronte dell’opera letteraria, la rivisitazione storica risorgimentale compiuta dal Gattopardo di Luchino Visconti (uscito nelle sale il 26 marzo 1963), giunge nel panorama filmico italiano apparentemente come un fulmine a ciel sereno in mezzo a tanta commedia, film <<peplo>> e crescente comicità demezial-vacanziera. In realtà Visconti sposta ancora più indietro le lancette della storia, rispetto alla rinnovata crescita d’attenzione alle troppo presto obliate tematiche resistenziali, entrate perfino nell’ottica della commedia.. Maestoso, sontuoso, quasi tattile affresco del periodo risorgimentale, con Il Gattopardo Visconti affronta gl’irrisolti temi del penoso e contorto processo unitario nazionale, insieme al <<malinconico>> tracollo dell’antica aristocrazia legittimista di fronte all’ascesa di un nuovo, spregiudicato e corrotto, ceto politico dirigente nato dal compromesso e già affetto da inguaribile tartuferia. <<Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi>>, la celeberrima frase dell’astuto e avveduto nipote del principe di Salina, Tancredi, riassume il senso del trapasso da uno ad altro periodo storico, individuando il nucleo dell’aberrante costante della storia siciliana. Dopo aver definito <<reazionario>> il romanzo << a dieci anni dai suoi primi commenti, Sciascia era costretto ad aggiungere che “in un punto il Principe di Lampedusa aveva avuto purtroppo ragione e non torto: che in effetti la costante della storia siciliana (e si può dire della storia nazionale) è il cambiar tutto per non cambiare niente. Questa profezia che allora mi irritava ora in un certo modo mi affascina come tutte le cose fatali, inevitabili; dolorosamente mi affascina” >> (v. M. Freni, “Leggere il Gattopardo”). Al Visconti del Gattopardo, critico e tutt’altro che decorativo, la materia letteraria di Tomasi di Lampedusa fornisce non pochi spunti profondi per una rivisitazione dell’infelice universo <<siceliota>>: Sicilia come <<mondo offeso>>; Sicilia come spazio fisico della <<rivoluzione borghese mancata>> e della <<rivoluzione tradita>>; Sicilia narrata rigettando le facili tonalità dell’epico e le superficialità cronachistiche, ma altresì gli stessi grandiosi miti della storia. Il tutto visto con uno sguardo aristocratico e distaccato e con l’apporto di una mai celata cultura figurativa, che riduce i vincitori a caricature dell’ideologia e miserabili raffigurazioni di camarille e tartufi, mostrati senza reticenze con un corposo <<disprezzo del presente>> che alla fine rischia di smarrire ogni dialettico movimento della storia.
<<Solo Visconti, comunista e aristocratico, poteva con tanta sottigliezza dosare il grado di scetticismo e di poetica nostalgia del principe di fronte alle questioni sociali e politiche dell’epoca…E’ il film di Visconti più equilibrato, più misurato, più puro e più accurato…>>[1]
Ma come aveva già fatto con La terra trema (1948), spezzando il cupo fatalismo verghiano con l’applicazione di un impianto ideologico di derivazione gramsciana, Visconti costruisce lo sfarzoso Gattopardo ancora sulla tesi gramsciana del Risorgimento come <<rivoluzione mancata>>, accordo scellerato tra aristocrazia declinante e rapace borghesia agraria (che sognava l’imprimatur del <<sangue blu>> e s’inventava discendenze patrizie, come fa penosamente don Calogero Sedara), avverso le secolari rivendicazioni contadine riaccese dal passaggio di Garibaldi e subito deluse. Di contro, estetismo, decadentismo, intimismo, ossessiva presenza della morte, acclarano la <<sintesi paradossale>> di un film commercialmente fruttuoso (circolò nelle sale per 3 anni e mezzo) e tuttavia talmente dispendioso da provocare il momentaneo tracollo della Titanus, costretta per qualche anno ad una produzione di <<b-movies>> e poi risorta a conferma delle straordinarie capacità imprenditoriali di Goffredo Lombardo. Nonostante le critiche favorevoli (alcune addirittura osannanti e i molti premi ricevuti (oltre alla Palma d’oro anche tre Nastri d’argento e il David al produttore Lombardo) accompagnate da successo di pubblico clamoroso – nella stagione ’62/’63 con un incasso di 774 milioni di lire si piazzò al primo posto assoluto – Il Gattopardo fu la causa (insieme a Sodoma e Gomorra) della momentanea debacle della casa di produzione Titanus. “Con questi due film perdemmo a quell’epoca più di cinque miliardi – racconta Lombardo ne “L’avventurosa storia del cinema italiano” – ma io non rimpiango di aver fatto nessuno di questi due film. E Il Gattopardo lo adoro”. Da un budget iniziale di circa un miliardo e mezzo si passò infatti ad uno di finale di oltre 3 miliardi, quindi più che raddoppiando la spesa prevista. Ben cinque furono i mesi di lavorazione.
<<Giuseppe Tomasi di Lampedusa…fu cambiato tutto, fece dire ad uno dei personaggi del suo racconto, per non cambiare nulla – dice lo storico siciliano Francesco Renda. Ma di vero in questa frase c’è solo la suggestione letteraria. Quanto al resto è una interpretazione metodologicamente sterile, improduttiva di conoscenza, anzi distorsiva della realtà>> (F. Renda). Scenograficamente <<abbagliante>>, rivisitazione spettacolosa dell’infelice universo <<siceliota>> Il Gattopardo vanta un grande il cast per uno dei più grandi film mai prodotti: Burt Lancaster (principe don Fabrizio di Salina), Alain Delon (Tancredi), Claudia Cardinale (Angelica), Rina Morelli (principessa di Salina), Serge Reggiani (Ciccio Tumeo), Romolo Valli (padre Pirrone), Lucia Morlacchi (Concetta), Pierre Clémenti, Giuliano Gemma, Mario Girotti (Terence Hill), Maurizio Merli, Lou Castel, Ottavia Piccolo.
Tra le spese folli volute da Visconti quella dei fiori probabilmente resta una delle più incredibili: il regista pretese infatti che i fiori arrivassero in aereo quotidianamente da San Remo. Inoltre le decine e decine di comparse impiegate nella scena del ballo furono costretti ad indossare quotidianamente guanti perfettamente puliti. Inevitabilmente il sudore prodotto dalle mani, poiché il film venne girato in piena estate in massima parte a Palermo e per alcuni interni a Roma, sporcava leggermente i guanti. Una leggera ombratura che la macchina da presa di certo non avrebbe evidenziato. Ma per Visconti questa sarebbe stata un’imperdonabile imperfezione. Richiese allora perentoriamente nei pressi di Palazzo Gangi si creasse una lavanderia con una cinquantina di addetti!.
Singolare la scelta di operare una radicale elisione di tutta l’ultima parte del romanzo – che ha termine nel 1910, anno in cui si estingue la dinastia dei Salina e <<tutto trova pace in un mucchietto di polvere livida>>. Viceversa, il film chiude nel 1862 con il grande ballo organizzato a palazzo Ponteleone, spettacoloso suggello dell’accordo tra aristocrazia latifondista e retriva borghesia isolana (storicamente entrambe colluse con la mafia) e placet <<piemontese>>. Soppressione, dunque, proprio di quegli ultimi capitoli che Tomasi di Lampedusa considerava la chiave di lettura del libro. Nel 2002 il regista siciliano Roberto Andò ha girato Il manoscritto del principe, <<reinvenzione>> degli ultimi quattro anni di vita dello scrittore palermitano, che racconta l’infedeltà del maestro nei confronti dell’allievo “non aristocratico”. Come afferma lo stesso Andò smentendo << d’essere un autore che si nuove esclusivamente nel letterario. Contrariamente a questa credenza nel Manoscritto del principe…pur essendo al centro della narrazione il personaggio di uno scrittore, non vi era alcun debito verso il romanzo…si trattava di uno spunto biografico, reinventato per ricostruire con libertà gli ultimi quattro anni di vita di Tomasi di Lampedusa…>.
In occasione del 60° il film è stato riproposto dalla RAI con l’aggiunta di dodici minuti di film tra i quali in particolare viene mostrata la sequenza in cui dove Don Calogero, interpretato da Paolo Stoppa, parla con i contadini per cercare di placare gli animi di rivolta, promettendo loro delle terre dopo il plebiscito. L’aritocratico-comunista Visconti elimina in fase di montaggio uno dei passaggi più cupi della storia risorgimentale, ossia la mancata quotizzazione delle terre da distribuire ai contadini preludio di quella più radicale vittoria del <<mostruoso blocco agrario>> che per molti decenni terrà l’isola ancora inchiodata a rapporti feudali, determinandone in buona parte l’arretratezza e dando vita all’ancora irrisolta <<questione meridionale>>, quindi al fenomeno del c.d. <<grande brigantaggio>>, una vera e propria strage che si sarebbe potuta in buona parte evitare con una politica più liberale. E per restare nel cinema italiano basti qui ricordare lo scioccante e smitizzante, Bronte: Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1971) regia di Florestano Vancini basato sulla novella <<Libertà>> di Verga, priva di precisi riferimenti geografici, con qualche particolare artatamente falsato e su un’attenta monografia di Benedetto Radice, storico locale[2], sconvolgente approdo di una ricerca rimasta in parte inesplorata. Un esecrando episodio di oppressione militaresca compiuto da Nino Bixio, discutibile protagonista del Risorgimento rivisitato in chiave critica, conclusosi con un efferato e gratuito eccidio[3]. Secondo stime ufficiali circa 12.000 morti, vale a dire qualcosa come il doppio delle tre guerre d’indipendenza messe insieme.
La bassa qualità dell’immagine esalta ancor più lavoro fatto sulla copia restaurata. La versione integrale del film in italiano è infatti andata perduta. Sul Gattopardo esiste un documentario di tredici minuti di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, I due gattopardi (2013), che ricostruisce le complesse vicende che precedono la trasposizione cinematografica del romanzo sul grande schermo, ne sottolinea la splendida infedeltà all’opera letteraria e contiene, inoltre, anche alcune sequenze tagliate o limate dallo stesso Visconti utilizzate per la presentazione al festival di Cannes e mai più rimontate. Tra queste alcune sequenze della battaglia di Palermo, il sogno del principe tormentato dal tradimento della moglie con due prostitute, un dialogo tra Sedara e Tancredi una scena girata nelle soffitte di Donnafugata e infine quella (incredibilmente tagliata) di Don Calogero Sedara e i contadini che conversano in francese. Mentendo spudoratamente e sapendo di farlo (con l’ennesimo inganno che già si perpetrava a danno dei poveri braccianti) Don Calogero ribadisce uno strano concetto di democrazia (allora si votava per censo) e promette ai contadini che fatta l’Italia avranno finalmente la terra. Una promessa che nessun governo nazionale ha mai mantenuto.
[1] A. Moravia, <<L’Espresso>>, 7 aprile 1963.
[2] B. Radice, Nino Bixio a Bronte, in <<Archivio storico per la Sicilia Orientale>>, anno VII, fascicolo I, 1910.
[3]Dopo un ridicolo processo sommario, vera e propria mostruosità giuridica priva delle più elementari procedure di difesa, Nino Bixio fece fucilare cinque <<rivoltosi>> tra cui l’avvocato Nicolò Lombardo, che tutti i testimoni, rimasti inascoltati, avevano scagionato ed indicato come elemento moderato che in realtà aveva agito per placare i tumulti. Perfino un povero demente, tale Nunzio Ciraldo Fraiunco, colpevole d’aver suonato un tamburo di latta gridando <<Viva la libertà, viva Garibaldi>> e rimasto in vita dopo la prima scarica dei fucili, fu ucciso subito dopo con il <<colpo di grazia>> da un ufficiale, su ordine di Bixio. Lo stesso generale cacciando un servitore del Lombardo, che recava con se delle uova come ultima cena del povero avvocato, aveva detto: <<Non ha bisogno di uova. Domani avrà due palle in fronte<<. Nella novella <<Libertà>> il matto Fraiunco è ricordato da Verga come il <<nano>>, evidentemente per nascondere in parte l’enormità del crimine compiuto.