IL FANTASMA D’ITALIA


Perché torna sempre Aldo Moro nella nostra tv. Banco di prova per attori, eterna autoanalisi della sinistra. Ma quando passa da Cannes a Rai 1, “Esterno notte” di Bellocchio diventa metà film d’autore e metà fiction civile che sfida il Gf Vip
Andrea Minuz

Su Twitter “Esterno notte” diventa stringente attualità, specchio delle ultime polemiche social, riposizionato nell’“agenda Lucarelli” Diventa un po’ anche il nostro “The Crown”. I due pubblici sono del resto intercambiabili. L’ossessione per la somiglianza e i sosia Sono sorprendenti i richiami, le analogie subliminali, il pazzo gioco di specchi tra questo Aldo Moro e “Boris IV” su Disney Plus Sarebbe il caso di aggiornare le strategie di comunicazione e lancio (il promo era agghiacciante, uno dei rari casi in cui il trailer è peggio del film)
Leggendola a caldo, verso la fine di quel funesto 1978, Sciascia e Arbasino riconducevano la vicenda Moro alle connotazioni più tipiche dell’ideologia italiana. Alle costanti nazionali, ai corsi e ricorsi, a certe nostre antichissime tradizioni addirittura precristiane, come la tattica di “Fabio Massimo il Temporeggiatore” o la “studiata indecifrabilità dei responsi sibillini” che riecheggia nelle sedute spiritiche per scovare Moro, finendo poi a cercarlo intorno al lago di Bolsena. E poi su, fino ai grandi affreschi dei “Promessi sposi”, del “Gattopardo”, dei “Malavoglia”. Riadattato ora come serie televisiva nell’epoca di Netflix, ma con molti spot e lancio promozionale di Amadeus in coda ai “Soliti Ignoti”, il Moro di Bellocchio vive anche di analogie col presente, sfide all’ultimo share col “GF Vip” e fantasmi di vecchi democristiani che ritornano come meme sui social. “Esterno notte” si era visto a Cannes o al cinema, sprofondati nella liturgia dei festival o della sala, col dovuto rigore contemplativo. Ora si segue in double-screen, facendo zapping sulla generalista e scrolling su Twitter. Quindi tutto un traffico di trame e sottotrame che si inseguono tra il covo di via Gradoli e i reclusi della “casa” di Signorini, tra gli incontri segreti di Berlinguer e Moro e la nuova guerra fredda nei talk-show, tra il manichino di Meloni a testa in giù e i cori delle manifestazioni nei cattivissimi seventies, “cloro al clero, diossina alla Dc e piombo tetraettile all’msi!”.
Non è cambiato granché. Si trovano però anche nuovi sbocchi e analogie impensabili. Su Twitter “Esterno notte” diventa un “affaire Moro” di stringente attualità, specchio delle ultimissime polemiche social, quindi riposizionato sui temi dell’ “agenda Lucarelli”, mandato in tendenza come “Effetto notte”, facendo un po’ di confusione con Truffaut, ma che importa. Cossiga che si vanta del suo curriculum, le cinque lingue e la fulminante laurea in Giurisprudenza presa a diciannove anni, viene subito messo a confronto con le smorfiosità dell’influencer Carlotta Rossignoli e la “laurea record” in Medicina piena di ombre. Moro-gifuni che parla di questo benedetto governo da fare coi comunisti s’abbandona al latino, sospirando “Gutta cavat lapidem”, ed è subito sponda con un altro loop della cronaca, l’affaire Montesano e il fascistissimo, “Memento audere semper”, subito vivisezionato sui social da falangi di aspiranti filologi, cultori del Vate e della Decima Mas e storici amatoriali della Marina militare. Quando poi, nella prima puntata, una madre anziana avvicina Moro sul sagrato della chiesa di Santa Chiara, implorandolo di aiutare il figlio che s’è laureato ma non trova lavoro, ci si stupisce che il presidente non risponda, “signora non si preoccupi, non leveremo il reddito di cittadinanza e chi lo tocca se la vedrà con noi” (nel dubbio parte un dibattito sulle indubbie aperture del Moro di oggi ai Cinque stelle).
Sarà insomma la vitalità. Sarà l’estrema adattabilità del fantasma di Moro. Sarà che abbiamo ancora negli occhi il giuramento dell’ultimo governo e i malumori per i sottosegretari, come con l’andreotti IV, che giurava quella mattina della strage in via Fani, e che Bellocchio racconta con sintesi fulminea (“ti abbiamo messo al ministero dell’agricoltura”; “ma io sono primario di radiologia”; “la vita nei campi è tutta salute”). Sarà anche che D’alema è in tour con un libro sul suo viaggio a Mosca con Berlinguer e alle presentazioni si confonde e dice “Pci” anziché “Pd”. Sarà che lo stesso Bellocchio dice d’aver immaginato questo nuovo Moro, diciannove anni dopo quello di “Buongiorno notte”, incuriosito da quella fotografia sulla spiaggia di Maccarese, con Moro in giacca e cravatta, tirata fuori nell’estate del 2018 in chiave anti-papeete, trasformando Moro in santino di compostezza, rigore e resistenza al caldo torrido, quindi anche modello d’ispirazione per i prossimi anni di riscaldamento globale. Sarà per tutti questi motivi che il Moro di Bellocchio, il primo dei tanti Moro cinetelevisivi pensato nell’epoca di Netflix, diventa un po’ anche il nostro “The Crown”. I due pubblici sono del resto intercambiabili. Il piglio per le polemiche “ancora vive” e l’ossessione per la somiglianza e i sosia (una piaga di quest’epoca che spiega anche gli ascolti stellari di “Tale e quale show”). E poi il ditino sempre alzato a sorvegliare la “fedeltà ai fatti” o, al contrario, a sottolineare la mancanza di trame oscure, complotti, conti che non tornano e mezze verità, una di quelle “costanti antropologiche” del caso Moro cara a Arbasino. Il sospetto cioè che dietro a qualcosa che funziona debba sempre esserci una mente non italiana (“quando un’azienda presenta dei risultati efficienti dal punto di vista tecnico e delle consegne, la gente dice che ‘ci dev’essere sotto’un piccolo imprenditore di Conegliano o di Cantù; quando invece tutto funziona efficientemente e tecnicamente in una impresa di tipo terroristico o militare, ‘ci devono essere dietro degli stranieri’”).
Però con questo Moro l’esperienza è più straniante. Tutti quei bisbigli, quelle penombre, quei simbolismi, quella recitazione stilizzata, insomma tutte quelle cose che funzionano bene a Cannes e forse reggono su Netflix, su Rai 1 funzionano un po’ meno. La cifra “arthouse” di “Esterno notte” entra in cortocircuito con l’effetto-brand della rete ammiraglia. Intorno a Moro s’addensano gli spettri di Montalbano, Don Puglisi, Mina Settembre, l’amica geniale, l’imminente Generale Dalla Chiesa con Castellitto, e tutto il cinematic universe di Rai Fiction, eroi civili, magistrati, giudici, carabinieri, finanzieri, parroci, imprenditori contro il pizzo, madri coraggio. Un magazzino di facce e storie e eroi-martiri già visti. Il Moro di Gifuni è anche un po’ il De Gasperi di Gifuni, in “L’uomo della speranza”, vecchia fiction di Rai 1. L’andreotti di “Esterno notte” è anche un po’ Toni Servillo che fa Andreotti nel “Divo”, nel frattempo promosso papa da Bellocchio. E quando Moro-gifuni trascina la croce sotto lo sguardo severo dei suoi compagni di partito sarà “portentosa metafora”, sfrenata immaginazione, colpo di genio del Maestro, oppure una costola del “Gesù” di René Ferretti, dalla quarta stagione di “Boris”?
Sono in effetti sorprendenti i richiami, le analogie subliminali, il pazzo gioco di specchi tra questo Moro e “Boris IV” su Disney Plus. Nella nuova stagione gli sceneggiatori pigri devono accontentare il perfido algoritmo della multinazionale che sorveglia la stesura del progetto, una micidiale “Vita di Gesù”, con Stanis La Rochelle protagonista e molte comparse calabresi volute dal capocosca Zio Michele. L’algoritmo però pretende anche una sottotrama “teen”, come nelle migliori serie Netflix. Gli sceneggiatori riprendono quindi un vecchio soggetto di René sulla lotta armata in Italia, “Anni Settanta”, progetto scomodo, scartato più volte dalla rete, ora riadattato alla vita del giovane Gesù, coi palestinesi-leninisti che si danno alla clandestinità per sfuggire ai romani. Ma c’è anche la metamorfosi del comico Nando Martellone, colonna di “Boris”, celebre per l’immortale claim, “bucio-de-culo”. Ora è ingaggiato come Zaccheo, messo sopra un finto sicomoro, in una Gerico molto striminzita, circondato da una piccola folla di calabresi. Zaccheo dovrebbe portare, non si capisce perché, un po’ di leggerezza al racconto di Gesù, stemperando i toni pomposi e l’inclinazione a strafare del divo Stanis. Ma al momento di girare la scena Martellone è strano, diverso, ha persino cambiato voce. Confessa a René che è stanco del personaggio del comico trucido. D’accordo col suo agente ha intrapreso un “percorso”. Vuole essere preso sul serio. Vuole diventare un attore d’impegno civile. Vuole “diventare Fabrizio Gifuni”, andare in tour a teatro a “leggere Pansa e Pasolini”. Tutto torna. Biopic religioso e dramma civile. Un Gesù tirato fuori dagli anni di piombo, con Nando Martellone che vorrebbe essere Gifuni, e un Moro cristologico ricalcato su Gifuni, emblema del nostro attore tragico, dolente, versatile, ammirato e rispettato da tutti.
Figlio di un segretario della Presidenza della Repubblica sotto Scalfari e Ciampi, Fabrizio Gifuni era del resto destinato a personaggi di caratura istituzionale. E’ stato Aldo Moro per Marco Tullio Giordana (“Romanzo di una strage”), è stato Aldo Moro a teatro con uno studio sulle lettere e il memoriale, è il Moro di Bellocchio che ora assomma su di sé tutti gli altri Moro, in un repertorio che va da Volonté a Herlitzka, peraltro anche lui finito dentro “Boris”, prima stagione, in un formidabile cameo. Aldo Moro è ormai metro, cifra, misura della capacità mimetica dell’attore italiano in quota impegno civile. Si va ai provini nelle scuole di recitazione portando il memoriale al posto del monologo di Amleto.
“Esterno notte” passa certamente agli atti come impresa ambiziosa, anche per giustificare il canone in bolletta. Ma nel passaggio da “capolavoro a Cannes” a “serie-evento su Rai Uno”, diventa anche un oggetto inclassificabile. E’ un film da Festival, è una serie, è una cosa a meta tra una fiction Rai con le ombre e le nuche e un film per la tv in tre parti, o un vecchio “sceneggiato”, com’è sfuggito a qualche recensore, facendosi prendere un po’ troppo la mano dai Settanta. C’è poi il solito problema di questo tipo di operazioni, che è un limite cronico del cinema italiano. Come mai a Hollywood riescono a catturare l’attenzione degli spettatori di tutto il mondo su qualsiasi tema, complotto, trauma anche molto minore e oscuro della storia americana passata e recente mentre qui si fatica ad arrivare a chi non è anagraficamente toccato dalla vicenda? Anche con questo “Esterno notte” c’è, come sempre con film del genere (e su Moro in particolare), la sensazione di essere capitati per caso in una seduta collettiva di autoanalisi, con sbarramento generazionale agli anni Settanta. Non siamo stati invitati, ma ormai siamo lì, vediamo cosa dicono. E il discorso procede per allusioni, strizzatine d’occhio, magari anche “spiegoni” che recuperano il contesto, ma buttati lì senza gran convincimento, affidati a un cartello, lo facciamo perché dobbiamo farlo, ma lo sappiamo tutti che le cose sono più complesse di così. Un ottimo alibi per non provare neanche a spiegarle (in modo avvincente, si capisce). Film o serie, o serie-evento come “Esterno notte” sono l’equivalente di quelle lezioni universitarie con il professore che ogni cinque minuti ripete l’inciso, “come tutti sappiamo…”, mentre va avanti col discorso, senza porsi mai il problema se chi ha di fronte lo sappia davvero. Sono film a forma di regolamento di conti della sinistra di quegli anni e del suo gigantesco inconscio, tra ex-maoisti, avanzi del Pci, di Lotta Continua, del variegato marxismo-leninismo all’italiana più o meno armato e rivoluzionario. “E’ ormai una storia che ci si racconta tra noi”, come ha scritto Dipollina su Repubblica.
E a catturare quella fetta di pubblico nata magari dopo l’11 settembre, che di fronte a quelle portentose allegorie si domanda, “ma alla fine perché hanno rapito Moro? Che volevano?” non ci si prova neanche (peggio per voi che siete ignoranti e andate dietro agli influencer). Bisognerebbe però addentrarsi nella nebulosa del termine “terrorismo”, buono sempre e ovunque e per tutto, spiegando casomai che il nostro paese visse per oltre dieci anni una situazione politica pre-rivoluzionaria i cui detriti e discorsi arrivano fino a oggi, e del resto molti slogan che si sentono nei cortei son sempre quelli.
Si sarebbe allora potuto sfruttare “Esterno notte” per l’ennesimo lancio di Rai Play, ancora percepita come uno sgabuzzino, il magazzino di viale Mazzini dove finiscono i prodotti dopo il passaggio televisivo. “Esterno notte” in esclusiva su Rai Play come “House of Cards” su Netflix. Una serie che trascina con sé una nuova percezione della piattaforma. Un prodotto di grande qualità che si distingue dalla fiction generalista delle prime serate. Del resto, “Boris IV” serve proprio a spiegare al pubblico italiano che su Disney Plus non ci sono solo Bambi, Biancaneve o la Sirenetta. Visto che di Moro ne vedremo ancora parecchi, sarebbe forse il caso di aggiornare quantomeno le strategie di comunicazione e lancio dei prodotti (il promo passato sulla Rai era agghiacciante, uno dei rari casi in cui il trailer è molto peggio del film). E poi chissà, magari un giorno si potrà sperimentare proprio sulle piattaforme anche un Moro più “inclusivo”, come in “Boris IV”. Un Moro ripensato dall’algoritmo. Per un pubblico globale. Coi personaggi messi “a norma”, Andreotti fluido, Cossiga nero, Berlinguer cinese e i brigatisti tutti molto “queer”, equamente ripartiti in ogni possibile minoranza, dentro una galassia comunque più chiara e definita rispetto alla sinistra extra-parlamentare di quegli anni.

Fonte: Il Foglio