L’inizio dell’“operazione speciale” in Ucraina è stato una sorpresa per la maggior parte dei commentatori, compresi quelli che erano stati più critici nei confronti del regime di Putin. Nonostante i numerosi avvertimenti, a nessuno sembrava possibile che il Cremlino stesse davvero preparando una guerra, perché si dava per scontato che sarebbe stata disastrosa per gli interessi della leadership e per l’intero paese. Sia gli interessi economici dell’élite al potere, che ha soldi, proprietà, figli e parenti in occidente, sia lo sviluppo dell’economia russa, pienamente integrata nei mercati globali, sono stati danneggiati da un’avventura militare senza precedenti. Non vedendo alcuna logica nel comportamento della classe dirigente russa, che si pensava fosse più interessata all’appropriazione che alla distruzione, molti hanno cercato di spiegare la guerra con qualche mania dei governanti russi. Le cause della catastrofe sono state inizialmente individuate o in un disturbo mentale del presidente, o nell’influenza di certe idee bizzarre, attinte forse dalle filosofie di Ivan Ilin o Aleksandr Dugin.
Ma la guerra è stata il risultato di un lungo processo di sostituzione. Dalla logica dello sviluppo e della vita si è passati a una logica di distruzione e di morte: la logica della necropolitica. Nonostante tutti i suoi difetti, i primi anni dell’era Putin sono stati caratterizzati dalla crescita economica e dal fiorire delle attività e della cultura. Le autorità offrivano ai cittadini un programma di sviluppo e prosperità, o almeno di stabilità. Ma dopo le proteste del 2011 i richiami alla necropolitica sono diventati sempre più evidenti nel comportamento del potere.
Prendiamo il discorso rivolto da Putin ai suoi sostenitori a Mosca nel febbraio 2012, quando, dopo lo shock provocato dalle proteste di massa contro le frodi elettorali, ha citato la poesia Borodino di Lermontov: “Presso Mosca noi moriremo, / Come morirono i nostri fratelli!”. Nel 2018, parlando al club Valdai della dottrina nucleare russa, il presidente è tornato di nuovo sul tema della morte collettiva dei russi: “Noi, come martiri, andremo in paradiso, loro, invece, moriranno e basta”. Questi inquietanti messaggi sono riecheggiati nelle parole del vicecapo di stato maggiore Vjačeslav Volodin al Valdai del 2014: “Niente Putin, niente Russia”. Il popolo russo è presentato come una figura silenziosa, la cui vita e la cui morte sono nelle mani dei governanti del paese.
Sia nella retorica pubblica delle autorità sia nella lotta contro le forze vitali della società (come la stampa libera e le organizzazioni non governative), gli obiettivi di sviluppo e prosperità sono stati gradualmente sostituiti da un programma di morte. È in corso una riabilitazione storica di Stalin e di Ivan il Terribile, despoti che sacrificarono le vite dei loro sudditi. Sta prendendo piede un culto dei caduti. Nelle scuole di tutto il paese sono introdotti rituali legati alla seconda guerra mondiale, spesso guidati da militari locali e rappresentanti della chiesa ortodossa. I ricordi degli antenati che hanno perso la vita affinché un giorno non ci fossero più guerre sono sostituiti da tetre celebrazioni necrofile. Nelle processioni del “reggimento immortale” i morti si riuniscono in temibili schieramenti, guidando i loro discendenti verso nuove guerre.
La transizione alla necropolitica cambia le priorità del potere nel determinare chi è destinato a vivere e chi a morire. Secondo il filosofo Achille Mbembe la necropolitica comporta la ricerca costante di nemici, di un “altro” razzialmente o politicamente diverso, di stati d’emergenza e nuove guerre. La massima espressione della necropolitica è stato il nazismo, che ha equiparato il potere e la guerra. Ma la storia offre molti altri esempi: dal terrore della rivoluzione francese fino alla spietata espansione coloniale.
Le conquiste coloniali russe sono state realizzate sia annettendo territori vicini, sia schiavizzando il popolo russo. Lo stato in espansione non aveva interesse per il benessere dei sudditi. Questo si ripete anche oggi, con gli evidenti esempi delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk. Questi territori non sono diventati l’incarnazione del successo del “mondo russo”, ma zone in mano ad autorità corrotte e afflitte da criminalità, crisi economica e impoverimento.
Risposta deludente
Il tema del sangue versato in passato e di quello che lo sarà in futuro è diventato un elemento centrale del discorso pubblico russo. L’attore Sergej Lavronenko, che ha sostenuto la guerra, dice: “La lettera Z è come il nastro di san Giorgio, è imbevuta del sangue di milioni di nostri antenati. I nostri nemici hanno sempre tentato di strangolarci, ma li abbiamo sempre distrutti”. Il popolo è di nuovo chiamato al sacrificio per difendere la terra.
Anche la cultura di massa comincia a riflettere il messaggio mortifero del potere. La poesia di Vlad Seletskij del 2020 Quando l’ultimo russo morirà, molto condivisa sui social network russi, contiene cupe profezie: “Quando l’ultimo russo morirà, / tutti i fiumi invertiranno il loro corso. / La coscienza, l’onore e i sentimenti scompariranno / e le stelle non brilleranno più”. Anche se alla fine dio salva la Russia dalla distruzione, il testo è intriso di profonda malinconia.
La generazione più giovane è osservata in modo particolarmente attento: deve promettere senza indugio di essere pronta a morire per il leader. La canzone Zio Vova, siamo con te, uscita nel 2017 e dedicata a Putin, è eseguita spesso nelle scuole e contiene motivi sinistramente apocalittici. I bambini promettono al presidente: “Se il comandante chiamerà per l’ultima battaglia, zio Vova, noi siamo con te”. Dall’inizio dell’“operazione speciale”, i bambini hanno cominciato a essere considerati una risorsa bellica. Sono fatti allineare a forma di Z, vestiti con uniformi militari, fatti salire su carri armati giocattolo e mandati a marciare per strada.
Ma l’invito a morire non sta suscitando la risposta che ci si aspettava dalla popolazione. Mentre i russi sono pronti ad accettare che il loro paese sia circondato da nemici e a credere alla propaganda secondo cui l’Ucraina è governata da nazisti, la maggior parte di loro non vuole morire né mandare i propri figli a morire. La canzone sullo zio Vova provoca spesso proteste dei genitori e critiche sui social network, ed è stata oggetto di numerose parodie. Potrebbe essere stata questa riluttanza a impedire il ricorso alla mobilitazione generale.
È probabile che le fantasie dell’élite entreranno in conflitto con l’istinto di vita del popolo. L’invito a morire, anche se avvolto nella retorica della grandezza della nazione e della lotta contro un’orda di nemici, diventerà sempre meno attraente. E alla fine la politica della morte cederà il posto alla politica della vita. ◆ ab
Svetlana Stephenson insegna sociologia alla London metropolitan university.