Di Goffredo Buccini
Compattezza a rischio Se i Dem si compattassero sui 5 Stelle verrebbe meno il trasversalismo atlantista che ha aiutato molto Draghi
Stare nella Nato, sì, «ma in modo critico». Sostenere gli ucraini, certo, «ma senza essere supini agli americani». E dunque come? «Dialetticamente». Con meno armi? «Con più diplomazia». Insomma, diversi ma uguali, ancora una volta, come una volta, sotto il vessillo dell’ossimoro. Si nasconde in questo ginepraio di distinguo e bizantinismi di una parte della sinistra democratica il primo vero banco di prova per Elly Schlein. E, con uno dei paradossi ai quali ci ha abituato la politica in questi anni, se la nuova segretaria del Pd dovesse sciogliere i nodi che l’hanno accompagnata fin qui sullo spinoso tema abbandonando la linea atlantista del partito guidato da Enrico Letta o, come è più plausibile, annacquandola fino a renderla irriconoscibile, gli effetti si farebbero sentire anche nella coalizione di governo: perché, per la prima volta, la premier Meloni si troverebbe quasi sola nell’arco parlamentare (fatta eccezione per i terzopolisti e pochi altri) a sostenere con convinzione l’idea che a Zelensky ancora non servano in questa fase sorrisi e pacche sulle spalle ma sistemi di difesa antiaerea e carri armati con cui rintuzzare i nuovi attacchi dell’invasore russo.
La tentazione per la giovane leader dev’essere molto forte e il sentiero per lei è assai stretto. Tornano a suonare con più energia le sirene culturali che hanno nutrito il pacifismo di gran parte della sinistra.
Aquasi cento anni dal libro fotografico con cui l’anarchico e obiettore tedesco Ernst Friedrich sconvolse le coscienze europee documentando gli effetti di quella che per papa Benedetto XV fu «l’inutile strage», il primo conflitto mondiale («Guerra alla guerra» ne era il titolo, riecheggiato ora da un volume edito da Laterza a firma di Matteo Pucciarelli). Quel suono si mescola agli slogan mai tramontati dell’antiamericanismo, che affonda le sue radici un po’ pelose fin nel pacifismo togliattiano anni Cinquanta dei Pionieri d’Italia, e s’è sposato nel tempo con l’avversione per la modernità liberale (e libertina) di una parte dell’opinione antilluminista di certo cattolicesimo di destra (un milieu non troppo distante dagli anatemi antioccidentali del patriarca Kirill). «Buttiamo a mare le basi americane», cantavano i militanti della sinistra italiana durante la «sporca guerra» del Vietnam, avendo dimenticato, chissà perché, di indignarsi per l’invasione sovietica dell’Ungheria di pochi anni prima e preparandosi a stendere analogo velo d’oblio sulla repressione della Primavera di Praga.
La postura in politica estera è uno di quei passaggi che gli anglosassoni chiamano «defining moment», il bivio in cui si vede di che pasta sei fatto.
Sicché, più dell’ecologismo d’assalto, più delle tasse di successione e del salario minimo, sarà questo il momento davvero discriminante per il Partito democratico del prossimo futuro. E la prima scadenza non è lontana, perché il 22 marzo Giorgia Meloni andrà inParlamento alla vigilia della partecipazione al Consiglio europeo. Se per allora si trattasse di votare su qualche mozione, magari presentata da un Movimento Cinque Stelle che potrebbe essere rivale e alleato al tempo stesso, avere una linea non sarebbe del tutto inutile per Elly e i suoi collaboratori. Altro passaggio rivelatore, una volta formata la segreteria, sarà scoprire il nome del responsabile Esteri. Piuttosto accreditato appare Arturo Scotto, appena rientrato al Nazareno dopo essere stato coordinatore di Articolo Uno e dopo avere votato con convinzione contro il programmato sostegno militare all’Ucraina per il 2023. A Valerio Valentini del Foglio ha spiegato di non aver cambiato idea: come da mantra della sinistra radicale, si tratta di aiutare gli ucraini «senza sostenere l’escalation militare». Va da sé che la soluzione, per questa parte della sinistra, sta in una «forte iniziativa diplomatica» che, un po’ come l’araba fenice, nessuno sa dove sia.
Una certa ambiguità della leader dem dev’essersi percepita, se il suo punto di vista le viene rimproverato da posizioni opposte: da Carlo Calenda, secondo il quale Schlein è sempre stata contraria all’invio di armi all’Ucraina, e da Rosy Bindi, che ne critica invece le reticenze tattiche sul tema, «perché chi guida la sinistra dovrebbe dire parole chiare». Gli analisti di Pagella Politica si sono presi la briga di radiografarne le dichiarazioni e i voti in aula, concludendo che la nuova segretaria del Pd si è detta più volte dubbiosa sull’invio di armi («per chi come me viene dalla cultura del disarmo…») ma da deputata ha sempre votato a favore. Se l’ha fatto per disciplina di partito, obbedendo alle indicazioni del suo predecessore Letta, ora potrebbe essere venuto per lei il momento di cambiare registro. Di sicuro questa eventualità desta qualche preoccupazione nelle cancellerie occidentali e soprattutto nelle ambasciate, in quella americana come in quella ucraina. Una defezione del Partito democratico riaccenderebbe nei russi la speranza di ritrovare in Italia il ventre molle dello schieramento atlantico.
Certo, Giorgia Meloni per adesso tiene duro. E, con lei, deve farlo l’intero gabinetto. Ma un eventuale no alle armi che compattasse il Pd sui Cinque Stelle farebbe venire meno quel trasversalismo atlantista che ha caratterizzato il nostro Parlamento dai tempi di Draghi, aiutando non poco l’allora premier a tenere la barra dritta (i meriti di Letta in questo senso sono stati davvero notevoli). Meloni vedrebbe aumentare prima o poi le spinte centrifughe già presenti in una coalizione di centrodestra segnata dall’intramontabile amicizia di Berlusconi per il dittatore di Mosca e da simpatie filorusse così chiassose da esporre in passato Salvini a contestazioni e ironie persino all’estero («cheerleader di Putin», lo bollò l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt).
Per fronteggiare un’opinione pubblica sempre più ripiegata sulle beghe di casa propria, la premier è stata costretta ad andare da Vespa a spiegare che le armi a Zelensky non sottraggono risorse agli italiani. Ma una guerra che si protrae erode fatalmente consenso. Il compiacimento nel vedere dilaniarsi il Pd (partito che peraltro conta ancora un alto numero di sostenitori degli aiuti militari all’Ucraina) potrebbe avere un costo molto elevato, sul lungo periodo. Anche per la premier e per la credibilità dell’Italia.
fonte: Corriere della Sera