Iacopo ZABARELLA


– Nacque a Padova il 5 settembre 1533 da Giulio, dal quale ereditò il titolo di conte palatino, e da Gigliola, figlia di Girolamo Dottori.
Si formò nell’università della sua città, dove poté seguire le lezioni di professori di spicco, come lo zio materno Marcantonio de’ Passeri, detto il Genua, Bernardino Tomitano, Francesco Robortello e Pietro Catena. Addottoratosi in artibus nel 1553, a soli vent’anni, succedette nel 1564 a Tomitano alla cattedra di logica; nel 1568 fu trasferito a quella di filosofia naturale straordinaria e nel 1585 ottenne la cattedra ordinaria secundo loco, in concorrenza con Francesco Piccolomini. Gli statuti dell’ateneo patavino, infatti, prevedevano che ai primi posti venissero chiamati docenti provenienti da altre università.
In data ignota sposò Elisabetta Carazza, dalla quale ebbe nove figli.
In occasione dell’inaugurazione solenne dei corsi di filosofia naturale del 1568 e del 1585, ovvero dei corsi di passaggio alla cattedra straordinaria e poi a quella ordinaria, Zabarella tenne due prolusioni, in cui si propose di chiarire quali sono gli officia di un buon interprete di Aristotele.
Nella prima oratio il filosofo sottolinea che il pensiero aristotelico deve essere esposto in modo chiaro e preciso, cercando di tornare al suo autentico significato, dopo secoli di commenti ed esegesi che spesso non lo hanno illuminato, ma anzi hanno contribuito a renderlo più oscuro. Ciò non significa, però, che l’insegnamento dello Stagirita debba essere accettato acriticamente dagli studenti che, al contrario, devono limitarsi a considerarlo frutto ineguagliato dello sforzo della ragione umana di raggiungere risultati con le sue sole forze. Un buon esegeta deve poi seguire nell’esposizione l’ordo doctrinae aristotelico, che procede dall’universale al particolare, attenendosi al metodo dimostrativo esposto negli Analitici posteriori, secondo cui non può darsi conoscenza scientifica di un oggetto se non a partire dai suoi principi propri, e deve infine sapersi districare all’interno dell’intero corpus dell’autore, in modo da poter lumeggiare un passo con testi di argomento affine tratti da altre opere. La seconda prolusione, pronunciata diciassette anni dopo, torna con maggior rigore argomentativo sui medesimi temi: Aristotele è stato l’inventore del metodo scientifico e la sua dottrina si configura come indagine rigorosa dell’empiria e della prassi umana.
Nell’arco di tempo intercorso tra le due orationes videro la luce le opere di Zabarella di argomento logico. Nel 1578 furono stampati a Venezia gli Opera logica, cui l’autore si era dedicato sin dal 1576, quando un’epidemia lo aveva costretto a lasciare Padova con la famiglia per recarsi in campagna; due anni dopo fu edita la Tabula logicae e nel 1582 il commento agli Analitici posteriori, dal titolo In duos Aristotelis libros Posteriores Analyticos commentarii.
Gli Opera logica si aprono con un trattato sulla natura della logica (De natura logicae) in cui Zabarella afferma che esistono due tipi di conoscenza – contemplativa e pratica – e solo alla prima di queste, che comprende metafisica, matematica e filosofia della natura, è confacente il nome di scienza. Due sono infatti le condizioni necessarie per il darsi della conoscenza scientifica: l’assoluta necessità del suo oggetto e l’assoluta certezza, da parte del soggetto conoscente, che tale oggetto non possa essere altrimenti da come è. Ne consegue – afferma Zabarella in netta opposizione a Giovanni Duns Scoto – che la logica non è una scienza, perché essa ha come oggetto le secundae intentiones, ovvero i nostri concetti, che non sono eterni e necessari, ma sono animi figmenta, costruzioni speculative per rappresentare oggetti. La logica, perciò, è soltanto un habitus mentale, strumentale alla comprensione delle altre discipline e all’organizzazione dei loro dati.

All’idea zabarelliana della logica come instrumentum, che intendeva tornare alla genuina concezione aristotelica di organon, si contrappose lo scotista Bernardino Petrella con i Logicarum disputationum libri, stampati a Padova nel 1584, dando inizio a una querelle alla quale partecipò anche Ascanio Persio, discepolo di Zabarella, che nei suoi Logicarum exercitationum libri duo priores critici, consegnati ai torchi tipografici l’anno seguente, confutò punto per punto le obiezioni di Petrella.
Negata alla logica la qualifica di conoscenza scientifica, Zabarella si volge alla fisica, sostenendo, con una presa di posizione radicale e inedita, che essa invece è formalmente rigorosa, al pari della matematica. La filosofia della natura, infatti, procede secondo la necessità deduttiva dell’ordine compositivo, che dalle cause perviene agli effetti, e può perciò assurgere al grado di scienza. Poca attenzione viene invece riservata dal filosofo alla metafisica, perché essa, come spiegherà più estesamente nel commento agli Analitici posteriori, non procede per deduzione a partire da principi propri, ma perviene ai principi comuni dell’essere per via induttiva.
Al trattato De natura logicae fanno seguito i quattro libri De methodis, che, insieme al famoso De regressu, contengono il più importante lascito teorico zabarelliano. Innanzitutto Zabarella distingue l’ordo doctrinae dalla methodus, l’ordine espositivo dal metodo propriamente detto, grazie al quale da elementi dati si giunge, per inferenza, a verità nuove. Il metodo, dunque, finisce per identificarsi, secondo il filosofo padovano, con il sillogismo, ovvero con quella che, in base all’insegnamento degli Analitici posteriori, è ritenuta l’autentica dimostrazione scientifica, la quale può partire dalla causa per dedurre gli effetti (demonstratio propter quid o a priori) o può muovere dagli effetti per pervenire alla causa (demonstratio quia o a posteriori). Rilevata la superiorità della dimostrazione a priori, Zabarella afferma che la demonstratio potissima, grazie alla quale si può raggiungere una conoscenza certa, consiste in una sintesi dei due movimenti dimostrativi: a una prima indagine che conduce alla conoscenza incerta di una causa a partire da un suo effetto deve infatti seguire una disamina mentale della causa individuata, che da essa ridiscenda nuovamente all’effetto, riconoscendo tra i due elementi un collegamento necessario.

Se questo procedimento, detto regressus, è considerato a oggi una delle più interessanti acquisizioni speculative di Zabarella, a suscitare scalpore tra i contemporanei fu però soprattutto la netta distinzione operata dal filosofo tra metodo e ordine espositivo. A quest’ultimo infatti Zabarella assegnava un valore puramente didattico, volto a favorire l’apprendimento da parte degli studenti, al contrario di Piccolomini, suo diretto concorrente alla cattedra di filosofia naturale, secondo il quale l’ordo doctrinae è fondato sulla natura delle cose, connettendosi inestricabilmente all’ordo naturae. La De doctrinae ordine apologia di Zabarella, del 1584, è una risposta alle critiche mosse da Piccolomini sull’argomento nella seconda parte dell’introduzione dell’Universa philosophia de moribus del 1583; risposta cui Piccolomini replicò nel Comes politicus, che fu stampato nel 1594, cinque anni dopo la morte di Zabarella, dando l’abbrivio a strascichi polemici tra i discepoli dei due filosofi che, andando ben oltre il nucleo concettuale iniziale, mostrarono la sostanziale incompatibilità tra la logica ‘strumentale’ zabarelliana e la fondazione metafisica platonizzante della filosofia di Piccolomini.
Parte cospicua della trattazione sulla methodus è infine volta a contrastare quanti, attenendosi pedissequamente all’introduzione dell’Ars parva di Galeno, sostengono che la medicina sia una scienza. La medicina, invece, è un’arte, una techne, dal momento che non ha principi propri, ma li trae dalla filosofia della natura, e si pone un fine pratico e non teoretico, al pari delle arti meccaniche, che solo marginalmente sono oggetto dell’attenzione del filosofo, il quale, nondimeno, a esse riserva uno spazio, spinto probabilmente dalle discussioni sui Problemata mechanica pseudoaristotelici che animavano l’ateneo patavino, l’unico in Italia nel quale venissero tenute letture pubbliche su questo scritto.
Nel 1586 Zabarella dette alle stampe la sua prima opera di filosofia della natura, il De naturalis scientiae constitutione, concepito come introduzione alla sua ultima, poderosa, fatica, i De rebus naturalibus libri triginta, che furono pubblicati postumi nel 1590.
Gli ultimi anni di vita del filosofo furono assai fecondi: oltre a dedicarsi allo studio e all’insegnamento, egli era solito recarsi ogni domenica presso il collegio dei gesuiti, dove, con ogni probabilità, entrò in contatto con Antonio Possevino, il quale, sin dalla prima edizione romana del 1593 del suo magnum opus, la Bibliotheca selecta, dedicò un articolato capitolo del tredicesimo libro a una disamina accurata dei De rebus naturalibus. Erano anni di grande fermento, in cui lo schieramento dei ‘bovisti’, così chiamati perché si riunivano nel palazzo del Bo, si opponeva strenuamente al collegio padovano della Compagnia di Gesù, sostenendo che dovessero essere tenute lezioni solo presso l’Università di Padova. Una chiara violazione della libertà di insegnamento, considerata invece irrinunciabile da Zabarella che prese posizione contro i bovisti.
Nei trenta libri di argomento fisico, due sono i nuclei di dottrina di maggior rilievo teorico, affrontanti dall’autore con originalità: la dimostrazione dell’esistenza di Dio e la discussione sull’anima umana. Il primo di questi è trattato nel De inventione aeterni motoris, in cui Zabarella afferma che la metafisica, al pari delle altre scienze, non può dimostrare l’esistenza del proprio oggetto, che deve trarre da una scienza diversa; in questo caso, come ha correttamente sostenuto Averroè, dalla fisica. Soltanto tramite la nozione di moto eterno, infatti, è possibile giungere a concepire il primo motore. Per quanto concerne l’anima umana, poi, Zabarella fa propria l’interpretazione alessandrista di Pietro Pomponazzi, secondo cui essa non può sussistere indipendentemente dal corpo, di cui è l’actus primus.
L’incompatibilità delle posizioni zabarelliane con la teologia cristiana può aver indotto, come è stato scritto (Vedova, 1836, pp. 430 s.), l’Inquisizione a indagare, costringendo il filosofo ad affermare che egli come cristiano credeva in tutte quelle verità di fede su Dio e sull’anima umana che non era stato in grado di provare con argomenti dimostrativi; ciò che è certo è che, nel corso della sua opera, Zabarella si trincera cautelativamente a più riprese dietro la distinzione tra l’ambito di pertinenza della ratio filosofica e quello della fides.
Morì a Padova il 25 ottobre 1589 e il collega Antonio Riccoboni tenne il 28 ottobre, nella basilica di S. Antonio, un’orazione funebre in sua memoria.
Due commentari aristotelici che non avevano visto la luce durante la sua vita furono raccolti e pubblicati postumi da due dei figli: In libros Aristotelis Physicorum commentarii furono stampati nel 1601 a cura di Giulio e In tres Aristotelis libros De anima commentarii nel 1605 a cura di Francesco.
Opere. I quattro libri De Methodis e il De regressu sono editi e tradotti in inglese a cura di J.P. McCaskey in due volumi: On methods, books I-II, e On methods, books III-IV, On regressus, Cambridge (Mass.)-London 2013; l’edizione dei De rebus naturalibus è a cura di J.M. García Valverde, I-II, Leiden 2016.
Fonti e Bibl.: Antonii Riccoboni In obitu Iacobi Zabarellae patavini oratio, in Id., Orationum volumen secundum, Patavii 1591, p. 58; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, II, Padova 1836, pp. 429-432; M. Dal Pra, Una ‘oratio’ programmatica di Giacomo Zabarella, in Rivista critica di storia della filosofia, 1966, n. 21, pp. 286-291; C.B. Schmitt, Experience and experiment: a comparison of Z.’s view with Galileo’s in De motu, in Studies in the Renaissance, 1969, n. 16, pp. 80-138; A. Poppi, La dottrina della scienza in Giacomo Zabarella, Padova 1972; E. Berti, Metafisica e dialettica nel Commento di Giacomo Zabarella agli Analitici posteriori, in Giornale di metafisica, 1992, n. 14, pp. 225-244; H. Mikkeli, An Aristotelian response to Renaissance humanism. Jacopo Zabarella on the nature of arts and sciences, Helsinki 1992; Id., The foundation of an autonomous natural philosophy: Z. on the classification of arts and sciences, in Method and order in Renaissance philosophy of nature. The Aristotle commentary tradition, a cura di D.A. Di Liscia – E. Kessler – C. Methuen, Aldershot 1997, pp. 211-228; A. Poppi, La struttura del discorso morale nell’opera di I. Z., in Id., L’etica del Rinascimento tra Platone e Aristotele, Napoli 1997, pp. 231-246; D. Bouillon, Un discours inédit de I. Z. préliminaire à l’exposition de la Physique d’Aristote (Padoue 1568), in Atti e memorie dell’Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti in Padova, 1998-1999, n. 111, pp. 119-133; A. Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Soveria Mannelli 2001 (in partic. I. Z. o l’aristotelismo come scienza rigorosa, pp. 125-152; Metodo e tecnica in I. Z., pp. 153-166); P. Palmieri, Science and authority in Giacomo Zabarella, in History of science, 2007, n. 45, pp. 404-427; D. Bouillon, L’interprétation de Jacques Zabarella le philosophe, Paris 2009; B. Mitrovic, Defending Alexander of Aphrodisias in the age of the Counter-Reformation: I. Z. on the mortality of the soul according to Aristotle, in Archiv für Geschichte der Philosophie, 2009, n. 91, pp. 330-354; C. Vasoli, Jacopo Zabarella e la ‘natura’ della logica, in Rivista di storia della filosofia, 2011, n. 66, pp. 1-22; J.M. García Valverde, El comentario Giacomo Zabarella a De anima III, 5: una interpretatíon mortalista de la psicología de Aristoteles, in Ingenium, 2012, n. 6, pp. 27-56.

Di Laura Carotti – fonte: Treccani