AGI – La drammaticità delle notizie che arrivano dal cuore dell’Europa ha destato grande preoccupazione anche per i siti nucleari che l’Ucraina ospita sul proprio territorio, accompagnata da particolare apprensione per l’impianto di Chernobyl, sede nel 1986 del più grande disastro dell’era nucleare.
Ciò che sta accadendo in questi giorni sul territorio ucraino desta preoccupazione a livello mondiale, come è giusto che sia. Ma allo sconcerto e alla esecrazione generale per uno scenario che nessuno, fino a poco tempo fa, avrebbe mai neppure immaginato potesse riprodursi nella realtà, si aggiungono apprensioni per la tenuta e per l’integrità della rete nucleare ucraina in un teatro bellico esteso come quello attuale.
L’Ucraina è una nazione che dipende fortemente dall’energia nucleare, dato che questa fonte copre oggi più della metà dell’intera produzione elettrica del Paese; un Paese che ospita, in quattro siti gestiti dalla Ergoatom, quindici reattori della filiera VVER, di progettazione russa.
Il VVER è una tipologia di reattore moderato e raffreddato ad acqua e la si potrebbe accostare a quella dei reattori pressurizzati di matrice occidentale. È inserito in un contenitore d’acciaio massiccio e l’edificio di contenimento è in grado di resistere a pressioni di oltre 12 Megapascal, più di 120 atmosfere, se vogliamo utilizzare unità desuete ma per qualcuno forse più familiari. Nulla a che vedere con la fragilità ingegneristica a vari livelli della filiera RBMK, quella cui apparteneva il reattore di Chernobyl. Gli edifici di contenimento dovrebbero inoltre resistere anche all’impatto con un aereo di linea.
Quanto alle assicurazioni del CEO dell’Ergoatom, secondo il protocollo, in caso di un bombardamento gli impianti nucleari verrebbero spenti e scaricati fino a quando la minaccia non venga eliminata.
Un teatro di guerra dal quale le notizie spesso trapelano con difficoltà non aiuta a fare analisi troppo dettagliate sull’evoluzione di alcune situazioni. Ma è abbastanza giustificato che il reattore di Chernobyl, rientrato in questo scenario (e passato ora sotto il controllo russo), abbia innalzato il livello di preoccupazione nell’opinione pubblica. E non solo.
Sono giunte già notizie di innalzamento dei livelli locali di radioattività. Ma questo, al momento, non ha molto a che vedere direttamente con la centrale. Il disturbo della superficie di terreno a opera di mezzi militari pesanti nelle aree adiacenti all’impianto, dove presumibilmente è ancora presente una certa distribuzione di contaminazione, può effettivamente aver riportato in aria una certa concentrazione di radionuclidi. Si tratta però di una situazione assolutamente locale e non eccessivamente drammatica.
I problemi potrebbero nascere qualora, per errore o per fatalità, ordigni dovessero colpire l’impianto ricoverato sotto il cosiddetto New Safe Confinement, la struttura di protezione che è stata installata alla fine del 2016 a protezione dell’ambiente e per ovviare alla fragilità del vecchio Sarcofago situato più sotto, costruito in fretta e in furia per chiudere l’impianto disastrato al fine di contenerne le fughe radioattive.
Nel sarcofago, sono ancora presenti le quasi duecento tonnellate di combustibile fuso mescolato a parti di reattore, al piombo, alla sabbia: la cosiddetta “lava” radioattiva (corium) che si è depositata sotto il corpo del reattore, solidificandosi. Questa lava col tempo, con processo però abbastanza lento, tende a fratturarsi e a polverizzarsi.
Il problema di una eventuale perdita di integrità del sito a causa di esplosioni potrebbe essere rappresentato proprio dalla polvere che si è depositata nel sito nel tempo e che tenderebbe a innalzarsi e a diffondersi nell’area. Che la reazione possa invece accendersi di nuovo a causa di deflagrazioni è da ritenersi molto poco probabile: occorrerebbe raggiungere condizioni abbastanza particolari per giustificarne la possibilità. La dispersione di materiale in aria sarebbe invece plausibile, come si diceva.
Ma è oltremodo difficile pensare che possano riprodursi le condizioni registrate nel 1986 con l’evento transfrontaliero che portò una nube radioattiva ad attraversare buona parte dell’Europa. Quell’evento si verificò principalmente a causa del cosiddetto “effetto camino”, un forte surriscaldamento prodotto nel tempo dal bruciamento del reattore (soprattutto per la presenza della grafite) che creò una forte bassa pressione locale tale da facilitare la risalita in atmosfera della colonna di fumi radioattivi che entrarono in circolo atmosferico, in quei giorni non favorevole al territorio europeo. Una enorme colonna di fumo caldo ad altissima densità di radionuclidi radioattivi, soprattutto di quelli più volatili.
Sono trascorsi quasi quarant’anni da quei giorni. Si è esaurita già una emivita (tempo di dimezzamento della radioattività) per quei prodotti che decadono con un tempo confrontabile. Anche il calore di una o più eventuali (e sempre malaugurate!) esplosioni non potrà provocare un effetto camino come quello che si registrò nel 1986. E, come allora, i prodotti più “pesanti” (uranio, plutonio, ecc…), non così facilmente percorrerebbero lunghe traiettorie.
In definitiva, qualora dovesse presentarsi una sciagurata ipotesi di attacco all’impianto con effetti anche seri, l’evento dovrebbe avere la dimensione di un’area abbastanza limitata. Ma, a questo punto, a chi gioverebbe, visto che ne sarebbero coinvolte anche le truppe di occupazione presenti sul territorio?
È solo un mio pensiero, si chiaro, ma ciò che temo di più in questo momento difficile, se non si faranno tacere presto le armi, è l’imponderabile, l’evento a bassa probabilità che possa avere un effetto pesante sulla Storia. Lo chiamano “il cigno nero”. Un incidente, per esempio un contatto troppo ravvicinato tra caccia americani e caccia sovietici.
Sarebbe probabilmente l’innesco di una spirale devastante. Con grande costernazione, devo pensare che in certi casi la Storia non sia una buona Maestra.
Source: agi