Di Giorgio Carta, avvocato
Il vigente codice penale militare di pace è stato approvato con Regio Decreto del 20 febbraio 1941, n. 303, in pieno impegno bellico, e l’attenzione era certamente per lo più rivolta ad assicurare l’efficienza e la coesione degli apparati militari nonché a salvaguardare l’ordine e la disciplina del servizio militare.
Il contesto applicativo immaginato dal legislatore oltre ottant’anni fa è, frattanto, grandemente mutato sotto diversi profili, alcuni decisamente centrali e non più odiernamente trascurabili.
A tacer d’altro, infatti, le forze armate dell’epoca non erano dotate di personale femminile né gli appartenenti alle stesse potevano contare sull’utilizzo degli attuali moderni strumenti tecnologici.
Sotto il primo profilo, va considerato che, solo il 15 gennaio 1997, ha visto la luce la versione definitiva del disegno di legge delega per l’istituzione del servizio militare volontario femminile. Trentadue mesi dopo, nella seduta
- 592 del 29 settembre 1999, a conclusione dell’iter parlamentare, l’atto è stato approvato alla Camera, con alcune modifiche, a larghissima maggioranza.
Pertanto, è stata approvata la legge 20 ottobre 1999, n. 380 (Delega al Governo per l’istituzione del servizio militare volontario femminile) con la quale l’Italia si è allineata ai Paesi della NATO, aprendo al reclutamento femminile nelle Forze armate e nella Guardia di Finanza, a partire dall’anno 2000.
Oggi nei ranghi delle Forze armate, sono presenti due generazioni di
donne, per un totale di oltre 17000 militari, pari a circa il 6.3% dell’intero
organico (dati aggiornati al 31 dicembre 2019).
A distanza di 23 anni dallo storico ingresso delle donne nelle Forze armate, il codice penale militare di pace appare ancora rpportato ad una realtà per lo più declinata al maschile nella quale nessuna tutela è specificamente apprestata alle possibili patologie dell’interazione tra personale di diverso sesso.
La particolare condizione giuridica e professionale dei militari, peraltro, spesso induce coloro (uomini e donne) che subiscano sia generiche molestie che violenze a sfondo sessuale, ma anche di altro genere, a riferire tutt’al più i fatti accaduti alla sola e scala gerarchica con la forma tipica, ma inadeguata della rappresentazione delle problematiche lavorative che è la c.d. “relazione di servizio”.
Tale tradizionale modalità di rappresentazione gerarchica delle problematiche lavorative (che si sostanzia nella mera esposizione dei fatti al superiore gerarchico, che non necessariamente possiede la qualifica di agente o di ufficiale di polizia giudiziaria) evidentemente difetta dei requisiti minimi richiesti per un formale atto di querela che sono in primis la formale richiesta all’autorità giudiziaria di punizione dell’incolpato.
Se si considera che i reati sessuali e tutti gli altri comunque concernenti le molestie e gli atti persecutori sono, per lo più, punibili a querela della persona offesa, la conseguenza è che molti comportamenti astrattamente ascrivibili a dette fattispecie incriminatrici mancano della necessaria condizione di procedibilità e non sono pertanto conoscibili dal giudice ordinario, rimanendo, così, senza tutela.
Al riguardo, una qual certa forma di supplenza è svolta dalla giustizia penale militare che, però, in considerazione dell’attuale assetto normativo, non può perseguire fatti gravi come le violenze sessuali o le molestie, ma deve inquadrare tali comportamenti nei più blandi reati di “ingiuria ad inferiore” (art. 196 c.p.m.p.) o di “insubordinazione con ingiuria” (art. 189 c.p.m.p.), puniti con la reclusione militare fino a due anni, se non nell’ancora più lieve reato di “ingiuria” (art. 226 c.p.m.p.), punito con la reclusione militare fino a quattro mesi.
Si tratta, però, di un artificioso aggiramento del vuoto normativo, con strumenti inadeguati ed insufficienti non solo dal punto di vista sanzionatorio che pongono pure non marginali problemi giuridici inerenti alla prescritta tassatività e determinatezza del precetto penale, mediante l’utilizzo di norme incriminatrici in realtà concepite per sanzionare ben altri comportamenti, considerevolmente meno gravi.
Pertanto, considerato che tutti i reati previsti nel codice penale militare di pace hanno natura di delitti e sono perseguibili d’ufficio, i giudici militari sono costretti a fornire una tutela meramente residuale e parziale per fatti aventi anche una certa gravità, ma con strumenti del tutto inadeguati, non solo sul piano sanzionatorio, ma anche sul piano delle indagini concretamente eseguibili (non potendo, per esempio, disporre intercettazioni telefoniche che spesso si rivelano assolutamente decisive nei reati sessuali, eventualmente anche a favore dell’incolpato ingiustamente denunciato).
In secondo luogo, va rilevato che il legislatore del 1941 non avrebbe certo potuto immaginare il futuro sviluppo delle tecnologie né, quindi, la possibilità che il personale militare potesse odiernamente disporre degli attuali ed ormai quasi banali strumenti elettronici della vita quotidiana quali telefoni e computer, notoriamente in grado di arrecare danno o molestia, anche gravi, alle persone.
Ne discende che, anche sotto questo profilo, la gamma dei reati militari non prevede né sanziona numerosi possibili illeciti potenzialmente verificabili nelle ordinarie interazioni tra militari.
Peraltro, con la legge 15 gennaio 2021, n. 4, l’Italia ha ratificato la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 nel corso della 108ª sessione della Conferenza generale della medesima Organizzazione.
L’articolo 9 di tale convezione, in vigore dal 29 ottobre 2022, impegna l’Italia ad adottare leggi e regolamenti che richiedano ai datori di lavoro di intraprendere misure adeguate e proporzionate al rispettivo livello di controllo in materia di prevenzione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro, ivi compresi la violenza e le molestie di genere.
La presente proposta di legge, pur nella consapevolezza che il codice penale militare di pace necessiti di una ben più ampia ed organica riforma, persegue lo scopo – quanto meno – di inserire nel novero dei reati perseguibili dai giudici militari alcuni comportamenti che, diversamente, rischiano di restare senza la opportuna sanzione.
Si ribadisce che tutti i comportamenti presi in esame dalla presente proposta di legge sono attualmente punibili sulla base del codice penale e dinnanzi alla magistratura ordinaria. La proposta di legge, infatti, di fatto, non fa che spostarne la cognizione dalla giustizia ordinaria a quella militare.
Tuttavia, il peculiare contesto militare in cui si svolgono i fatti in esame richiede quella specifica conoscenza della realtà militare e delle dinamiche personali ad essa connesse che è certamente patrimonio della magistratura militare che, pertanto, sotto questo profilo, appare l’unica in grado di assicurare la migliore giustizia possibile del caso concreto.
Si consideri, inoltre, che lo spostamento di competenze dal giudice ordinario a quello militare consentirebbe di ridurre l’enorme contenzioso che grava sulla giustizia ordinaria – caratterizzata da difficoltà e tempi lunghissimi nel fornire risposte ai cittadini – e contestualmente attribuirebbe un maggior carico di lavoro ai magistrati militari, oggi sottoutilizzati al punto che la prescrizione dei reati è una realtà pressoché sconosciuta in tale virtuoso ambito della giustizia statale.
Nel complesso, si tratta di misure che consentirebbero una più efficace tutela degli imputati ed un più adeguato e completo esercizio della giurisdizione senza pregiudicare eventuali future e riforme ordinamentali, che potrebbero richiedere una revisione costituzionale.