I PRINCIPATI DI RUSSIA

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Non solo la Lukoil a Priolo. Quanto costa liberarsi dei boiardi che hanno conquistato l’italia e la sua economia

Stefano Cingolani

Per Priolo si era fatto avanti un fondo americano che non piace né ai russi né ai sindacati e ai poteri locali siciliani che invocano lo stato azionista Dal 2005 al 2010 è avvenuta la “r us si fi ca zi on e” d el l’ec on om ia italiana: gli investimenti sono passati da tre milioni di euro a un miliardo La società Lukoil nasce quando l’urss sta morendo. Artefice è Alekperov, che non fa parte dei magnati che debbono tutto a Putin Come spiegare agli azionisti privati di Eni l’ingresso in un’attività obsoleta mentre altri impianti si convertono per produrre biocarburanti?
Si sta disgregando in questi giorni il principato di Priolo, il più consistente impegno industriale in Sicilia e uno dei maggiori in Italia, assunto dal Cremlino e dai suoi amici. Sembra inappropriato chiamarlo principato? E come allora, dominio, protettorato, forse oblast? Adesso è finita o meglio siamo all’inizio di una fine che potrà essere lunga, complicata, dolorosa. La Lukoil con l’isab, il suo grande impianto di raffinazione, è il perno dell’intero polo petrolchimico siciliano, ma i russi, incappati nelle sanzioni, dovranno mollare. Non è chiaro come, quando, chi li sostituirà, mentre monta l’onda nazionalizzatrice che spinge affinché il governo prenda in mano la guida. Si era fatto avanti un fondo d’investimenti che non piace, perché americano, né ai russi né ai sindacati e ai poteri locali siciliani impegnati a battere la grancassa dello stato azionista. Tirano in ballo l’eni anche se non è interessata. Il Tesoro è già sotto stress: possiede direttamente due terzi del Monte dei Paschi e avrà un ruolo rilevante in Ita Airways; Invitalia deve diventare socio principale dell’ilva; la Cassa depositi e prestiti prenderà in carico Tim e la rete internet. La fantasia della finanza e la volontà della politica si daranno da fare. Comunque finisca, va spezzato il cappio stretto al collo dell’italia. L’impero del gas aveva trasformato il Bel Paese in una colonia e dalle steppe sono scesi a frotte principi, boiardi, governatori, oligarchi: hanno portato truppe, ma soprattutto le hanno trovate in loco; hanno speso rubli, ma per lo più hanno incassato vagonate di euro.
Gazprom, Lukoil, Rosneft, Severstal, Vimpel, Renova, per citare i più noti, sono marchi dietro i quali spuntano i volti dei grandi oligarchi. Quanto agli italiani, i posteri ci diranno se sono solo prede o anche complici visto che hanno messo in mani russe la terza raffineria del paese, il secondo operatore telefonico, l’acciaieria più grande dopo l’ilva e il maggiore gruppo energetico nazionale. Stiamo parlando di Isab, Wind, Lucchini, Eni e molto altro ancora. Hanno danzato a suon di balalaika banche come Unicredit, assicurazioni come Generali, bandiere del made in Italy come Armani, Pirelli, Barilla, solo per citarne alcuni. In cinque anni, dal 2005 al 2010, è avvenuta la “russificazione” dell’economia: gli investimenti sono passati da appena tre milioni di euro nel 2005 a un miliardo nel 2009. Lombardia, Veneto, Emilia, Toscana, Sicilia sono le regioni più esposte, oltre cinquanta imprese con circa 11 mila dipendenti, metalli, acciaio, gas e petrolio, turismo, alimentare, ma anche tecnologia informatica e aeronautica (nel 2007 viene firmato un accordo tra Alenia e Sukhoi per il Superjet 100). Un’espansione guidata dalla politica, quella stessa politica che spinge la Lega, Forza Italia e il M5S a fare tutt’ora da sponda a Vladimir Putin, e divide la variegata galassia della sinistra, a cominciare dal Partito democratico.
In quel quinquennio fatale sono arrivati Aleksei Miller, l’amico al quale Putin ha affidato Gazprom, mentre all’altro sodale Igor’
Secin spettava Rosneft, il colosso petrolifero di stato. E’ sbarcato Michail Fridman, uno degli oligarchi più potenti e intelligenti che ha preso il controllo di Wind con il gruppo di telecomunicazioni Vimpelcom, poi il boiardo di ferro e carbone Aleksej Mordašov, considerato forse l’uomo più ricco di Russia, che con la sua Severstal aveva raccolto dalle braccia esauste di Luigi Lucchini l’acciaieria di Piombino. Nel 2006 l’eni non solo ha firmato un accordo trentennale per la fornitura di metano siberiano, ma ha stretto “un patto strategico”, come disse l’allora amministratore delegato Paolo Scaroni, portando i russi anche nella distribuzione e nell’elettricità, insomma fino a riscuotere le bollette. I legami d’affari sono diventati davvero vasti e non tutti sono andati bene. Al largo di Piombino resta solo il mega yacht di Mordašov che nel 2017 ha venduto l’impianto italiano agli algerini di Cevital, i quali l’hanno poi ceduto agli indiani di Jindal. La Wind è passata ai cinesi di Hong Kong e si è fusa con H3G. Renova che possiede una vasta gamma di attività in Italia e controlla la Octo Telematics, società romana leader nelle scatole nere per auto e nel car sharing, è entrata nel mirino così come il suo proprietario Viktor Feliksovic Veksel’berg, gran collezionista di uova Fabergé. Qui siamo già ai confini della sicurezza nazionale. Quanto all’eni, con l’arrivo alla guida di Claudio Descalzi ha ritrovato la propria vocazione industriale, innovando, scavando pozzi, cercando una difficile alternativa agli idrocarburi, mentre dall’invasione in Ucraina si è lanciata in un vero tour de force per trovare alternative al gas siberiano.
Tra Italia e Russia c’è sempre stata una “corrispondenza d’amorosi sensi”, dall’arte alla politica. Nikolai Gogol scrisse a Roma il suo capolavoro, “Le Anime morte”; Mikhail Bakunin era di casa contro Mazzini e con Garibaldi; Maksim Gor’kij a Capri preparava la rivoluzione con Lenin, e Mosca accolse i comunisti italiani durante il fascismo. A Palmiro Togliatti venne dedicata una città là dove la Fiat aprì una fabbrica di auto rimasta storica. L’accordo fu firmato a ferragosto del 1966 e le Zigulì, versioni russe della 124, uscirono dallo stabilimento mentre i carri armati sovietici entravano a Praga esattamente due anni dopo. E’ stato scritto che Vittorio Valletta ottenne il via libera del presidente americano Lyndon B. Johnson, desideroso di inaugurare una fase di distensione. Ma i rapporti con Mosca restarono stretti anche quando Gianni Agnelli prese in mano la gestione del gruppo e poi con il plenipotenziario Cesare Romiti. La Fiat scommise su Michail Gorbaciov al punto che, una volta detronizzato, cominciò a scrivere per la Stampa. Anche le relazioni con Putin avevano un’ambizione geopolitica, in particolare dopo l’11 settembre 2001. Si cita sempre il vertice di Pratica di Mare nel maggio 2002 con Silvio Berlusconi tra George W. Bush e Vladimir Putin. Ma mentre in occidente si levava per l’ennesima volta la nenia sulla fine del capitalismo travolto dalla propria avidità, il ragno del Cremlino tesseva la sua tela e nel 2008 attaccava la Georgia. Nessuno capì o tutti chiusero gli occhi in Italia dove il traffico tra Fiumicino e l’aeroporto Domodedovo si era fatto intenso come non mai. Andavano da Putin il vecchio amico Silvio e i nuovi amici leghisti e grillini; anche Romano Prodi al governo nel biennio cruciale 2006-2008 teorizzava su meravigliose sorti e progressive per l’industria italiana. E fu zapoy, come chiamano in russo la grande sbornia.
La storia di Priolo è meno raccontata e val la pena cominciare dall’inizio, dall’acronimo LUK che diventa il marchio del secondo gruppo petrolifero mondiale dopo l’americana Exxon. La società poi chiamata Lukoil nasce quando l’unione sovietica sta morendo. Artefice è Vagit Jusufovic Alekperov, allora viceministro del gas e del petrolio. La Langepas-uray-kogalymneft non era che una filiale del ministero; due anni dopo, quando con Boris Eltsin arriva l’ondata di privatizzazioni, Alekperov si trasforma in manager, padrone e poi boiardo. Di origine azera, è nato a Baku, la storica capitale del petrolio russo, là dove Stalin il terrorista taglieggiava di volta in volta i Nobel e i Rothschild, signori dell’oro nero. Il padre, musulmano, ha lavorato nei pozzi tutta la sua vita troppo breve perché Vagit avesse un vero rapporto con lui. Ma la sua sorte gli è rimasta così impressa da decidere di riscattarlo. A diciott’anni trova posto nell’azienda petrolifera di stato, lavora e studia, si laurea nella locale università chimico-petrolifera, e comincia una brillante carriera. Gli tocca, come a molti tecnici russi, la dura educazione siberiana, là dove spaccare il permafrost per raggiungere le ricchezze nascoste sotto la dura terra è più arduo, richiede perizia, pazienza, audacia.
Sei anni tosti dal 1979 al 1985 durante i quali Alekperov si fa una ottima reputazione. Scala posizioni, diventa vicedirettore e poi direttore in alcune compagnie di punta. Su di lui mette gli occhi Gorbaciov alla ricerca di nuovi talenti per il suo sfortunato quanto impossibile tentativo di riformare il sistema sovietico. Nel 1990 è appena diventato viceministro, il più giovane mai arrivato in quella posizione, quando il Leviatano comunista implode. Vagit non ha intenzione di farsi travolgere, cavalca l’onda, segue la svolta dei riformisti, in dieci anni accumula un patrimonio che lo colloca al quarto posto tra i più ricchi della nuova Russia prima ancora che Vladimir Putin prenda in mano le redini dello stato. Non fa parte, dunque, dei magnati che debbono tutto al nuovo zar, Alekperov assomiglia più a Michail Chodorkovskij che a Miller o a Secin. Ma non ha mai sfidato il potere, è sempre rimasto fuori dai riflettori nonostante la sua ricchezza. Religioso anche se si definisce né musulmano né cristiano, colleziona francobolli e si è distinto durante la pandemia per le sue donazioni. In aprile, con l’invasione dell’ucraina e le sanzioni, ha lasciato le redini della Lukoil, diventata la seconda al mondo dopo la Exxon. Nel 2002 aveva varcato gli oceani acquistando le pompe di benzina della Getty Petroleum negli Stati Uniti e allargando così la sua già vasta rete distributiva. L’italia appare sul suo radar nel 2008 quando la Erg della famiglia Garrone decide di uscire dalla grande raffineria di Priolo.
Facciamo un altro passo indietro fino alla ricostruzione post bellica. E’ allora, infatti, che la Sicilia diventa la grande piattaforma petrolchimica d’italia. Angelo Moratti nel 1949 dà il la con un impianto dove arrivava il greggio estratto sull’altipiano ibleo in provincia di Ragusa – alla fine degli anni 50 entravano e uscivano fino a otto treni cisterna al giorno. Petrolio, poi elettricità con la centrale termoelettrica dell’enel, la chimica con la Edison insieme alla Union Carbide che formano una società chiamata Celene. Insomma si crea un sistema integrato nel quale arriva il greggio, sempre più via mare dal Nord Africa e dai paesi arabi attraverso il canale di Suez, per essere trasformato. Il porto di Augusta diventa l’attracco di un flusso petrolifero che entra nel cuore dell’europa. Nemmeno la crisi degli anni 70 ferma questa irresistibile avanzata. Nel 1975 quando il greggio era schizzato in alto quattro volte più che pochi anni prima, nasce la Isab che nel 2002 integra anche la ex Agip di Priolo, diventando uno dei più efficienti complessi petrolchimici europei, finché non scoppia la bolla finanziaria nel 2008. Garrone non ce la fa, vira verso le fonti rinnovabili e, sia pure a tappe, cede la società alla Lukoil che dal 2013 possiede il 100 per cento attraverso una società lussemburghese.
Crisi economiche, lotta all’inquinamento, magistratura, competizione internazionale, riconversione ecologica, l’intero polo siracusano è sottoposto a una serie di scosse telluriche. Finché Putin non invade l’ucraina. La Lukoil se la cava meglio di altre compagnie russe, all’inizio solo Gran Bretagna e Australia la iscrivono nella lista nera. Il petrolio non segue le sorti del gas, ma arrivano gli Stati Uniti e anche l’unione europea si allinea. L’ultima goccia di greggio russo sgorgherà nella prima settimana di dicembre. Le banche s’allarmano e chiudono i rubinetti. Lukoil incarica i banchieri d’affari di cercare un compratore, ma non vuole fondi a stelle e strisce. E allora? Allora cala in Sicilia lo stato petroliere. I sindacati e i poteri locali sono uniti nel chiedere la nazionalizzazione come ha fatto la Germania per la raffineria della Rosneft. Ed è cronaca di questi giorni. L’impianto è buono, ma le raffinerie sono un business del passato e stanno smobilitando via via in tutta Europa. Non la pensano così a Priolo dove tirano in ballo l’eni. Marina Noè, presidente dell’assoporto di Augusta, ha proposto direttamente “l’ingresso dello stato nella proprietà attraverso l’eni”. Benché la Isab non sia sottoposta a sanzioni, il fatto che sia riconducibile alla Lukoil ha spinto le banche a interrompere il credito. L’azienda è stata costretta ad approvvigionarsi esclusivamente dal greggio di Mosca, ma dal sei dicembre, quando scatta l’embargo, potrebbe trovarsi senza prodotto da raffinare. Il governo Meloni ha emesso una lettera per rassicurare gli istituti bancari e riaprire i flussi di credito. Un tentativo non andato a buon fine, secondo Noè: “Le banche sono rimaste immobili, e questo crea un problema sia a livello nazionale, visto che Isab soddisfa gran parte del fabbisogno petrolifero del paese, sia territoriale per la perdita di migliaia di posti di lavoro. Deve essere fatto un passo avanti verso la compartecipazione, se non addirittura l’acquisizione completa, della Lukoil da parte dello stato”. All’eni non risultano né proposte né tanto meno pressioni da parte del governo, fino a questo momento. “L’ipotesi non è mai stata considerata”, è la posizione ufficiale. La compagnia deve rispondere agli azionisti privati che hanno il 70 per cento del capitale: come spiegare loro l’ingresso in un’attività considerata obsoleta mentre si riconvertono gli impianti di Gela e Porto Marghera per produrre bio carburanti? A Priolo il “cane a sei zampe” possiede un petrolchimico e non ha intenzione di compiere passi indietro. Può darsi che si ricorra a una società veicolo, partecipata da aziende pubbliche, banche “di sistema”, fondi sovrani (e sovranisti). E’ tutto nelle mani del governo Meloni.
Nessuno oggi vorrà chiudere l’isab anche se la logica economica lo consiglierebbe, tuttavia lo stato non è in grado di sciogliere tutti i lacci e lacciuoli russi. Sganciarsi non è facile né per la Sicilia né per l’italia nel suo insieme. Nemmeno il tempio della musica, la Scala, riesce a “deputinizzarsi” (copyright Corriere della Sera). In nome dell’arte, ça va sans dire, Zar Vlad ha sempre sponsorizzato i suoi cantanti e i suoi orchestrali. E così la stagione si apre il 7 dicembre, in questo anno fatale per gli ucraini, con “Borís Godunóv” di Musorgskij, storia del successore di Ivan il Terribile impazzito davanti alla sfida dei polacchi guidati dal falso erede legittimo. Ogni riferimento è puramente casuale.

Fonte: Il foglio