Giulio Silvano
Il 6 agosto del 2015 sul palco della Quicken Loans Arena, a Cleveland, sedici dei diciassette candidati repubblicani che si sfidavano alla presidenza avevano avuto esperienza politica, tra governatori, senatori, deputati e advisor nelle campagne altrui. L’unico senza un passato al servizio della repubblica o di un partito era Donald J Trump. Nonostante le sopracciglia alzate della stampa, in pochi mesi il tycoon sconfisse tutti gli altri e venne annunciato come candidato del GOP. Il 23 agosto di quest’anno, sul palco del Fiserv Forum a Milwaukee, degli otto candidati presenti solo uno non ha alcuna esperienza politica, Vivek Ramaswamy. Con Trump assente, impegnato nel suo monologo con Tucker Carlson su Twitter, non è un caso che Ramaswamy sia stato incoronato come il vincitore del dibattito. L’antipolitica è ancora forte nella destra americana. Establishment e deep state sono ancora parolacce. Non sono cambiate molte cose da quel 2015, nonostante attacchi al Congresso e tentativi di colpi di stato. Il millennial quasi miliardario Ramaswamy è stato, durante il dibattito, un difensore indefesso di Trump, arrivando a dire: “è stato il miglior presidente del secolo”. Ne ha condiviso l’atteggiamento isolazionista e antiucraino e ha detto che lo grazierebbe immediatamente dalle varie incriminazioni, se dovesse essere eletto. E Trump, che adora essere elogiato, ha risposto applaudendolo come il migliore della serata. “Spero arrivi secondo”, cioè sopra il governatore della Florida Ron Desantis. Spigliato, tra l’arrogante e il frizzante, con la giusta dose di aggressività Ivy League, modello Tea Party ripulito dall’estetica big tech di Palo Alto, fino a poche settimane fa il giovane imprenditore era dato per spacciato, con quell’uno per cento nei sondaggi che accomuna molti altri candidati. Poi è risalito quasi al dieci percento, e questo si deve al suo cavalcare il sentimento antiwoke, ma senza che sia la sua unica cifra ideologica. L’immagine del self made man lontano dai corridoi di Washington continua a mietere vittime nell’elettorato del GOP. Figlio di genitori borghesi nati in India, Ramaswamy, trentottenne imprenditore biotech, è cresciuto in Ohio e ha fatto i soldi fondando un’azienda farmaceutica. Forbes dice che sfiora il miliardo di patrimonio. Accademicamente ambizioso, dopo una scuola gesuita, seppur induista, ha fatto prima Harvard e poi Yale – nella checklist del cv presidenziale – dove nel tempo libero faceva delle cover rap di Eminem infilandoci messaggi libertari. Dice che fino alle elezioni del 2020, dove ha appoggiato Trump, non ha mai votato. Ha scritto tre libri dove cerca di demolire la cultura woke che si sta mangiando le università americane, Hollywood e le case editrici. In uno, “Woke Inc”, discute dei danni fatti dentro le aziende per via delle politiche forzatamente inclusive, egualitarie ed ecologiste. Le sue proposte sono un misto di abuso di ordini esecutivi e soluzioni libertarie in odore populista.
Vuole alleggerire lo stato, smantellare il dipartimento dell’educazione e l’fbi, e mandare a casa molti dipendenti pubblici. Dice che vorrebbe alzare l’età di voto per i non militari a 25 anni, a meno che non si faccia un esame di educazione civica. Se eletto toglierebbe ogni forma di aiuto all’ucraina. Ha detto che sarebbe in grado di negoziare una maggiore stabilità nel medio oriente in modo che un aiuto americano a Israele non sia più necessario. Vuole brandizzarsi, superficialmente, come un Trump millennial, ma è soprattutto un figlio politico di un libertarianesimo utopista che esalta Elon Musk più che Ayn Rand e che fa della meritocrazia e del successo personale l’unico faro morale. Trump gongola, nonostante la foto segnaletica fatta in Georgia. Gongola perché vede i contendenti repubblicani in crisi, e l’unico che sembra avere un po’ di visibilità e creare qualche inaspettato entusiasmo è quello che cerca di assomigliargli di più.