I musulmani di Sicilia non consumavano vino, ma non ne disprezzavano il valore economico e, di conseguenza, lo esportavano dal porto di Palermo perfino in terre cristiane, rimettendo la Sicilia al centro degli scambi del Mediterraneo. E’ quanto emerge da una ricerca condotta sulle anfore medievali scoperte nell’isola, messa a punto da un team dell’Università di York, di quella romana di Tor Vergata (guidato da Alessandra Molinari) e di Catania con Lucia Arcifa, docente di Archeologia medievale nell’Università etnea.
Lo studio si basa, ha spiegato ad Archaeology (pubblicazione dell’Istituto di archeologia americano) Lea Drieu del dipartimento di Archeologia di York, su “nuovi test tecnici in grado di determinare se i residui nelle anfore fossero di uve o altri frutti”. Le molecole individuate sono risultate molto simili a quelle presenti nelle giare di ceramica usate di recente da diversi enologi che hanno riscoperto le potenzialità della fermentazione in vasi di ceramica. L’analisi, rileva lo studio (pubblicato dall’Accademia nazionale delle scienze degli Usa), ha riguardato 109 anfore da trasporto provenienti da un arco di tempo che va dal quinto all’undicesimo secolo.
I ricercatori hanno estratto e misurato i composti organici presenti nelle anfore. Poi hanno riempito di uva diverse copie dei vasi e le hanno sotterrate per dodici mesi, così da avviare la fermentazione. Infine hanno comparato i residui medievali con quelli moderni. Per individuare se si trattasse davvero di uva, hanno lavorato sul rapporto tra acido tartarico e acido malico, considerando che tale rapporto è molto diverso nel vino da quello esistente nella frutta fresca. “Il contenuto nelle anfore medievali – ha aggiunto Drieu – era certamente vino”.
“Siamo di fronte a un avanzamento della ricerca – spiega Arcifa all’AGI – anche sul piano del metodo. Avevamo già percepito con gli strumenti della ricerca archeologica tradizionale l’importanza che assumevano Palermo e il suo hinterland al centro di nuovo mondo economico. Si trattava di cominciare a comprendere cosa viaggiasse in quei contenitori. Non sapevamo cosa vi fosse dentro: ci sono venute in aiuto da un lato le nuove frontiere delle scienze dure, qualcosa che un decennio fa era impensabile, e dall’altro il progetto europeo di ricerca Grant, che ha dato modo di unirci ai ricercatori di York”, specializzati in questo metodo di approfondimento.
La civiltà islamica siciliana non solo commercializzava il vino, ma lo produceva in quantità forse più significative di quanto lo fosse prima dell’arrivo dei musulmani nell’isola nel IX secolo. “L’alcol non giocava, e continua a non farlo, un ruolo importante nella vita culturale della società islamica. Ci interessava capire come quella civiltà potesse svilupparsi in una regione in cui il vino aveva una sua rilevanza agricola”, ha spiegato alla rivista scientifica australiana Cosmos Martin Carver, anche lui del dipartimento di York.
“Non solo si sviluppava – ha sottolineato Carver – ma riuscì a costruire sul vino una solida base economica, facendone un’industria che costituì uno degli elementi centrali del suo successo”. La ricerca non determina se il vino fosse bevuto o meno dai musulmani nè, si legge, “è semplice definire una correlazione tra il trasporto del vino e l’ascesa dell’Islam”, ma di certo, spiega Oliver Craig, docente al centro BioArch in cui è stata fatta l’analisi, “adesso si ha a disposizione un test rapido e affidabile per i prodotti a base di uva in contenitori di ceramica, e sarà interessante indagare sulla storia più profonda, e persino sulla preistoria, della produzione e del commercio di vino nel Mediterraneo”.
In questo mare la Sicilia tornò, con l’Islam, a giocare un ruolo di primo piano. L’isola, sottolinea Arcifa, ebbe “un ruolo centrale, inserita nelle rotte commerciali che si muovono a partire da Alessandria d’Egitto, dal Maghreb. Il mondo islamico rivitalizza lo scambio dell’isola con l’esterno, lo rimette in movimento”.
Source: agicultura