PICCOLA POSTA Adriano Sofri
Nanterre, le banlieues francesi, le periferie italiane, Primavalle… A Napoli, da 25 anni, prima col nome “Chance”, poi con la Onlus “Maestri di strada”, alcune decine di educatori e insegnanti fanno sì che bambine e bambini, ragazze e ragazzi, non disperdano le proprie risorse personali, le proprie energie vitali. Non saprei chiamare periferia il vasto e vulcanico territorio in cui abitano e operano. C’è un punto, in corso San Giovanni, con un’edicola religiosa, un Crocifisso ottocentesco, eretto in luogo di uno risalente all’eruzione del Vesuvio del 1631, dall’officina ferroviaria di Pietrarsa – che ora è un fantastico Museo della ferrovia – chiamato Croce del Lagno (i Regi Lagni erano canali di scolo, un’etimologia popolare fa del Lagno un lamento del crocifisso contro manomissioni sacrileghe). In quel punto si congiungono tre comuni, San Giovanni a Teduccio, Portici e San Giorgio a Cremano. Poco più oltre, Ponticelli e Barra, con la loro studiata cattiva reputazione. La casa di famiglia dei Moreno, sul corso, è nel comune di San Giovanni, il giardino sul retro su quello di San Giorgio. Una specie di cosmopolitismo periferico. L’impresa fa capo a Cesare Moreno, Cavaliere della Repubblica dal 2001, che va con i sandali francescani anche d’inverno dal 2009, dopo che le autorità mancarono ai loro impegni, che subito prima e subito dopo il famoso ’68 studiava brillantemente Fisica a Pisa, fu mente e anima della ribellione studentesca (“la scuola italiana è scuola di classe due volte…”), tornò a Napoli e a 38 anni, nel 1983, decise di diventare maestro elementare, come sua madre. Sua moglie, Carla Melazzini, era stata una ammirata allieva della Scuola Normale e l’aveva lasciata, per insofferenza ai privilegi. Si era dedicata all’insegnamento, scegliendosi i posti e le scolaresche più impervie e disgraziate, facendole luccicare, e costruendoci sopra un pensiero pedagogico magnifico, divulgato dopo la sua morte precoce, nel 2009, da un libro di Sellerio che ha fatto epoca, “Insegnare al principe di Danimarca”, che sarà ripubblicato a settembre in un’edizione accresciuta. Ormai io vedo Cesare Moreno ogni tanto, e lo conosco meno dei suoi collaboratori e allievi. Ma ho visitato con lui la sede dei Maestri di Strada a Ponticelli. Era domenica, era vuota, purtroppo – c’era il gatto Forest, non Gump, crasi di d’afora e di Napoli est, che se n’è intitolato custode, in attesa di un collega umano – ma bastava a farsi un’idea. E’ molto grande, si chiama Cubo, fu una scuola poi lasciata in malora, è presa in affitto dal Comune di Napoli, ha parti magnifiche – un teatro all’aperto, uno al chiuso, stanze attrezzate della musica, lavoro di architetti e ingegneri e muratori volontari, mobilio di design smesso e regalato da aziende non grette, librerie ubique, aule e laboratori diversi su due piani, una cucina sontuosa e lustra capace di 200 avventori – e parti scalcagnate, compreso il tetto, comprese porte e infissi, compresi rubinetti e tubi. Moreno è la persona che più si avvicina a un genio rinascimentale, a uno di quei letterati scienziati filosofi capomastri e titolari di bottega, non so, Luca Pacioli, Leon Battista Alberti, che fecero dell’italia un caso irripetuto. E’ da tempo una specie di guru internazionale dell’educazione in luoghi fatti per escludere e condannare i loro cuccioli, ed è anche quello che ripara il tetto e i rubinetti con le sue mani e con la sua cognizione di causa. Mentre maneggiava una porta cigolante mi ha riraccontato la storia di Santillana e del Mulino di Amleto e della rotazione dell’asse terrestre completata in 25.960 anni, misurati già dai nostri antenati mesopotamici ed egizi, che fa uscire il tempo dai suoi cardini. Contando gli interventi nelle scuole “regolari”, l’attività dei Maestri di strada coinvolge direttamente 2 mila ragazzi. E le loro famiglie, naturalmente. Cesare sa tante cose che bisogna che abbia cura di sé, e non ecceda nella dispersione delle sue energie: se se ne andasse, altro che biblioteca di Alessandria. Le famiglie non sono tutte povere, non sono tutte malavitose. Quando lo sono, almeno non desiderano per i figli una vita come la loro. I figli spesso la desiderano, a un’età via via più precoce, con un destino via via più segnato. Stanno in un mondo piccolo, dove immaginano di spadroneggiare, e per uscire dal loro raggio di pochi chilometri, nel grande mondo ignoto del quartiere prossimo – o perfino del Centro – hanno bisogno di essere in banda e in motorino, e tornare alla svelta. Il Cubo, Cantiere urbano beni comuni, è come un planetario. “Noi entriamo in relazione con giovani persone che spesso non sostengono il cambiamento, non riescono ad accettare che la loro vita possa essere migliore e diversa dai copioni prestabiliti. Non riesce a rispettare ciò che gli sta intorno, il pianeta Terra, chi non riesce a sostenere neppure il peso delle proprie risorse; chi dissipa e disperde la propria vita dissipa e disperde le risorse della Terra. Noi maestri di strada abbiamo accumulato un buon capitale sociale perché ‘curiamo chi cura’, tutti i mercoledì ci prendiamo cura di noi stessi, cerchiamo di medicare le tante ferite che raccogliamo nella periferia di questa città. Molte volte queste sedute sono piene di lacrime. Voi non avete idea della quantità di dolore che questi cinquanta educatori raccolgono nei recessi di questa città, nel suo lato oscuro”.
Ho cercato nel sito i nomi e le storie delle altre decine di persone, educatrici, fabbri ferrai, psicologi, artisti, falegnami, amministratrici, cuochi, saltimbanchi, che fanno vivere i Maestri di strada. Molti ne erano stati allievi. Del resto qua non si smette di imparare, anche insegnando. Cercate anche voi. E se andate a Napoli – tutti vanno a Napoli, c’è una densità di popolazione turistica più che veneziana, e per chiedere un’indicazione stradale l’unica è contare sui bengalesi o sulle senegalesi – visitate il Cubo, troverete pane per i vostri denti. Io poi sono sensibile alla promozione qualificata, e quando ho visto Samantha Cristoforetti l’anno scorso sulla sua nave con la maglietta dei Maestri di Strada mi sono rallegrato per me e per Cesare, quel precessore di equinozi.
Fonte: Il Foglio